Concludiamo il ciclo di approfondimenti a cura del gruppo di ricerca di WePlat, progetto che sta studiando le piattaforme di welfare italiane. Dopo gli articoli su processo di mappatura, mancata uberizzazione, designreputazionescalabilità, sfide, “addomesticamento“, ruolo degli utenti e delle community, tiriamo le fila di alcune delle questioni finora emerse nell’ambito della ricerca e le relative domande che hanno sollevato.

Le piattaforme digitali, come spiegavamo nel nostro primo contributo sul tema per Secondo Welfare, sono sempre più importanti per trovare, confrontare e usare servizi di cui abbiamo bisogno. Oggi, infatti, le usiamo ad esempio per ordinare una cena, vedere un film, comunicare con gli amici, prenotare un viaggio o incontrare un partner.

Le piattaforme negli ultimi anni hanno iniziato ad avere una crescente importanza anche nel settore del welfare, dove l’emergere di nuovi bisogni sociali e l’aumento delle diseguaglianze hanno fatto emergere la necessità di individuare strade innovative per farvi fronte. Per studiare gli elementi distintivi delle piattaforme che operano in questo ambito è nato WePlat – Welfare Systems in the Age of Platforms, progetto di ricerca realizzato da Università Cattolica del Sacro Cuore, Università di Padova, Collaboriamo e Consorzio CGM grazie al sostegno di Fondazione Cariplo.

Negli ultimi mesi vi abbiamo raccontato di WePlat attraverso alcuni articoli pubblicati su Secondo Welfare (tutti disponibili in calce a questo contributo), con cui abbiamo presentato le tante riflessioni che stanno emergendo della ricerca. Per concludere, abbiamo individuato 10 risultati principali, a cui corrispondono altrettante nuove domande di ricerca.

1. L’importanza dell’imprinting

Le piattaforme di welfare rispecchiano il contesto in cui sono state progettate. I provider di welfare aziendale nascono venti anni fa, incorporando le logiche delle piattaforme di e-commerce di quel periodo, basate su una vetrina di servizi. Nonostante le numerose release successive, queste piattaforme mantengono una sorta di imprinting, che hanno trasmesso anche alle piattaforme di welfare territoriale. Il Terzo Settore si è avvicinato al mondo delle piattaforme con l’obiettivo di creare un’offerta diretta di welfare aziendale. Poi, anche a causa della pandemia, ha ampliato il proprio raggio di azione e ha creato quelle che oggi definiamo piattaforme territoriali, che replicano le vetrine del welfare aziendale. Le piattaforme che abbiamo definito di welfare digitale invece sono nate negli ultimi anni e hanno preso a modello le piattaforme di matching che hanno successo in altri settori, come Uber o Airbnb. Come in questi settori, anche nel welfare molte piattaforme nate come B2C stanno ora integrando il B2B. Nella costruzione di questi legami interorganizzativi, le piattaforme mostrano una preferenza nei confronti di altre aziende piattaforma. Questo potrebbe determinare l’emergere di nuovi ecosistemi digitali.

Con il rafforzarsi degli scambi tra piattaforme di welfare aziendale, territoriale e digitale i meccanismi imitativi porteranno alla costruzione di un unico campo organizzativo o continuerà a prevalere l’imprinting?

2. Non solo uberizzazione

Se Uber ha ispirato il design delle piattaforme in altri settori, i servizi di cura presentano elementi distintivi per cui non si può parlare di “uberizzazione del welfare”. In Italia, non c’è una piattaforma che detenga il monopolio dei servizi alla persona. Al contrario, si registra una certa frammentazione dell’offerta, con 127 piattaforme che offrono servizi nell’ambito dell’assistenza sociosanitaria, educazione e cura dell’infanzia, salute fisica e mentale. Quasi tutte le piattaforme sono nate in Italia e spesso presentano tratti di radicamento territoriale. La questione della tutela dei diritti dei lavoratori è meno rilevante rispetto ad altri settori, perché nelle piattaforme di welfare territoriale i servizi vengono offerti da organizzazioni del Terzo Settore, da cui dipendono contrattualmente gli operatori mentre nelle piattaforme di welfare digitale prevalgono le professioni regolate attraverso ordini professionali. La questione della protezione e tutela dei lavoratori mantiene la propria centralità solo nelle piattaforme di welfare digitale che intermediano servizi offerti da lavoratori non iscritti agli ordini (per esempio, gli assistenti domiciliari).

La presenza di una pluralità di piattaforme di welfare verrà superata con il raggiungimento di una maggiore maturità del settore o rimarrà connaturata ai servizi offerti?

