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Continuano gli approfondimenti a cura del gruppo di ricerca di WePlat, progetto che sta studiando le piattaforme di welfare italiane. Dopo gli articoli su processo di mappatura, mancata uberizzazione, designreputazionescalabilità, sfideaddomesticamento e ruolo degli utenti parliamo di community.

Se c’è una parola che forse più di ogni altra ci si aspetterebbe distinguesse le piattaforme di welfare dalle piattaforme di altri settori è comunità o, per dirla al digitale, community. In realtà, invece, si è già visto, da una prima ricognizione delle piattaforme prese in esame, che così non sembra. Almeno lato utenti, perchè all’interno dell’interfaccia delle piattaforme analizzate non sono presenti strumenti che abilitano la conversazione e la collaborazione.

Tuttavia il tema delle community è fortemente legato a quello delle piattaforme tanto più se l’obiettivo del servizio è quello di sostenere persone con fragilità. Ecco perché, all’interno dell’evento di coprogettazione con le piattaforme di welfare che si è tenuto lo scorso 17 maggio in Fondazione Feltrinelli, abbiamo voluto approfondire trasversalmente le opportunità e le sfide che la costruzione di una community può lanciare alle piattaforme di welfare, declinando il concetto in diversi ambiti (digitale, territoriale, e aziendale) e su diversi attori (membri e operatori).

Da qui nasce questo breve resoconto dedicato solamente alle piattaforme digitali rimandando a un altro contributo quanto emerso dai tavoli dedicati alle piattaforme territoriali e aziendali.

I possibili rischi di una community di utenti

Le community dei caregiver, delle persone afflitte da una stessa patologia, e più in generale delle diverse categorie di persone che frequentano i servizi di welfare, possono essere un’opportunità per gli utenti stessi, che vi possono trovare supporto, consigli, notizie, e anche per le piattaforme che, dalla collaborazione fra pari possono rilevare nuovi bisogni, dati su abitudini e comportamenti, informazioni. Tuttavia, i servizi presenti ai tavoli di WePlat ritengono che implementare una community di utenti allo scopo di favorire il supporto fra pari può risultare complicato e, per le piattaforme socio sanitarie, addirittura “rischioso”.

In particolare queste ultime ritengono che la molteplicità di bisogni e patologie dei loro utenti le costringerebbe a creare non una community ma molte, che sarebbe complicato gestire soprattutto per la fase di start up in cui si trovano. Inoltre, il supporto fra pari, secondo i gestori, potrebbe favorire la moltiplicazione di diagnosi non professionali con una ricaduta importante sulla credibilità della piattaforma: “oggi spesso i pazienti si presentano dal medico con la diagnosi e quasi cercano un avvallo più che una visita; una community fra pari potrebbe far crescere questa tendenza che, invece, dobbiamo cercare di arginare”, ha dichiarato uno dei partecipanti. Inoltre le piattaforme digitali di welfare che si sono confrontate temono che le community fra pari potrebbero far emergere figure che, per il loro attivismo e per la loro leadership, diventano veri e propri punti di riferimento per altri utenti, senza avere una competenza scientifica e professionale. D’altra parte inserire professionisti all’interno della community per monitorare la qualità delle informazioni, secondo le piattaforme, diventerebbe controproducente, perché i pazienti potrebbero mettersi direttamente in contatto con il professionista disintermediando la piattaforma: il cosidetto freeriding, vero spauracchio di tutte le piattaforme.

Il modello di servizio

La prudenza delle piattaforme italiane è interessante soprattutto se si mette a confronto con la recente letteratura che invece dimostra l’efficacia delle community composte da persone afflitte dalla stessa patologia. In particolare il supporto fra pari può diventare complementare a quello ricevuto dai professionisti perché più continuativo ed empatico. Per tentare di spiegare questo atteggiamento delle piattaforme di welfare digitale, quindi, si può provare ad approfondire il loro modello di servizio. Questo prevede il matching fra la domanda e l’offerta che comporta un investimento su entrambi i lati della piattaforma. Ma quale dei due attrae l’altro? Nasce prima l’uovo o la gallina? (il famoso egg and chicken problem delle piattaforme).

Le piattaforme di matching in molti casi scelgono di prediligere l’offerta considerandolo un attrattore per la domanda. È così che fanno per esempio Airbnb e Blablacar che, infatti, negli anni hanno sviluppato una community di host e di autisti. Diverso sarebbe stato il caso se al tavolo di co-progettazione fossero state presenti piattaforme che avevano l’obiettivo di aggregare utenti uniti da una stessa e sola condizione (ad esempio genitori single o malati di diabete) al fine di farli incontrare o di supportarsi. A differenza delle piattaforme di matching queste si posizionano su un solo lato, quello della domanda, che costituisce il loro core business. L’abilitazione degli utenti, in questi casi, è una necessità per far crescere il servizio e renderlo sostenibile.

