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ActionAid è un’organizzazione internazionale indipendente impegnata in Italia e in 44 Paesi. Collabora con più di 10mila partner, alleanze, ONG e movimenti sociali per combattere povertà e ingiustizia sociale. Un mondo equo e giusto per tutti: è questa la visione da cui ActionAid trae ispirazione e forza vitale. L’organizzazione, in Italia, conta circa 130 persone – di cui la maggior parte dipendenti – dislocate tra le sedi di Milano, Roma e sul territorio italiano. ActionAid lavora per promuovere diritti, partecipazione e inclusione e questo principio guida anche la gestione interna dell’organizzazione.

Abbiamo fatto una chiacchierata con Gaia Melloni, Responsabile del Dipartimento per l’Efficienza Organizzativa di ActionAid Italia, per capire quali siano stati gli effetti della pandemia su un’organizzazione abituata a lavorare in modo agile.

Come è nata l’idea di fare smart working in ActionAid Italia?

Abbiamo iniziato a interessarci in modo più approfondito allo smart working tra il 2014 e il 2015, all’interno del “progetto sostenibilità organizzativa” nato nel 2012. Il percorso fu avviato grazie alle riflessioni sul bivio che ci si parava innanzi: essere un’organizzazione capace di adattarsi e anticipare il cambiamento che stava avvenendo anche all’esterno oppure scontrarsi con l’inefficienza, con la possibilità di non raggiungere gli obiettivi organizzativi. Lo smart working significava combinare tematiche di gestione ed esigenze delle persone con la necessità del lavoro sul campo a livello anche progettuale in Italia: si è trattato proprio di ragionare sulla sostenibilità fisica e organizzativa della nostra realtà. È stato il contesto a spingerci a ragionare sull’opportunità di cambiare logica e operare in modo più efficiente, perseguendo obiettivi chiari e verificabili.

In una organizzazione con una mission come la nostra, che crea relazioni di fiducia e di trasparenza con tutti gli stakeholder che sostengono e finanziano le attività, la sostenibilità e l’efficienza sono questioni centrali. Questi elementi sono poi stati messi in relazione con una riflessione a tutto tondo sulla sostenibilità dell’attività lavorativa per lo staff e i collaboratori: l’obiettivo è stato quello di ascoltare le loro esigenze, mapparle e quindi proporre modelli organizzativi più flessibili.

Abbiamo avuto la fortuna di scoprire – all’inizio del percorso – il progetto di Family Audit promosso dalla Provincia Autonoma di Trento (ne avevamo parlato qui, NdR); questa iniziativa si concentrava sulle pratiche di conciliazione e, avendo scelto di candidare la nostra organizzazione a questa certificazione, abbiamo beneficiato di un percorso che ha previsto tre anni di realizzazione del progetto e relativo piano di azione e tre anni di “mantenimento” e verifica.

Come si è arrivati, in concreto, alla progettazione e implementazione dello smart working?

Nel quadro del percorso di Family Audit – anche grazie alle evoluzioni in campo legislativo in Italia (in particolare l’introduzione di una normativa specifica sullo smart working, NdR) – siamo arrivati a firmare, tra il 2018 e il 2019, accordi di smart working per tutti i nostri dipendenti. Gli accordi sono stati stipulati all’insegna della massima chiarezza e trasparenza: definiscono esattamente cosa intendiamo per smart working, quali sono gli obblighi del lavoratore e del datore di lavoro, quali sono le possibilità e i limiti temporali, introducendo anche il diritto alla disconnessione.

In che cosa consiste il diritto alla disconnessione?

Noi abbiamo un contratto nazionale che prevede 40 ore di lavoro settimanali. Nell’accordo sullo smart working abbiamo una clausola specifica che indica l’arco temporale entro cui è possibile prestare la propria attività lavorativa, fermi restando i vincoli dei riposi giornalieri e settimanali previsti dalla normativa. Questo arco è molto ampio – dalle 7 alle 22 – perchè a seconda dei ruoli molte attività vengono svolte anche nel pomeriggio o di sera (per esempio la formazione dei volontari, gli eventi, eventuali incontri con i sostenitori). Questo non significa che rimaniamo sempre connessi dalle 7 alle 22; significa semplicemente che al di fuori di questa finestra e in tutti i giorni festivi è garantito il diritto alla disconnessione. L’articolazione dell’orario lavorativo è poi demandata alle singole persone e ai singoli team in accordo con i propri manager, in relazione agli obiettivi e alle modalità di lavoro.

Ovviamente questo diritto alla disconnessione rimane lettera morta se l’organizzazione e il lavoratore non si impegnano a rispettarlo: si tratta proprio di una sfida aperta e responsabile, a maggior ragione in questo periodo di smart working “integrale”. In questo senso penso che giochino un ruolo essenziale i manager, i line manager, i responsabili, cioè coloro che gestiscono team e persone.