3. Le piattaforme non sono strutture piatte

La retorica della disintermediazione ci ha ingannati: le piattaforme hanno un ruolo fondamentale nell’intermediare le relazioni tra chi le utilizza. Le piattaforme possono creare mercati, reti e persino gerarchie. I professionisti della cura abituati a lavorare in autonomia o in piccoli studi associati possono trovarsi all’interno di strutture organizzate attraverso gerarchie anche piramidali. Il caso più interessante è quello delle piattaforme per consulenze psicologiche online, che hanno avuto una forte diffusione dopo la pandemia. Ci sono piattaforme che organizzano il lavoro di migliaia di psicologi e psicoterapeuti, introducendo ruoli di coordinamento e supervisione. Queste piattaforme si muovono dunque all’incrocio tra diverse logiche: la logica di piattaforma (con i suoi tratti distintivi: l’apertura, la logica di rete, la centralità del consumatore), la logica professionale (in qualche caso regolata anche attraverso ordini) e la logica di cura (che attribuisce centralità alla relazione e al valore generato dal lavoro essenziale di riproduzione e mantenimento della vita umana).

La presenza di logiche diverse, potenzialmente contraddittorie, rappresenta un elemento di irrisolutezza nel campo del welfare o una peculiarità che contribuisce a ridefinire, almeno in parte, ciò che definiamo “piattaforma”?

4. Nelle piattaforme di welfare non sempre ci sono servizi di welfare

Nelle piattaforme di welfare, soprattutto di welfare aziendale, l’offerta di servizi di cura alla persona appare in minoranza, a volte netta, rispetto a trasferimenti monetari in forma di buoni spesa e altri fringe benefit. Una componente, quest’ultima, che risulta difficile da scalzare da parte dei produttori di servizi perché sempre più radicata nei modelli di consumo degli utenti grazie anche alla presenza preponderante di piattaforme di e-commerce che consentono di convertire facilmente la risorsa economica messa a disposizione. Certo anche i buoni possono essere spesi per l’acquisto di servizi riconducibili a una qualche concezione di “welfare”, però è altrettanto vero che spesso tali prestazioni si collocano ai margini o al di fuori di quel paniere di offerta che viene definito e “certificato” dalla Pubblica Amministrazione come protezione sociale.

In un settore che è ampiamente regolato da politiche pubbliche, come si può intervenire per favorire l’intermediazione di veri e propri servizi sociali attraverso le piattaforme?

5. Il copia e incolla non basta

La tendenza all’allungamento e alla diversificazione della filiera dei servizi di welfare nelle piattaforme non è riconducibile al solo effetto traino esercitato dai buoni spesa ma anche alle scelte dei provider dei servizi, in particolare di quelli che operano nei settori più consolidati del welfare “analogico”. Il trasferimento sic et simpliciter della loro offerta dai quasi mercati pubblici (con le loro tassonomie, descrizioni, criteri di erogazione) alle piattaforme digitali si sta rivelando più complicato del previsto soprattutto in termini di allargamento del bacino di utenti consumatori. Ecco quindi una rincorsa, potenzialmente generativa ma certamente faticosa, ad arricchire l’offerta agendo sia all’interno delle organizzazioni fornitrici – che mettono a valore servizi fin qui non considerati o marginali – sia sollecitandola e organizzandola da provider esterni che vanno comunque accreditati per evitare la polverizzazione dei sistemi di offerta.

Su quali basi avviene la trasformazione digitale delle piattaforme di welfare? In che modo essa riguarda non solo la riprogettazione di singole attività ma anche il loro raggruppamento in cluster da cui scaturisce una diversa impostazione dei sistemi di welfare?

6. Il ritorno del segretariato sociale

Oltre ai servizi, nelle piattaforme di welfare si sta sempre più manifestando una ulteriore e tipica declinazione del welfare, ovvero quella che con un termine âgè si potrebbe definire segretariato sociale. Si tratta di sistemi informativi che orientano, e a volte abilitano, i cittadini nella scelta dei servizi colmando le ben note (e strutturali) asimmetrie informative che caratterizzano questo campo. Un layer sempre più importante che sta diventando un’area di business – basti pensare alle startup che fanno da broker per l’accesso ai vari “bonus” riconosciuti in particolare in questi ultimi anni – di innovazione tecnologica, ad esempio grazie a chatbot di intelligenza artificiale e wizard che decodificano i bisogni e cercano di fare matching con l’offerta. Da questi servizi può anche passare il recupero della vocazione professionale di operatori che criticano la mercificazione dei servizi veicolati attraverso piattaforme di puro e-commerce.

Come si posizioneranno le piattaforme tra tendenze in qualche modo “manipolatorie” e, all’opposto, le possibilità offerte da questi strumenti per rilanciare l’advocacy in ambienti che da questo punto di vista sono ancora un po’ “freddi” in quanto spesso si configurano come marketplace? Che ruolo giocano gli utenti, nell’addomesticare e appropriarsi delle piattaforme?

