13 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Il PNRR ha stanziato ingenti risorse economico-finanziarie per fronteggiare le criticità che attualmente caratterizzano l’assetto della medicina territoriale. Il Piano, nello specifico, prevede la creazione delle c.d. Case della Comunità, il potenziamento delle prestazioni medico-sanitarie a domicilio e, infine, l’attivazione degli Ospedali di Comunità. Di cosa si tratta? Quali sono le maggiori criticità dell’attuale configurazione della medicina territoriale? Ne parliamo di seguito.

Sul “pronto soccorso”, e sui medici e pediatri di base

Di fatto, ad oggi accade ancora così: ciascuno di noi, indipendentemente dalla propria età anagrafica, e nel momento in cui è costretto o ha deciso di fare fronte ad una propria malattia – sia essa una profonda ferita da taglio provocata affettando il pane sulla tavola, l’influenza stagionale, un infarto improvviso, una malattia esantematica, o una generica sensazione di malessere, fisico o psichico, che necessita di essere indagata più a fondo – si trova di fronte alla scelta obbligata tra una delle due seguenti possibilità.

Prima possibilità. Entro pochi minuti dall’accadimento, e in considerazione della gravità ed urgenza di un intervento medico, ognuno di noi si reca sulle proprie gambe, o mediante un mezzo di soccorso, al più vicino presidio ospedaliero di medicina di urgenza (“pronto soccorso”).

Ivi, ancora in ragione della medesima gravità e urgenza, e sulla base di una prima anamnesi (triage), veniamo individualmente associati ad un apposito “codice a colori” (così che, forse, la mente possa rimembrare rassicuranti giochi d’infanzia) e, più pragmaticamente, allo scopo di fissare il nostro ordine temporale di accesso all’intervento medico1. Dal colore bianco (“non urgenza”), al colore rosso (“emergenza”), si transita progressivamente attraverso i colori verde (“urgenza minore”), azzurro (“urgenza differibile”), e arancione (“urgenza”). Rinunciare alla ipocrisia porta ad ammettere – a me che scrivo, non voglio affatto generalizzare – il fatto che, alla gioia per avere scampato i colori più glamour (rosso e arancione), si accompagna sempre la certezza che l’attribuzione di un colore più sobrio e ordinario (bianco, verde, azzurro) dipenda dall’ignoranza che il responsabile del triage nutre per Tolstoj, e dalla sua conseguente impossibilità letteraria di declinare – nei confronti del mio dolore soggettivo2 – il principio per il quale se tutti gli esseri umani felici sono somiglianti tra loro, ognuno è invece infelice a suo modo: e io, pertanto, nel mio personale e insindacabile triage, sono sempre più infelice degli altri.

I tempi di attesa al pronto soccorso, dinanzi alla attribuzione di questi colori più sobri, si dilatano infatti in proporzione geometrica, potendo anche raggiungere il non invidiabile numero, nei confronti dei parenti che a casa sono rimasti in angosciosa attesa di nostre notizie, di più di trenta telefonate complessive: il dato si ricava dalla circostanza di comune esperienza (qui mi consento di generalizzare) che l’uso del telefono, in attesa di essere visitati e curati all’interno di una delle sale mediche del pronto soccorso, supplisce efficacemente al tabagismo e all’uso di benzodiazepine, a condizione di rispettare la dose terapeutica di almeno tre telefonate per ogni ora.

Terminati gli accertamenti e interventi di urgenza, può accadere di essere trattenuti in ospedale, per il ricovero in uno dei reparti di medicina specialistica in grado di continuare le cure originate dall’evento che ci ha condotto al pronto soccorso, ovvero di essere restituiti alle mura domestiche (per chi ne è in possesso, si legga di seguito), con o senza la necessità di ricorrere ad ulteriori interventi del medico o pediatra “di base” (sul punto, ancora di seguito).