Tornando al vostro percorso di smart working, avete tenuto conto di alcuni aspetti in particolare? A cosa bisogna prestare particolare attenzione?

Dal punto di vista tecnico, tecnologico e digitale abbiamo investito sugli strumenti da mettere a disposizione per poter collaborare anche a distanza: non si può pensare di improvvisare o che ognuno trovi modalità e strumenti in autonomia per collaborare e condividere documenti. A questo proposito bisogna ricordare le varie tematiche connesse alla sicurezza, alla compliance verso le normative (per esempio privacy, GDPR, ecc.) che vanno gestite con attenzione a tutela di organizzazioni e dati. L’altro elemento assolutamente imprescindibile è la formazione. Abbiamo lavorato con i responsabili, i manager e con tutto lo staff sulla flessibilità, sulla gestione del tempo: il tempo come vincolo, come opportunità, come risorsa principale per le persone. Con l’idea di provare a coniugare le esigenze organizzative e quelle personali e familiari.

L’ultimo aspetto fondamentale è la fiducia. Questa fiducia si traduce nel riconoscimento che la persona – a fronte di obiettivi chiaramente definiti con il proprio responsabile – può e deve gestire in autonomia il proprio tempo in relazione alle esigenze lavorative e anche personali. E queste esigenze cambiano: perciò, a seconda delle specifiche attività lavorative dei carichi o impegni di cura del momento, lo smart working può essere articolato in modi diversi.

Che tipo di formazione è importante proporre per favorire processi efficaci di smart working, alla luce della tua esperienza?

Sicuramente è centrale il discorso della cultura organizzativa. Per esempio: non faccio formazione su un sistema o strumento di collaborazione solo perché le persone poi lo usano per lavorare in smart working. Se io investo su una certa piattaforma voglio essere sicura che lo staff sfrutti al meglio quella risorsa e quindi li formo. Mi sembra sia una questione di ottimizzazione delle risorse a disposizione. Per quanto riguarda poi la formazione specifica sullo smart working, a mio parere consiste prevalentemente nella formazione e nel coaching dei responsabili sulla gestione della relazione con i collaboratori, sulle capacità di ascolto e di rimando, sulla comunicazione chiara e diretta. Mi sembra che queste capacità debbano essere ancora più allenate in questo periodo di smart working forzato, in cui non si riesce a interagire direttamente.

Per quanto riguarda invece il tema della fiducia, come si può traghettare l’organizzazione verso meccanismi di controllo più coerenti con lo smart working?

Questo è un tema che spaventa molto le organizzazioni: come posso controllare i miei collaboratori? La domanda da porsi, secondo me, è un’altra: cosa intendo controllare? Come verifico che il lavoro sia stato fatto? Molto spesso il problema del controllo non ha tanto a che fare con la produttività o con l’effettivo raggiungimento degli obiettivi; piuttosto è collegato a questioni come il potere personale e l’insicurezza del ruolo all’interno dell’organizzazione. Questa apparente contrapposizione tra controllo e obiettivi sembra suggerire che il lavoro per obiettivi equivalga a dire: “Liberi tutti!”. Invece no, bisogna stabilire degli obiettivi chiari e degli indicatori verificabili, elaborare piani annuali di lavoro dei diversi team, verificare il raggiungimento degli obiettivi. Anche in questo caso ci vuole impegno perché questa proposta organizzativa non rimanga solo sulla carta.

E quando invece sono i lavoratori a dubitare dell’utilità ed efficacia dello smart working?

Certamente in questo periodo di smart working “integrale” avremmo tutti voglia di lavorare in ufficio! In ogni caso ci sono persone che preferiscono lavorare sempre in ufficio: ci si concentra di più, a una certa ora si stacca completamente per ricominciare il giorno dopo, c’è una maggior separazione di tempi e spazi. E questa cosa va benissimo, non ha senso prendere posizioni “estreme” in un senso o nell’altro. Ci sono momenti in cui le persone preferiscono essere in ufficio, per svolgere determinate attività, e momenti in cui, magari per esigenze di conciliazione, preferiscono stare a casa per potersi dedicare ad altro appena concluso il lavoro. O anche solo, semplicemente, qualcuno trova più rilassante e più produttivo leggere i documenti al bar sotto casa o continuare a lavorare in un ufficio di altri in cui è andato per fare una riunione. Ovviamente lo smart working, in questo preciso momento, pone la sfida difficilissima della gestione degli spazi domestici. Per certi versi è come se avessimo provato la versione più difficile dello smart working: in ogni caso non potrà che andare meglio, quando torneremo a poter usare spazi diversi e differenziabili per il lavoro.

Quali difficoltà vedi nell’attivazione dello smart working, specialmente in questa fase? Come ha reagito la vostra organizzazione allo scoppio della pandemia?

