5 ' di lettura
Salva pagina in PDF
L’articolo che segue è parte di “Allargare lo sguardo sulla conciliazione”, dispensa che raccoglie approfondimenti tematici per i partecipanti del modulo formativo “Rinnovare le RTC: reti e nuove logiche per innovare i servizi locali” realizzato nell’ambito di WorkLife Community.

Stiamo facendo i conti con un cambiamento demografico epocale. Un cambiamento largamente annunciato ma non tradotto in adeguate politiche, visto che le misure per l’invecchiamento si sono sinora principalmente concentrate sui bisogni di invecchiamento attivo di una fascia di popolazione – i cosiddetti “senior” – diventati i maggiori acquirenti di beni di consumo, viaggi o occasioni di svago.

Ma a fianco di una crescente fetta di popolazione che gode dei frutti di una agognata pensione, vi sono milioni di anziani fragili – con limitazioni funzionali o non autosufficienti – che necessitano di supporto relazionale e assistenziale. Un supporto che, con l’aumento dell’aspettativa di vita e con il connesso progredire di patologie croniche e degenerative, ha una durata non più di “alcuni” anni, ma mediamente di 12-15 anni.

Un lungo lasso di tempo, dunque, che per l’anziano è caratterizzato da progressive perdite di autonomie e conseguenti necessità di aiuto crescente e continuativo – bisogni che non trovano risposte in un sistema di servizi progettato negli anni ‘70 e che poteva quindi contare su un contesto familiare, sociale e lavorativo ben diversi dalla situazione attuale. Un sistema di offerta di servizi focalizzato su logiche binarie: istituzionalizzazione da un lato e, dall’altro, servizi domiciliari prettamente prestazionali a minutaggio.

Caregiver familiari: rinunce e mancate opportunità

La crescente e improcrastinabile domanda di cura ha così dovuto trovare risposte nell’impegno diretto dei familiari o, più spesso, del “familiare” (a fronte della crescita dei nuclei unifamiliari e del costante declino delle nascite). Un familiare che si prende prioritariamente cura, sovente in totale solitudine o con l’apporto di lavoro privato di cura (badanti/assistenti familiari), anche dei figli adolescenti.

Una cura che – per quanto concerne il familiare caregiver – si nutre di affetto, di amore, ma anche di rinunce: rinuncia al tempo per sé, rinuncia al proprio progetto di vita, rinuncia a relazioni amicali, professionali… e tanta ansia, stress, fatica, crescente isolamento, solitudine e impoverimento. Un impoverimento di opportunità di vita e di relazioni che si traduce spesso anche in un crescente aumento di spese e riduzione di entrate derivanti dalla difficoltà a mantenere il lavoro, che spesso devono lasciare. A dare questo supporto sono coniugi, figli, nipoti (complessivamente oltre il 14% della popolazione), con un forte squilibrio di genere.

Donne, migrazioni e caregiving: la cura informale di fronte alla sfida della pandemia

Ma la cura in molti casi non è una scelta: è una necessità. E quando diventa obbligo rischia di tradursi in sinonimo di limitazione, sovraccarico, fardello. E il peso “brucia” l’energia psicofisica, porta a ritenere che non vi siano vie di uscita, a rinchiudersi sempre più in sé sino a situazioni in cui si identifica il “curato” come la causa del proprio stato di malessere – situazioni che, se non prevenute e mediate, rischiano di favorire forme di violenza anche estreme.

Un caso particolare: giovani caregiver a rischio di dispersione scolastica

E se così pesante e complesso è il vissuto di tante e tanti caregiver adulti, a maggior ragione occorre portare attenzione specifica ad oltre 400.000 giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni che hanno un ruolo significativo nel prendersi cura di un membro della propria famiglia. Si tratta di ragazzi e ragazze che hanno un genitore, un fratello/sorella o un altro membro della famiglia che ha una disabilità fisica o mentale, o una dipendenza da droga o alcool, o una malattia terminale o cronica.

Questi caregiver, le cui esperienze di vita sono spesso trascurate dall’opinione pubblica, portano sulle spalle le responsabilità proprie di una persona adulta. Portare queste responsabilità costituisce però un fattore di rischio rilevante per il loro sviluppo psicofisico, per la loro inclusione sociale prima e lavorativa poi.

