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Continuano gli approfondimenti a cura del gruppo di ricerca di WePlat, progetto che sta studiando le piattaforme di welfare italiane. Dopo gli articoli su processo di mappatura, mancata uberizzazione, designreputazione e scalabilità.

La consistenza di un’innovazione si può testare ponendola di fronte a sfide di natura trasformativa, che richiedono cioè di incrementare la capacità di risposta ma anche di ricombinare le risorse apportate da diversi attori per contribuire a generare tali risposte, oltre che, non da ultimo, di incidere sulle regole del gioco ovvero sui sistemi di regolazione e di governance e non solo nel settore di riferimento.

Se questo è il quadro, proviamo a delineare le sfide trasformative che riguardano il welfare e che possono essere affrontate anche attraverso dispositivi di piattaforma. Naturalmente non è detto che il welfare in piattaforma sia in grado di vincere tali sfide ma, anche sulla base dei risultati delle mappature e degli approfondimenti realizzati nell’ambito del progetto WePlat, si può ipotizzare che abbia ormai raggiunto uno stato di maturità evolutiva tale da poter almeno “giocare la partita”.

Le principali sfide da affrontare

Quali sono quindi le sfide da affrontare? Ne individuiamo almeno tre guardando sia ad attività di ricerca che alle sempre più numerose istanze di advocacy, che anche attori come Percorsi di secondo welfare si impegnano a promuovere.

La prima è quella della non autosufficienza. È forse la sfida più incardinata nel paradigma del welfare classico considerando la rilevanza dei beneficiari – persone anziani e disabili – e la gamma delle possibili risposte sia in termini di tipologie di servizi – centri diurni, case di riposo, assistenza a domicilio – ma anche di trasferimenti monetari (assegni di cura, indennità di accompagnamento). Tutto ciò chiamando in causa una pluralità di soggetti: pubblici, privati, con e senza scopo di lucro, informali e istituzionali, ecc. Non è quindi un caso che proprio in questo ambito sia stato avviato, dopo anni di attesa, un progetto di riforma che peraltro rappresenta uno dei cardini per la realizzazione di importanti misure del Pnrr.

La seconda è quella della salute mentale che a differenza della non autosufficienza non ha ancora delineato un quadro di policy ben definito anche perché raccoglie fenomenologie che ne allargano e diversificano lo spettro. Può trattarsi di patologie che assumono nuove forme o che si diffondono in modo significativo presso alcuni strati della popolazione (giovanile in particolare), fino a situazioni di disagio e malessere “non certificate” (tipiche del post pandemia) ma che comunque incidono sul benessere complessivo, in particolare quando si tratta di “conciliare” diverse sfere di vita (ad esempio assegnando il giusto “posto” al lavoro).

La terza sfida è quella educativa dove ormai appare evidente che una migliore dotazione infrastrutturale (ad esempio asili nido e altri servizi all’infanzia) deve accompagnarsi all’elaborazione di modelli di servizio in grado di rendere più accessibile e inclusivo tutto ciò che svolge una funzione educativa. Ciò vale in particolare per persone, famiglie e comunità che sono scarsamente dotate in termini risorse economiche e in senso lato sociali e culturali, richiedendo quindi di mobilitare non solo i servizi educativi codificati come tali ma più ampie coalizioni di attori, anche non professionali, accomunate da elementi di appartenenza territoriale.

I termini dell’innovazione

Se queste sono tra le sfide insieme più urgenti e potenzialmente trasformative del welfare italiano, le piattaforme che sempre più numerose si affacciano in questo ambito cosa possono proporre in termini d’innovazione?

Un primo contributo può consistere nel favorire sia l’allargamento che l’integrazione dell’offerta in una fase in cui i bisogni si diversificano ma i sistemi di welfare “analogici”, anche quelli su scala locale o su filiere settoriali, ancora faticano a incorporare innovazioni di prodotto senza correre il rischio di vedere in qualche modo compromessi, anche solo in senso possibilistico, i loro livelli qualitativi. Da questo punto di vista le attività di redesign dei servizi di welfare per caricarli in piattaforma si stanno rivelando utili anche per definire linee guida (se non vere e propri standard) in grado di favorire l’individuazione e il coinvolgimento di nuovi provider arricchendo così la capacità di offerta, soprattutto quando si tratta di trasferirla e radicarla in contesti territoriali diversificati.

Un secondo contributo riguarda la capacità delle piattaforme di welfare di tracciare in modo più preciso e tempestivo il profilo dei beneficiari e gli scambi tra questi ultimi e i fornitori dei servizi. In una fase in cui il welfare appare sempre più polverizzato tra tipologie di interventi – si pensi al proliferare dei “bonus” – e di soggetti gestori, le piattaforme, in particolare se infrastrutturate in senso phygital, possono rappresentare un contesto che favorisce sia l’interazione diretta attraverso schemi disintermediati di erogazione e fruizione, ma anche la progressiva collaborazione tra le parti, favorendo processi di coprogettazione volti in particolare ad adattare i modelli di servizio ai contesti di riferimento.

Intorno a questi elementi si definisce il livello di readiness delle piattaforme verso le sfide trasformative del welfare rispetto al quale assume un ruolo particolarmente rilevante una funzione forse fin qui sottovalutata e cioè quella di coordinamento. Per poter fare matching tra domanda e offerta appare infatti necessario, forse più che in altri comparti, orchestrare una pluralità di contributi e di ambiti di interazione che rappresentano, al tempo stesso, elementi di complessità e di valore distintivo.

 

Foto di copertina: Polina Zimmerman, Pexels