Consideriamo ora la seconda possibilità. Se i tempi di gravità e urgenza lo consentono, il punto territoriale di prossimità e accesso alle prime cure non è più il pronto soccorso, ma il medico o pediatra cosiddetto “di famiglia” o “di base”, vale a dire il medico obbligatoriamente attribuito a ciascuno degli esseri umani iscritti, in Italia, al Servizio Sanitario Nazionale: poiché agli immigrati irregolari, e a coloro che sono senza fissa dimora, la legge impedisce tuttavia di iscriversi al medesimo “servizio”3 , mentre invece possono recarsi a ricevere le prime cure in pronto soccorso (il prezzo di questa fortuna è la possibile identificazione personale, e la conseguente segnalazione alle autorità competenti), se ne deduce che il loro essere umani è riconosciuto soltanto all’interno del perimetro ospedaliero.

Attraverso la visita e le cure del medico o pediatra di base, e qualora egli ritenga necessario svolgere ulteriori esami e approfondimenti diagnostici, i pazienti possono accedere – e di regola, è ciò che accade – alle prestazioni specialistiche presso gli appositi reparti istituiti nelle strutture sanitarie pubbliche, o in quelle private accreditate dal Servizio Sanitario Nazionale.

Se i tempi di attesa per l’accesso a queste prestazioni specialistiche non sono invece compatibili con la necessità oggettiva, o con il desiderio soggettivo, che il paziente nutre in merito al celere accertamento del proprio stato di salute, l’attenzione si sposta tutta sulla capacità economica posseduta dal singolo paziente. Tale capacità economica può infatti consentire il pagamento delle prestazioni specialistiche offerte dai medici che svolgono la libera professione, o prestano servizio in strutture sanitarie private: in questa ipotesi, la qualità e la celerità della prestazione è direttamente proporzionale al corrispettivo che il paziente è disponibile a pagare.

Al contrario, innanzi ad una situazione economica incapiente – e ferma comunque restando la possibilità di accedere al pronto soccorso, in presenza di malesseri realmente acuti o narrati, per necessità, come tali – il paziente può soltanto confidare nel fatto che il proprio tempo di attesa nella lista degli aventi diritto alla prestazione sanitaria sia inferiore al tempo utile per la diagnosi (ma non anche al tempo necessario alla cura) della propria patologia.

Ottenuti gli esiti di queste prestazioni specialistiche, il paziente può ritornare alle cure del proprio medico o pediatra “di base” – che sovente provvede alla costante prescrizione di farmaci e terapie, volte a fare fronte a patologie croniche, da manutenere nel corso del tempo – ovvero può essere direttamente preso in carico dalla struttura ospedaliera (pubblica o privata, ancora in ragione della disponibilità a pagare) presso la quale ha intrapreso le cure specialistiche.

Di cure, territoriali e non personali, costantemente “non appropriate”

Il quadro sino a qui considerato contiene la rappresentazione dell’odierno sistema italiano – ancorché organizzato su base regionale – di “medicina territoriale”, vale a dire dell’insieme delle modalità mediante le quali i pazienti possono accedere alle cure mediche, presso le strutture del servizio sanitario nazionale che sono presenti sul territorio.

A dire il vero la stessa aggettivazione, “territoriale”, tradisce una attenzione tutta rivolta ai luoghi, e molto poco attenta ai soggetti (medici e pazienti) che di tali strutture fanno uso e fruiscono: si tratta di una tendenza che si può ad oggi riscontrare anche nella prestazione di ulteriori funzioni e servizi pubblici (trasporti, sicurezza urbana, servizi sociali, soltanto ad esemplificare), ove la “prossimità” al cittadino-utente diviene l’oggetto stesso della funzione o del servizio, e non costituisce invece una tra le molteplici possibilità attraverso le quali svolgere la prestazione. Questo contesto presenta molteplici inefficienze, evidenziate nel corso degli ultimi venti anni, e che da ultimo hanno purtroppo agevolato la diffusione e la mala gestio della pandemia da “Covid-19”: si tratta di inefficienze che concernono entrambe le modalità di accesso alle cure sanitarie – medicina di urgenza, medici e pediatri di base – e che si compongono di elementi sia quantitativi che qualitativi.

