In un precedente articolo pubblicato nel settembre 2022, abbiamo raccontato come il progetto Erasmus+ HOOD – Homeless’s Open Dialogue miri ad adattare l’approccio della Coprogettazione Capacitante al lavoro con le persone senza dimora. Per tre anni i quattro partner operativi di HOOD1, supervisionati dal Centro Studi DiVI dell’Università di Torino, hanno studiato e adottato questo approccio nella progettazione educativa con le persone senza dimora, adattandolo alle esigenze delle proprie organizzazioni e delle singole persone, con l’obiettivo di promuovere percorsi di capacitazione.

Nel realizzare ciò, come già presentato nell’articolo menzionato, il “sogno” è un elemento cruciale: la progettazione educativa in HOOD, infatti, parte dal sogno di futuro felice della persona, che diventa l’obiettivo di progetto senza essere valutato, riorientato o adattato dall’operatore. Il desiderio diventa la materia prima con cui lavorare, motore e timone del progetto personalizzato.

HOOD è stato essenzialmente un percorso di lavoro e riflessività sui mindset professionali, sulle organizzazioni e servizi, in particolare rispetto al tema del potere. In questo articolo vogliamo soffermarci proprio su questo elemento, raccontando come i partner di HOOD hanno affrontato il tema della redistribuzione del potere, elemento portante della Coprogettazione Capacitante (argomento al centro del precedente articolo).

Profilare… chi?

Con il progredire della conoscenza della Coprogettazione Capacitante, in HOOD ci siamo trovati di fronte a una serie di paradossi. Uno degli obiettivi dell’approccio, infatti, era quello di spostare lo sguardo dal beneficiario dell’intervento all’operatore o all’organizzazione. La proposta consisteva nello smettere di “lavorare per cambiare le persone” ma pensare a come i progetti, i servizi e la stessa attitudine dei professionisti potesse trasformarsi per adattarsi alle singole individualità.

Ci siamo resi conto di quanto i terreni da cui partivamo come partner fossero distanti da questa proposta quando, nel primo asse di progetto, ci siamo trovati a dover costruire una “griglia per profilare” i beneficiari dell’intervento. Il Centro Studi DiVI ci invitava a non soffermarci sulla storia, sulle caratteristiche oggettive e categorizzabili della persona (da quanto tempo è in strada? Ha avuto problemi di tossicodipendenza?), quanto sul futuro: sui desideri, sulle opinioni della persona raccontate direttamente da lei. Lo spostamento suggerito era simile a quello che si compie passando da un questionario strutturato a un’intervista qualitativa: in quest’ultima la persona intervistata ha grande libertà di raccontare ciò che ritiene rilevante e interessante, facendo emergere anche elementi non previsti dall’intervistatore o mettendone altri in secondo piano.

Persone senza dimora: i dati del Censimento ISTAT

Di fronte a questo compito paradossale abbiamo seguito l’invito del Centro Studi DiVI a “spostare lo sguardo”, smettendo di pensare alle caratteristiche standard delle persone incontrate e rivolgendo l’attenzione verso le nostre organizzazioni. Ci siamo interrogati su quali elementi contribuissero alla riproduzione di un’asimmetria di potere tra operatori e utenti. E così una griglia di profilazione del target è diventata una griglia di elementi di potere nelle organizzazioni.

Spazi, documenti e linguaggio: le impalcature del potere

Abbiamo avviato questa riflessione partendo dagli elementi tangibili del lavoro quotidiano. Dagli spazi, innanzitutto. Spesso la disposizione del mobilio nei nostri uffici racconta una storia di gerarchie e distanze. Una scrivania ingombra di documenti in mezzo alla stanza, a separare operatore e beneficiario. Uno schermo del computer su cui l’operatore scrive senza che la persona possa leggere. In questo modo trasmettiamo messaggi precisi alla persona rispetto ai ruoli e alle competenze nella relazione d’aiuto, che non aiutano a rendere quest’ultima protagonista del proprio percorso.

Le équipe di HOOD hanno modificato gli uffici in cui incontrano i beneficiari degli interventi: alla scrivania hanno preferito delle poltroncine o sedie disposte in cerchio, a evidenziare una tensione verso la parità tra le parti coinvolte nella relazione d’aiuto. Diversi operatori e operatrici hanno abbandonato gli uffici stessi, concordando con le persone dove svolgere gli incontri: al bar, su una panchina, in un alloggio temporaneo. C’è chi ha svolto i colloqui camminando per i parchi della città, assecondando l’idea portata da una giovanissima utente di HOOD.