Tuttavia il supporto fra pari potrebbe non essere l’unica leva per fare community fra utenti. Lo stesso bisogno denunciato dalle piattaforme di rendere i propri utenti più informati potrebbe diventare uno scopo su cui fare community e distinguersi da altri servizi simili. In questo caso la community potrebbe essere stimolata dalla piattaforma attraverso webinar e incontri di formazione in cui gli utenti si conoscono, si confrontano e si scambiano pareri.

Le prime sperimentazioni sulle community di operatori

Se sulle community di utenti le piattaforme presenti ai tavoli di coprogettazione si sono mostrate prudenti, sulle community fra gli operatori – e quindi sul versante dell’offerta – c’è stato molto interesse. Queste, infatti, vengono considerate un vantaggio per gli operatori ma anche per la piattaforma stessa. Una community di assistenti familiari, per esempio, potrebbe essere utile per condividere possibilità di impiego, informazioni e consigli su norme, tributi e diritti, ma anche diventare un’occasione per fare nuove conoscenze e abbattere così fatiche, isolamento e solitudine. Una community di operatori forte e coesa potrebbe permettere alla piattaforma di fare advocacy presso le istituzioni, ma anche di stabilire partnership per offrire nuovi servizi, permettendo di accreditarsi come punto di riferimento in un settore in cui l’offerta è frammentata, poco professionalizzata e non rappresentata.

Una community di operatori è considerata un grande vantaggio competitivo anche per le piattaforme che permettono di contattare medici e psicologi, tanto che, in questo ambito, sono già state avviate alcune sperimentazioni pur con un diverso grado di maturità. Una piattaforma, per esempio, ha messo a disposizione degli operatori luoghi digitali di incontro e di conversazione (per lo più gruppi whatsapp o telegram). In questo caso non c’è ancora una vera e propria pianificazione strategica della community sia in termini di obiettivo che di risorse dedicate all’ingaggio e alla moderazione. Ci si limita a rilevare che questi gruppi sono importanti per conoscersi, scambiare pareri, segnalarsi reciprocamente pazienti, risolvere casi sanitari, ma anche per incontrarsi personalmente e fare amicizia. I gruppi diventano anche un formidabile strumento di accoglienza e socializzazione dei nuovi arrivati, perché servono a farli sentire fin da subito parte “di una grande famiglia”. Sono poi uno strumento molto utilizzato dagli operatori più giovani, lasciando intravedere che per questi la collaborazione fra pari è una componente “naturale” del servizio stesso.

Un’altra sperimentazione in atto è, invece, più strutturata tanto che la community tra gli operatori è entrata a far parte delle logiche organizzative della piattaforma. In questo caso, infatti, la community interna è curata da team leader, operatori che l’azienda assume per gestire una squadra di circa 70-80 membri. Il loro compito è di supervisionare il lavoro dei professionisti, supportarli nello svolgimento delle loro attività, ma anche di coordinarli e farli crescere come gruppo, favorendo la conoscenza reciproca, l’incontro, lo scambio di esperienze, e organizzando momenti di formazione e dibattito. In questo modo la piattaforma raggiunge un duplice scopo: da un lato svolge una funzione di controllo e monitoraggio delle attività e della qualità del lavoro dei membri; dall’altro offre la possibilità ai membri, che solitamente operano come liberi professionisti, di avere un contesto di confronto, supporto e di crescita professionale.

Una community business to business

Infine, un’ultima applicazione delle community all’interno delle piattaforme di welfare digitali è stata proposta da un servizio che permette di confrontare e prenotare visite specialistiche ed esami diagnostici comparando diverse strutture.

In questo caso la community potrebbe avere lo scopo di riunire tutte le cliniche presenti sulla piattaforma come è successo durante la fase più acuta della pandemia. In quell’occasione è stato chiesto alla piattaforma di svolgere il ruolo di intermediario tra i fornitori di mascherine e le cliniche. Non si trattava di una vera e propria community, naturalmente, ma è stata l’occasione per comprendere che la  piattaforma potrebbe esercitare un ruolo di coordinamento, di incontro e di scambio fra le cliniche presenti.

Una community b2b, quindi, potrebbe essere utile per raccogliere i bisogni delle diverse strutture ma anche per risparmiare sull’approvvigionamento dei materiali, per trovare e condividere professionisti, e per riportare istanze comuni.

 

Foto di copertina: John Schnobrich, Unsplash