In merito alle cure in pronto soccorso: la eccessiva quantità delle prestazioni richieste dipende dall’assenza di ogni “filtro” preliminare, diverso dall’unico filtro (triage) istituito all’interno del medesimo presidio di urgenza. Ai medici e pediatri di base – in possesso di una tradizionale preparazione generalista, e di insufficienti strumenti ambulatoriali di diagnosi e intervento – è sostanzialmente preclusa la possibilità di fronteggiare qualsiasi prestazione sanitaria che presenti i caratteri della gravità e della urgenza: a ciò si accompagna l’impossibilità di reperire tali soggetti nelle ore serali e notturne, e durante i giorni prefestivi e festivi.

L’unico luogo ove i pazienti possono recarsi, in ogni giorno e ad ogni ora, per ottenere una prestazione medico-sanitaria immediata (relativamente immediata), rimane dunque il pronto soccorso. Si tratta di un luogo territorialmente prossimo alla residenza o al transito dei pazienti, ma di un luogo qualitativamente “inappropriato”: il singolo presidio di medicina di urgenza deve essere infatti costantemente pronto ad affrontare accadimenti o patologie tra di loro del tutto incommensurabili (dalla semplice ferita da suturare, sino ad arresti cardiaci e soggetti poli-traumatizzati, in conseguenza di gravi incidenti stradali o sul lavoro). A questa offerta di cure sostanzialmente non differenziabili ex ante, il pronto soccorso provvede, ex post, avendo come unico criterio discretivo e ordinatore il “colore-triage” attribuito al singolo accadimento o patologia, e la conseguente priorità-tempo di accesso alla prestazione.

Nessuna attenzione è viceversa riservata a comprendere che l’approntamento di una struttura, così configurata, impone sia permanenti “costi economico-finanziari” di esercizio (in specie nelle attrezzature mediche da rendere funzionali, e nelle pertinenti disponibilità farmacologiche), sia altrettanti “costi umani e professionali” (la numerosità, le energie e l’attenzione del personale medico ed infermieristico): costi che sono probabilmente appropriati innanzi ad accadimenti o patologie di rilevante e assoluta gravità ma che, al contrario, risultano del tutto sovradimensionati rispetto a prestazioni sanitarie aventi media o limitata gravità, prestazioni che peraltro costituiscono la maggioranza degli interventi richiesti alla medesima struttura. Riscontro di analoga “non appropriatezza”, pur sempre quantitativa e qualitativa, è ad oggi presente anche nelle cure prestate dai medici e pediatri di base, vale a dire nell’altra modalità di accesso alle cure territoriali.

Sul piano quantitativo, un unico medico o pediatra “di base” è infatti responsabile di un numero di pazienti complessivamente elevato (di regola oltre le mille unità), ed estremamente eterogeneo (pazienti bisognosi di cure continuative, soggetti che raramente si ammalano, pazienti di età e condizioni di vita notevolmente differenti), e che impedisce dunque qualsivoglia attenzione e cura personalizzata. Intendere correttamente la “prossimità”, in questo contesto, dovrebbe innanzi tutto significare l’intenzione di assicurare la vicinitas nella sofferenza e nel suo sollievo, così come dimostrano i costanti ringraziamenti che i parenti di persone decedute rivolgono pubblicamente, all’interno dei necrologi, ai medici e pediatri di base che le hanno curate e assistite lungo tutto il tempo della malattia.

Ogni dubbio circa la “appropriatezza” della relazione di cura, sul piano quantitativo, è invece fugato dal fatto – notorio e difficilmente controvertibile4 – che i medici e pediatri di base ricorrono sovente, nei confronti dei propri pazienti, alla iper-prescrizione sia di esami e accertamenti diagnostici specialistici, sia di terapie farmacologiche. Avviene, questo, al fine di rassicurare l’ipocondria dei medesimi pazienti (o dei loro genitori, se trattasi di pazienti pediatrici), ovvero allo scopo di assicurare sé stessi (medici e pediatri) rispetto al timore di eventuali e future azioni di responsabilità.

La costruzione di nuove “comunità” di cura: le case, la casa, gli ospedali

Ingenti risorse economico-finanziarie (7 miliardi di euro), sono state appositamente stanziate all’interno del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (PNRR)5, affinché l’assetto della “medicina territoriale” – sino a qui rappresentato criticamente – possa mutare in profondità: sono all’uopo previsti specifici “investimenti”, descritti in maniera estremamente dettagliata, e da porre in essere entro scadenze temporali chiaramente individuate.