Cosa sta cambiando nei servizi per le persone senza dimora?

Anche i nomi degli uffici o dei servizi possono sottrarre potere alle persone. Questo è particolarmente evidente nel lavoro con le persone senza dimora, vittime di una profonda stigmatizzazione sociale. Nel corso di HOOD, questa consapevolezza ha portato per esempio l’équipe della Fondazione Ufficio Pio a modificare il nome di un proprio programma da “Senza Dimora” a “Primo Piano”, immagine che rimanda a un piano di un’abitazione, ma anche a un primo piano fotografico, in cui la persona è al centro, con i suoi desideri e la sua storia.

Non tutti i partner di HOOD, tuttavia, lavorano in uffici. Projekt UDENFOR, per esempio, è una ONG danese che si dedica all’outreach work2 e che ha deciso di non indossare una divisa, a differenza di molte unità di strada. Certo, la divisa in molti casi può essere una forma di tutela per l’operatore di fronte a situazioni difficili, ma UDENFOR ha deciso di farne a meno per ridurre la distanza con i senzatetto incontrati in strada e per differenziare nettamente il proprio operato da quello di altre istituzioni, tanto le forze dell’ordine, quanto i servizi sociali. A differenza di questi ultimi, inoltre, UDENFOR adotta un approccio di riduzione del danno e supporta le persone nella realizzazione delle proprie volontà, senza proporre percorsi predefiniti e obiettivi da raggiungere.

Un altro elemento della riflessione sul potere sono i documenti. Spesso come operatori sociali scriviamo una quantità di documenti, schede e griglie sui beneficiari, senza che questi possano leggerli. Fin dalle origini della civiltà la scrittura ha rappresentato un autorevole strumento di potere, che segna distanze e gerarchie. Per evitare che questo avvenisse anche all’interno dei nostri progetti, abbiamo iniziato a scrivere con le persone, non su di esse.

Abbiamo girato gli schermi del computer in modo che fossero chiaramente leggibili dai beneficiari. Le schede progettuali sono diventate strumenti da compilare insieme, rispetto a cui confrontarsi, offrendo alle persone la possibilità di richiedere sempre delle modifiche, anche in corso d’opera. Questo ci ha aiutato anche a costruire un piano di trasparenza in cui l’utente era a conoscenza di tutto quello che lo riguardava, aspetto non scontato in precedenza nel nostro lavoro.

I servizi come agenti del cambiamento nel contrasto alla Homelessness

Infine, abbiamo modificato anche il linguaggio, sia nei documenti sia nella comunicazione orale. Il lessico del lavoro sociale è, come tutti i linguaggi professionali, tecnico: si apprende in un percorso di formazione strutturato, si consolida nel lavoro con i colleghi, serve per tradurre la realtà all’interno di schemi di interpretazione e segnala un’appartenenza professionale nel confronto con gli altri, operatori o beneficiari. Le persone che incontriamo, tuttavia, non padroneggiano questo vocabolario. Le loro storie, opinioni, desideri vengono tradotte in parole che non conoscono, sottraendo ad essi potere e competenza su ciò che li riguarda. Tutti abbiamo avuto esperienze analoghe in certi studi medici in cui la nostra esperienza di malattia e di corpo improvvisamente ci era estranea e inintelligibile quando riproposta in un gergo medico specialistico.

Perché le persone fossero le protagoniste dei propri percorsi abbiamo iniziato a usare unicamente le loro parole, senza rielaborarle. Questa è una forma molto letterale per restituire “la parola” a persone che spesso ne vengono private nel contesto sociale: ovviamente occorre un lavoro su più livelli perché le opinioni abbiano spazio di emersione e siano prese sul serio, ma iniziare a riconoscere e utilizzare le loro parole nella relazione d’aiuto può essere un primo step perché questa diventi una primigenia esperienza di capacitazione nella società.

La filigrana del potere: riflessioni sul mindset professionale

Nella griglia trasformata abbiamo inserito questi e altri elementi “tangibili” che riproducono un’asimmetria di potere nella relazione d’aiuto. Tuttavia, la riflessione più profonda che abbiamo condiviso in HOOD è legata a elementi più immateriali, che riguardano il modo di intendere la realtà che ci circonda e il ruolo di professionisti.