 7. Se il back conta più del front

Può sembrare quasi un paradosso ma in alcuni casi le piattaforme di welfare vengono usate soprattutto come sistemi gestionali interni piuttosto che come interfaccia verso utenti e più vasti contesti territoriali. Servono quindi ai provider, ad esempio per orientarsi all’interno di complessi sistemi di regolazione da cui dipendono l’accesso ai servizi e le loro modalità di erogazione. Nel welfare territoriale questo a volte dipende dal fatto che la piattaformizzazione si innesta su procedure non ancora digitizzate (passaggio da supporti analogici a digitali), con situazioni di duplicazione tra cartaceo e digitale, che rallentano la digitalizzazione (impiego di tecnologie digitali per cambiare processi e pratiche organizzative) e introducono fenomeni di resistenza da parte degli operatori. In altri casi, può invece essere funzionale alla costruzione di nuovi ecosistemi a livello locale.

In questa prospettiva, la standardizzazione delle procedure favorirà l’ingresso di nuovi attori nell’ecosistema o, al contrario, cristallizzerà i rapporti di forza già esistenti?

8. La comunità conta più della community e il digitale si radica nei territori

Nelle piattaforme che abbiamo analizzato, le community digitali sono ancora poco sviluppate. Nelle piattaforme territoriali, il passaparola tra utenti e le relazioni dirette con gli operatori guidano ancora il processo di scelta e fruizione del servizio. Queste piattaforme si basano su logiche di fiducia interpersonale veicolata attraverso relazioni preesistenti all’esperienza nella piattaforma in quanto parte di altre forme comunitarie e spesso non prevedono meccanismi reputazionali o spazi di interazione diretta in piattaforma. Tra le piattaforme digitali si registra qualche esperienza – ancora limitata – di coltivazione di community ma riguarda esclusivamente i professionisti e non gli utenti. Anche nelle piattaforme che erogano servizi online, il territorio conta: gli utenti risiedono prevalentemente al Nord Italia, mentre gli operatori sono distribuiti anche nel Centro e Sud Italia. Queste dinamiche dipendono, da un lato, dall’alfabetizzazione – culturale, più che funzionale – al digitale e dal persistente dualismo Nord-Sud nel mercato del lavoro italiano.

Quale rapporto costruire tra comunità professionali tradizionali (associazioni, ordini, scuole ecc.) e le nuove community professionali digitali? Quale ruolo possono giocare le community di utenti in questi servizi? Come evitare che l’offerta di servizi digitali anziché rappresentare un’opportunità per i territori che presentano una minore dotazione di servizi vada a rafforzare ulteriormente le disuguaglianze pre-esistenti?

9. La policy passa dai dati

Nelle piattaforme di welfare riprende forma un ulteriore elemento tipico di questo ambito ovvero la dimensione di policy, che solitamente si declina in senso programmatorio. Da questo punto di vista le piattaforme di welfare iniziano ad agire come strutture di supporto mettendo a disposizione una loro importante risorsa ovvero i dati. Importante perché fruibile “in corso d’opera” (e non ex post come succede con banche dati generati offline) e perché spesso riguarda ambiti e fruitori che sfuggono ai sistemi informativi tradizionali. In questo modo le piattaforme di welfare possono contribuire ad alimentare, e forse anche a guidare, un vero e proprio design strategico che peraltro non riguarda solo i servizi sociali in senso stretto, ma lo sviluppo socioeconomico a più ampio raggio essendo il welfare riconosciuto sempre più come vettore di sviluppo, in particolare a livello locale e con intenti trasformativi.

Come passare da modelli basati sull’estrazione di valore dai dati prodotti dagli utenti a logiche di condivisione e redistribuzione del loro valore anche per alimentare nuovi modelli di policy making?

10. Le piattaforme come bene collettivo locale

Nelle piattaforme di welfare la dimensione della governance appare poco rispondente rispetto alle sfide di sviluppo fin qui delineate ovvero diversificazione dei sistemi di offerta, contributo in termini di orientamento ed empowerment della domanda e qualità dei processi di policy making. Ma se queste tre dimensioni crescessero in termini di rilevanza agli occhi dei diversi stakeholder allora la questione di “chi sono” le piattaforme non solo in termini strettamente proprietari ma di senso di appartenenza e quindi di interesse a determinarne le scelte di sviluppo e di investimento crescerebbe ulteriormente di rilevanza. E così molte di queste piattaforme oggi considerate beni strumentali potrebbero configurarsi come asset comuni riconosciuti da una pluralità di interlocutori che li “abitano” come fruitori, erogatori, finanziatori, developer.

Quale riorientamento strategico dei gestori e quali politiche di regolazione sono necessarie per progettare e coltivare piattaforme intese come beni collettivi locali?

 

Foto di copertina: John Schnobrich, Unsplash