Grazie al primo investimento, si prevede la creazione di 1.288 “Case della Comunità”, entro la metà del 2026, per un costo complessivo stimato pari a 2 miliardi di euro. Il secondo investimento concerne l’individuazione della casa di abitazione del singolo paziente, come luogo ove recare direttamente, a domicilio, le prestazioni medico-sanitarie che gli sono necessarie: il costo complessivo stimato è complessivamente pari a 4 miliardi di euro, allo scopo di assicurare l’assistenza domiciliare – entro la metà del 2026 – almeno nei confronti del 10 per cento della popolazione di età superiore a 65 anni, affetta da patologie croniche e/o non autosufficiente. Al terzo investimento spetta infine il compito di attivare 381 “Ospedali di Comunità”, ancora entro la metà del 2026, per un costo complessivo stimato pari ad 1 miliardo di euro.

L’attuazione di questi tre investimenti è rimessa allo Stato, per ciò che concerne la definizione dei modelli e degli standard che devono essere assicurati su tutto il territorio nazionale, e alle singole Regioni – nel rispetto dei medesimi modelli e standard – cui è affidata la concreta organizzazione e attivazione delle “Case della Comunità”, della “assistenza domiciliare”, e degli “Ospedali di Comunità”.

Buona celerità ha dimostrato lo Stato nel fare la propria parte: la definizione dei modelli e degli standard è infatti contenuta all’interno del Decreto del Ministro della Salute 23 maggio 2022 n. 77; nei prossimi mesi sarà altresì necessario monitorare attentamente i conseguenti interventi, posti in essere dalle singole Regioni.

La lettura e l’analisi di questo importante provvedimento normativo statale consente già di vagliare criticamente i contenuti e l’impatto della riforma della “medicina territoriale”, nell’attesa che le Regioni provvedano a darvi concreta e uniforme attuazione. Ragionare su questa riforma significa dapprima evidenziarne un elemento di fondo, di poi comprendere come ciascuno dei suoi principali investimenti – “Case della Comunità”, “assistenza domiciliare”, “Ospedali di Comunità” – intende porre rimedio ai molteplici profili critici, innanzi evidenziati, che ad oggi affliggono l’assistenza sanitaria territoriale prestata sia in pronto soccorso, sia dai medici e pediatri di base.

L’elemento di fondo è rappresentato dal passaggio semantico che conduce, dalla odierna “medicina territoriale” (pronto soccorso, medici e pediatri di base), alla nuova “medicina di comunità”: se le parole conservano ancora un proprio significato, la cura di ogni paziente non deve più essere affidata a strutture territoriali di prossimità (strutture che, per quanto “abitate” da medici e personale infermieristico, permangono innanzitutto “luoghi” inanimati); sollevare dai dolori e dagli sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle nostre manie6 – più amorevole definizione di “cura” non riesco ad esprimere – è un compito che spetta invece alla “comunità”, alle persone che ci vogliono bene, e che vogliono il nostro bene, sia sul piano affettivo (i nostri “cari”), sia sul versante professionale (i medici e gli operatori sanitari). In ognuna delle 1.288 “Case della Comunità” – una ogni 40-50 mila abitanti – i pazienti individueranno il nuovo “punto unico” di accesso alle prime cure.

Abbandonato sia il riferimento ai singoli medici e pediatri di base, sia l’urgenza tipica dell’indifferenziato pronto soccorso, ciascuna “Casa di Comunità” prenderà in cura il paziente (7 giorni su 7, h24) attraverso una organizzazione adeguata e multi-professionale: sul piano delle risorse umane, ivi presenti e operanti (medici di medicina generale, pediatri, medici specialisti, personale infermieristico, assistenti sociali); sul versante delle attrezzature diagnostiche e di intervento che devono “arredarla” (punto prelievi, ecografi, elettrocardiografi, retinografi, spirometri, tra le molte altre).