La flessibilità deve essere la cifra distintiva dello smart working in tutti i sensi: si provano diverse soluzioni per cercare la più adatta nell’immediato ma anche in prospettiva, modulando la “velocità” del cambiamento e adottando o abbandonando strumenti e modalità a seconda della loro utilità reale. Sicuramente ci sono sfide nella gestione e nella tenuta degli strumenti tecnologici, a volte i processi interni risultano eccessivamente rigidi ed è da calcolare un po’ di resistenza organizzativa al cambiamento: tutte le organizzazioni all’inizio pensano che lo smart working sia difficile da mettere in pratica nella propria realtà e vedono più problemi che opportunità.

… E poi arriva il Covid! Che sicuramente spazza via tutta una serie di resistenze ma pone delle sfide nuove. Noi ci siamo ritrovati dalla sera alla mattina, come moltissime imprese e organizzazioni, a dover lavorare da casa, senza scelta. In questo momento stiamo vivendo uno smart working che noi chiamiamo “integrale”: nessuno per due mesi e mezzo è andato in ufficio. Gli strumenti di condivisione e la tecnologia hanno tenuto, il fatto di avere già degli accordi stipulati ci ha aiutato molto ad adattarci velocemente alla situazione. Certo, ci sono altre sfide: la gestione del tempo è molto più complicata per tutti, perciò lo staff e i manager si confrontano quotidianamente per coniugare il raggiungimento – o la rimodulazione – degli obiettivi con le esigenze e i limiti imposti dall’attuale situazione.

Perché un’impresa dovrebbe proporre lo smart working e, più in generale, farsi carico in qualche modo delle esigenze personali e di conciliazione dei propri collaboratori?

Secondo me un’organizzazione dovrebbe vedere le cose in prospettiva, guardando alla propria popolazione aziendale. In questo modo ci si renderebbe conto, per esempio, che non sono solo le donne ad avere bisogni di conciliazione: tutti hanno altre esigenze personali che potrebbero essere un ostacolo al lavoro o entrare in concorrenza con il tempo che si vuole dedicare al lavoro. Questo periodo ha reso ancora più evidente quanto impegna e quanto “costa” il lavoro di cura: ad esempio in questo momento per forza di cose tutti i genitori devono occuparsi dei figli, questo tema può incidere pesantemente sull’organizzazione del lavoro e delle vite di ciascuno. Secondo me è interesse delle organizzazioni supportare i lavoratori. Nella fase attuale, per esempio, una buona idea può essere orientare i lavoratori rispetto alle opportunità previste dai vari decreti, combinandole con quelle che l’organizzazione o l’azienda possono mettere in campo. Le persone in questa fase faticano a capire come muoversi e magari perdono opportunità di cui – indirettamente – beneficerebbe anche l’impresa. So che il bonus babysitter o i congedi straordinari non risolvono il problema; tuttavia la situazione può migliorare se l’organizzazione aiuta i lavoratori a capire come combinare le diverse possibilità. E magari ci aggiunge un pezzettino investendo delle risorse per il welfare aziendale: non si deve puntare necessariamente a nidi aziendali o misure che sembrano poco praticabili, soprattutto nell’immediato, ma è necessario partire da ciò che si può fare. L’azienda o l’organizzazione deve riflettere su come investire al meglio le risorse che decide di destinare al welfare aziendale.

Hai accennato più volte alla velocità del cambiamento all’interno e all’esterno dell’organizzazione. L’attuale crisi ha imposto un cambiamento improvviso che può essere assorbito dalle imprese con grande difficoltà. Hai qualche consiglio da darci in merito?

In ogni caso, anche in questa situazione, mi sembra che l’elemento essenziale sia la volontà dell’organizzazione: se non voglio implementare lo smart working avrò sempre un buon motivo per non farlo e non riuscirò mai a trovare soluzioni ai problemi che emergono. Idealmente un progetto di smart working ha bisogno di circa un anno tra assessment, progettazione, formazione, sperimentazione e primo avvio. E, ovviamente, più i cambiamenti sono graduali più è probabile che diventino parte del tessuto organizzativo.

Da questo punto di vista penso che l’emergenza potrebbe avere anche qualche ricaduta positiva: questo “shock” potrebbe contribuire ad accorciare i tempi, a eliminare molte ritrosie di aziende e lavoratori. Magari molti progetti di smart working avviati improvvisamente e senza una progettazione pregressa potrebbero trasformarsi, con il tempo e la formazione dovuti, in pratiche organizzative efficaci.

Questa intervista è stata realizzata a margine di un webinar organizzato dal Consorzio Consolida di Lecco e moderato dal Laboratorio Percorsi di secondo welfare. Le riflessioni raccontate sono emerse anche grazie agli stimoli di chi ha partecipato all’incontro.