Il cambiamento più radicale è legato alla visione “polifonica” della realtà proposta dalle Pratiche Dialogiche: secondo questo approccio la comprensione della realtà è un’opera collettiva a cui collaborano diverse voci in posizione equiparata. Spesso, invece, nella relazione d’aiuto gli operatori sociali pensano di avere – o di dover avere – una visione della realtà migliore di quella persona: sanno qual è il “suo reale bisogno”, quali sono stati gli errori, quali sono le possibilità effettive e quali no. L’operatore assomiglia in questa immagine al “narratore onnisciente” dei romanzi classici, che conosce la trama e la situazione meglio dei personaggi che vivono direttamente le situazioni. All’interno di HOOD abbiamo rinunciato a questa prospettiva, riconoscendo che la comprensione della realtà è necessariamente frutto di un lavoro di relazione e co-costruzione paritaria, in cui ogni parte contribuisce con elementi diversi, ma senza una differenza qualitativa.

Lavorare con il desiderio

Quest’assunzione comporta un secondo spostamento: riconoscere che non possiamo sapere quale sia il bene dell’altro. Spesso gli operatori sentono la pressione, quando non l’imperativo professionale, di dover sapere quale sia la “soluzione” migliore per il beneficiario che hanno di fronte. Adottare un approccio dialogico, invece, comporta il riconoscimento del protagonismo dell’altro. Non possiamo conoscere noi quale sia il bene per un’altra persona, così come non possiamo sapere quali siano i reali pericoli. Come emerge dalla teoria della capacitazione elaborata da Martha Nussbaum e Amartya Sen, ogni persona sceglie per sé in maniera diversa dagli altri, adottando scale di giudizio e di priorità differenti. In HOOD, abbiamo imparato ad accettare che le nostre preoccupazioni per alcuni aspetti delle vite dei nostri utenti possano non essere per essi delle priorità.

Il riconoscimento di questi limiti e l’abbandono della posizione da “narratore onnisciente” ci ha permesso, infine, di allenare l’ascolto attivo. Ci siamo resi conto di come nei colloqui con le persone senza dimora, mentre ascoltiamo automaticamente il cervello sta già elaborando le informazioni ricevute, valutandole, considerando quali sono credibili e quali meno, immaginando possibili soluzioni e proposte. Abbiamo imparato a sgombrare il campo da questa folla di pensieri, a presentarci come un “vaso vuoto” per poter autenticamente ascoltare quello che la persona ha da dirci e, solo in un secondo momento, lavorare insieme per costruire un percorso, i cui obiettivi saranno decisi dalla persona stessa.

Diventare acrobati

Il processo di restituzione del potere su diversi piani ha trasformato le nostre organizzazioni ed è diventato un prerequisito fondamentale per l’elaborazione di percorsi di Coprogettazione Capacitante. Si tratta di un lavoro che necessita di continua “manutenzione”. Non è, infatti, un’operazione semplice, poiché necessita di distanziarsi da un modello gerarchico, più definito e capace di fornire maggiori certezze agli operatori sociali. Più che un’opera di “smantellamento”, la redistribuzione del potere assomiglia a una pratica acrobatica, che richiede allenamento, chiarezza di obiettivi e continua attenzione all’azione in corso. E, come per l’acrobatica, lavorare in questo modo ci sorprende continuamente perché ci permette di uscire da schemi predefiniti, scoprendo pezzi di noi e degli altri che ancora non conoscevamo.

 

HOOD è un progetto realizzato grazie sostegno della Commissione europea (Project No. 2020-1-IT02-KA204-079491). Il sostegno alla produzione di questa pubblicazione non costituisce un’approvazione del contenuto da parte della Commissione. Esso riflette esclusivamente il punto di vista degli autori e la Commissionenon può essere ritenuta responsabile per l’uso che può essere fatto delle informazioni ivi contenute.

 

Riferimenti bibliografici

  • Sen A. (2014), Lo sviluppo è libertà, Milano, Mondadori.
  • Nussbaum M.C. (2002), Giustizia sociale e dignità umana, Bologna, Il Mulino.

Note

  1. Ufficio Pio è capofila del progetto HOOD che vede la partecipazione come partner di: PROJEKT UDENFOR (Copenhagen), SJD Serveis Sociais (Barcellona), Klimaka (Atene), CESIS (Lisbona), Università degli Studi di Torino; e come partner associati: FEANTSA, fio.PSD, HOGAR SÍ, Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste.
  2. Lavoro nelle unità di strada.
Foto di copertina: Pexels via Pixabay.