Esercitare la “assistenza domiciliare”, significherà invece rivolgere specificamente le cure a pazienti di età superiore a 65 anni, affetti da patologie croniche, e sovente non autosufficienti. Qui l’obiettivo è duplice. Lasciare a ricordi passati, da un lato, la ripetuta e costante alternanza, stante la cronicità della malattia, tra i ricoveri nei reparti specialistici ospedalieri (comunque sempre raggiunti transitando attraverso il pronto soccorso), e gli speranzosi ritorni alla propria casa di abitazione (o alle più tristi residenze sanitarie di “lunga degenza”, eufemismo che sottende invece una dignitosa attesa della morte). Fare sì d’altro lato, e sul presupposto che la condizione umana di tali pazienti è già profondamente pregiudicata dalla malattia, che i medici e gli infermieri si rechino a somministrare loro le necessarie cure domiciliari, con continuità assistenziale (7 giorni su 7, h24): se morire nella propria casa di abitazione, rispetto al morire in una camera di ospedale, è considerato dai morenti un unico e finale dono pietoso, il valore di tale dono è certamente incrementale se esso postula che siano le cure (e i loro portatori) ad andare incontro al paziente, e non viceversa. Essere ricoverati in un “Ospedale di Comunità” significherà invece ricevere cure intermedie, tra la “Casa della Comunità” o la “assistenza domiciliare”, e il più severo ricovero ospedaliero, in un reparto specialistico.

Sovviene qui, almeno in termini descrittivi, lo stesso testo del Decreto Ministeriale n. 77 del 2022 (sulla cui formulazione lessicale, almeno in termini di assenza di punteggiatura e disattenzione per le ripetizioni, ci permettiamo di dissentire): si tratta di “una struttura sanitaria territoriale, rivolta a pazienti che, a seguito di un episodio di acuzie minore o per la riacutizzazione di patologie croniche, necessitano di interventi sanitari a bassa intensità clinica potenzialmente erogabili a domicilio, ma che necessitano di assistenza/sorveglianza sanitaria infermieristica continuativa, anche notturna, non erogabile a domicilio o in mancanza di idoneità del domicilio stesso (strutturale e/o familiare)”. Termine massimo del ricovero, all’interno di un “Ospedale di Comunità”, sono 30 giorni: ivi è garantita l’assistenza infermieristica (7 giorni su 7, h24), e l’assistenza medica (sebbene non continuativa: 4,5 ore, tra h8 e h20, e “in disponibilità”, durante la notte); merita altresì sottolineare, criticamente, il fatto che il medesimo Decreto Ministeriale non individua espressamente le competenze professionali (generali e/o specialistiche) richieste al personale medico.

Sulle condizioni di implementazione 

Alcune considerazioni, di sintesi, devono infine essere rivolte alle condizioni necessarie affinché la costruzione di queste nuove “comunità” di cura non ripercorra le inefficienze e, sopra tutto, la “non appropriatezza”, dimostrate dalle tradizionali cure “territoriali” (pronto soccorso, medici e pediatri di base).

Una prima considerazione, soltanto all’apparenza scontata, concerne la stessa natura “comunitaria” delle nuove “Case” e degli “Ospedali”. In una prospettiva chiaramente sistemica – di certo assente nella esperienza individuale e monadica della medicina di urgenza, e dei medici e pediatri di base – ogni comunità funziona se e soltanto se le relazioni intersoggettive sono considerate in essa più importanti, e più “curate”, rispetto ai singoli soggetti che la compongono. Ovvero, e in sostanza, se ciascuno di questi soggetti (in specie i medici e il personale infermieristico), antepone la reciproca collaborazione ad ogni personalismo, professionale o caratteriale che sia.

In merito alla “assistenza domiciliare”, è invece il target di riferimento a destare più di qualche perplessità. Se non si può certamente negare che estendere le cure a domicilio a tutti i pazienti affetti da patologie croniche, e/o non autosufficienti, rappresenterebbe un obiettivo insostenibile anche soltanto sul piano economico-finanziario, è d’altro canto necessario prestare la debita attenzione affinché il 10 per cento della popolazione di età superiore a 65 anni, destinataria dell’investimento entro la metà del 2026, non sia individuata secondo criteri diversi dalla gravità della singola patologia, e dalle condizioni sociali e economiche in cui versa la famiglia del paziente domiciliare. Ogni altro criterio elettivo trasformerebbe infatti, una buona “assistenza domiciliare”, in una indegna “preferenza clientelare”.