Una situazione che, come diversi studi anglosassoni hanno evidenziato, conduce spesso all’abbandono scolastico in relazione alla difficoltà a garantire la frequenza, alla pesante stanchezza psicofisica, alla difficoltà a concentrarsi o a rispettare programmi e scadenze di studio. Situazioni e comportamenti le cui cause non sono rese esplicite per timore di raccontare la condizione propria e familiare di “diversità”, poiché sovente espone a forme di stigma, se non di vero e proprio bullismo

È allora essenziale che le organizzazioni scolastiche e sociali tutelino i ragazzi e le ragazze, insieme alle loro famiglie, attraverso ascolto, accoglienza, inclusione, supporti psicologici, assistenziali e materiali. Queste tutele devono però assumere la forma di diritti esigibili – come nel caso dei caregiver adulti (mutatis mutandis) – in un contesto che riconosca il bisogno ed il valore della cura e che, a tal fine, sappia bandire lo stigma, il bullismo e la violenza verso il “diverso” per premiare comportamenti e relazioni di reciproco aiuto.

Non solo azioni e buone prassi, ma un cambiamento culturale profondo

Ogni azione che porti a dare reale supporto e inclusione, ogni intervento o sperimentazione che porti a produrre buone pratiche è importante. Ma non basta. Non si tratta, infatti, solo di fare delle buone azioni o un buon progetto: si tratta di cambiare sguardo verso la società che, sempre più in questi decenni, ha teso a valorizzare l’individuo in sé e per sé, oscurando coscientemente la fragilità dell’essere umano e il suo bisogno intrinseco di relazioni, di reciproco riconoscimento e supporto.

La pandemia ha reso evidente il senso di tali affermazioni e la necessità di riprendere un cammino di ricostruzione, di una nuova umanità. La cura è l’essenza dell’umanità – e allora ripartiamo da lì: dalla consapevolezza dei nuovi bisogni di chi necessita di cura e di chi si prende cura, dalla necessità di sensibilizzare, diffondere valori, premiare comportamenti, ridefinire servizi e organizzazioni di studio e di lavoro coerenti con le nuove fragilità e con un nuovo patto tra generazioni.

Dalla parte del caregiver familiare: note per riformare l’assistenza agli anziani non autosufficienti

E in questa riprogettazione sociale della cura partiamo necessariamente dalla salute, ma estendendo l’azione alle politiche abitative, culturali, educative, del lavoro, della previdenza, della mobilità, dell’inclusione digitale, dei tempi di vita e di lavoro. Insomma, agiamo per dare corpo ad una società dell’accoglienza, dell’inclusione, delle pari opportunità in cui il termine “conciliazione” non ricada sulle spalle del singolo, ma rappresenti un obiettivo perseguito dalla comunità. La cura ripartita non è un fardello, ma uno scambio di attenzioni. È  consapevolezza che tutti possiamo trovarci in condizioni di dover ricercare aiuto, ma anche di riceverlo. Cerchiamo allora di avere coscienza del punto di partenza e del punto di arrivo, mettendo in atto interventi coerenti, appropriati e sostenibili.

Questa dimensione comincia a declinarsi nelle strategie europee, ma trova larghi ostacoli in contesti come l’Italia, in cui si stenta a dare corpo a riforme strutturali organiche e in cui troppo spesso si fanno scelte condizionate da opportunità politiche e si consumano risorse economiche in logiche settoriali o di breve periodo. Lo sguardo lungo, la costruzione un nuovo paradigma di vita, di salute, di studio, di lavoro può avere nelle linee europee, negli obiettivi e nelle risorse del Next Generation Europe un importante punto di aggancio per chi, nel nostro Paese, vuole dare risposte ai tanti che ogni giorno pagano sulla propria pelle il peso della cura, il peso della diversità e il peso della fragilità.

Incominciamo da lì e dal riequilibrio di genere. Ponendo le basi per opportunità rivolte a tutti, ma non a carico degli altri, per costruire relazioni di comunità e legami sociali che diventino elementi di sicurezza e protezione nelle diverse stagioni della vita. Il cambiamento si genera con una visione, con una progettazione condivisa, con l’attenzione alla persona, con la costruzione di opportunità e pari diritti. Tutto questo è conciliazione.

 

WorkLife Community (WLC) è il percorso formativo dedicato alle Reti Territoriali di Conciliazione e alle Alleanze di Regione Lombardia, organizzato dall’Università degli Studi di Milano su incarico di PoliS Lombardia. Percorsi di secondo welfare partecipa a WLC mettendo a disposizione le sue competenze e la sua piattaforma per diffondere temi e contenuti del progetto.

 

Foto di copertina: pasja1000 via Pixabay.