E da ultimo una riflessione sullo stesso percorso di transito, dalla odierna “medicina territoriale” alla nuova “medicina di comunità”. Gli attuali presìdi di medicina di urgenza (pronto soccorso), così come i medici e pediatri di base, dovranno essere necessariamente e strettamente integrati all’interno delle prossime “comunità” di cura. Maggiore sarà l’integrazione relazionale richiesta nella costruzione delle nuove “Case” e degli “Ospedali”, così come nella implementazione di una efficace e rinnovata “assistenza domiciliare”, più approfondita dovrà per conseguenza essere – indipendentemente da ogni qualificazione puramente nominalistica (medici di medicina generale, medici di urgenza, medici domiciliari, et similia) – la preparazione scientifica e professionale richiesta ad ognuno di questi soggetti.

L’assetto odierno, sul punto, appare paradossale. Per i medici che operano nei presìdi di pronto soccorso – e stante il fatto che negli ultimi venti anni la medicina di urgenza è stata capace di progredire molto oltre la prestazione delle prime cure, in specie innanzi alle patologie più gravi – si tratta infatti di comprendere come la loro specifica professionalità possa e debba essere messa a frutto all’interno di una organizzazione sanitaria che tenderà sempre più a costruire percorsi e processi di cura normali, permanenti e continuativi, e non più soltanto interventi unici e costantemente salvifici. Le stesse serie web e televisive, che nei medesimi ultimi venti anni si sono abbondantemente nutrite di queste narrazioni, dovranno probabilmente mutare i propri format (medico-sentimentali) di riferimento. Rispetto ai medici e pediatri di base, al contrario, la loro professionalità è progressivamente scaduta nella direzione di un ruolo meramente notarile, documentale e di passaggio – dei propri pazienti – a medici davvero specialisti se non, addirittura, a specialisti davvero medici.

Lasciamo ai laudatori del tempo che fu ogni ricordo – tuttavia molto chiaro e bene fissato nella mente – di medici e pediatri “di famiglia” capaci, grazie ad una preparazione universitaria e specialistica di assoluto livello, di esercitare la semeiotica medica in maniera così raffinata da essere in grado, già dopo il primo sguardo clinico rivolto al paziente, di diagnosticare patologie in corso, o in procinto di manifestarsi, con precisione e predizione invidiate da ogni aruspice, sacro o profano. Evidentemente, e più realisticamente, la integrazione di questi medici e pediatri, all’interno delle nuove “comunità” di cura, dovrà passare attraverso l’intero ripensamento del loro percorso di studio e professionale: ciò allo scopo di fare sì che essi possano dapprima riappropriarsi di una professione medica sostanziale; di poi svolgere tale professione alla stregua di una guida e direzione sicura, capace di orientare il singolo paziente nella scelta dei percorsi terapeutici più appropriati.

 

Note

  1. Sul tema, Ministero della Salute, Direzione Generale della Programmazione Sanitaria, Linee di indirizzo nazionali sul triage intraospedaliero, 2019.
  2. Come noto, l’incipit di L.N. Tolstoj, Anna Karenina, ha ad oggetto la somiglianza/differenza che concerne tutte le famiglie felici/infelici, e non invece i singoli individui.
  3. A conferma di ciò si rinvia, per gli immigrati irregolari, alla apposita pagina web istituzionale, “Assistenza ai cittadini dei Paesi extra UE, in Italia”, del Ministero della Salute e, per le persone senza fissa dimora, a questo contributo di Vita.
  4. [Tra i molti contributi dedicati al tema, attenti anche all’impatto economico-finanziario derivante dall’approccio terapeutico richiamato nel testo, C. Granelli, La medicina difensiva in Italia, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2016, 1, p. 22 ss.
  5. Missione 6C1: “Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza territoriale”, p. 227 ss., reperibile qui: https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf.
  6. F. Battiato, La cura, 1997.