La povertà lavorativa è un fenomeno di recente, e ormai crescente, interesse in Europa. Secondo i dati Eurostat, circa l’11,7% dei lavoratori italiani sono “poveri”. I paesi europei differiscono tra loro in termini di incidenza del fenomeno e in termini di fattori socio-demografici associati al rischio di avere un reddito familiare che non consente di vivere dignitosamente malgrado si abbia un lavoro. La complessità e l’urgenza del fenomeno – in assenza di politiche strutturali a livello nazionale – spingono gli enti locali a formulare strategie di policy innovative e volte a contrastare il fenomeno, lasciando spazio per ulteriori riflessioni sulla funzione della governance territoriale nel facilitare e/o ostacolare tali processi.

Nella prima sezione dell’articolo si ripercorrono le caratteristiche della povertà lavorativa, come si manifesta e i principali strumenti per rispondervi. A seguire, la seconda sezione propone una ricostruzione delle logiche di platform welfare, in combinazione agli strumenti di contrasto al fenomeno. La penultima sezione presenta i fattori facilitanti alla transizione verso l’innovazione sociale a livello territoriale. Infine, la quarta sezione conclude e suggerisce alcune sfide aperte nel campo dell’innovazione del welfare locale di fronte alle sfide emergenti.

La povertà lavorativa: come si manifesta e quali misure per rispondervi?

Quello dei working poor è un fenomeno ancora poco indagato nel nostro Paese e attualmente non esiste una definizione univoca del fenomeno. Tuttavia, nell’ultimo decennio il tasso di povertà lavorativa in Italia, l’in-work at-risk-of-poverty rate, è aumentato di circa 5 punti percentuali.

Ma chi sono i lavoratori poveri? L’Eurostat definisce povero il lavoratore (“working poor” o “in-work poor”) di età compresa tra i 18 e i 64 anni che, pur lavorando almeno sei mesi durante l’anno, vive in una famiglia il cui reddito disponibile equivalente è inferiore al 60% del reddito equivalente mediano. La povertà lavorativa è una forma di povertà relativa che esprime la difficoltà economica dei nuclei familiari in rapporto al livello economico medio e di vita dell’area territoriale in cui la persona vive.

La misurazione e la definizione del fenomeno considerano sia la condizione occupazionale (la tipologia contrattuale e l’intensità lavorativa) sia la composizione familiare dell’individuo (il numero di figli a carico, altri oneri di cura e la condizione occupazionale del coniuge/partner). A completare il quadro, le caratteristiche individuali e familiari si congiungono ai fattori istituzionali (ad esempio, l’assenza della legislazione sul salario minimo e la presenza di un reddito minimo, ecc.) e strutturali (ad esempio, il tasso di disoccupazione, la polarizzazione e la flessibilizzazione del mercato del lavoro, ecc.). I quattro fattori hanno chiaramente un peso differente a seconda della condizione specifica che interessa ciascun lavoratore povero e, almeno idealmente, non devono essere necessariamente compresenti per determinare una condizione di povertà lavorativa.

In altre parole, il lavoratore povero non è riconducibile alla sola “classe operaia” (come lo era, ad esempio, negli scritti di Marx e Engels) e si scontra con le sfide poste da un mercato del lavoro, nell’era post-industriale, più agile e competitivo, unitamente alle sfide socio-demografiche e al contenimento dei costi dei sistemi di welfare. In Italia, ad essere più colpiti dal fenomeno sono i lavoratori autonomi, i lavoratori temporanei e part-time e le famiglie con figli minori, questo a conferma del fatto che la componente “familiare” gioca un ruolo cruciale nel determinare i tassi di povertà lavorativa. Alla povertà lavorativa si associano poi rilevanti risvolti demografici, economici e sociali; ad esempio, l’insicurezza nella pianificazione familiare economica e l’aumento dell’età media al primo figlio e al matrimonio (Di Bartolomeo 2011).

La pluralità di dimensioni che costituiscono il fenomeno contribuiscono alla complessità delle policy per contrastarlo. Le misure di contrasto al fenomeno si suddividono in misure dirette (es. in Italia, il Reddito di Cittadinanza, l’Assegno Unico Familiare e il Bonus Irpef) e indirette (es. a livello locale, le misure di conciliazione vita-lavoro, le politiche attive del lavoro, le politiche abitative).

Quelle dirette fanno capo ai sistemi di protezione sociale e/o riguardano il mercato del lavoro: ad esempio, intervenendo sul rapporto tra datore di lavoro e lavoratore. Gli interventi “indiretti” fanno invece riferimento alle misure che contribuiscono ad alleviare la povertà lavorativa individuale e familiare, sebbene non abbiano un impatto diretto sui fattori strutturali o istituzionali del fenomeno. I Comuni e gli enti locali possono agire in maniera trasversale e “indiretta” nel contrasto alla povertà lavorativa, ed esercitano attività di erogazione, implementazione e intermediazione dei servizi di contrasto alle vulnerabilità (come nel caso dei servizi alla prima infanzia, di conciliazione vita-lavoro, e di supporto al reddito e all’occupazione).

Verso l’innovazione sociale: la logica “platform welfare” nel contrasto alla povertà lavorativa

La parcellizzazione e la rigidità delle misure di welfare – caratterizzate da una logica di erogazione “a silos” – limita la capacità degli enti locali di intercettare e rispondere a nuove forme di povertà, tra cui quella lavorativa. L’assenza di interventi strutturali nel mercato del lavoro a livello nazionale, hanno spinto gli enti locali a riorganizzarsi “dal basso” per far fronte alle sfide sociali emergenti. Ne è la prova il progetto Welfare Innovation Local Lab1 (WILL), partito nel 2019 con l’intento di promuovere il rinnovamento del welfare locale.

Il progetto WILL è un’iniziativa comunale nata dalla volontà di alcune città capoluogo distribuite in quattro regioni italiane del Nord (Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto), al fine di cooperare per sperimentare risposte innovative ai problemi strutturali che rendono i sistemi di welfare difficilmente sostenibili. Tra gli ambiti di innovazione di WILL si colloca il fenomeno dei working poor.

Le linee di intervento di WILL, coadiuvate da un team di supervisori scientifici (Cergas/SDA Bocconi, dell’Università degli Studi di Milano insieme a Percorsi di secondo welfare) puntano a individuare gli strumenti tecnico-amministrativi per poter sperimentare in modo innovativo logiche di assegnazione degli incarichi e degli appalti outcome-based e frutto di co-programmazione e co-progettazione. In tal senso, i Comuni decidono di individuare le forme di sostegno più adeguate (economico, professionale, scientifico, culturale) e attivare piattaforme di ricomposizione sociale e/o di mercato, così come raggiungere la massa critica di utenti/partecipanti.

Come si conciliano queste logiche con il contrasto alla povertà lavorativa? Come detto, il fenomeno è il risultato dell’interazione di più variabili. A livello comunale, le linee di intervento “indirette” riconducono a tre finalità di intervento:

  1. Il contrasto al rischio di povertà e di impoverimento (es. prestazioni monetarie per il sostegno alla casa o alle utenze, percorsi di educazione finanziaria);
  2. Il sostegno ai bisogni di conciliazione vita-lavoro (es. esenzioni dal pagamento di servizi comunali, voucher pubblici);
  3. Il supporto all’occupabilità e alle tutele (es. supporto alla domanda e all’offerta di lavoro, ad esempio per mezzo di piattaforme marketplace per generare opportunità lavorative maggiori e meglio retribuite).

Nel quadro dell’innovazione sociale, l’applicazione di tali logiche necessita la co-costruzione di piattaforme condivise – per mezzo di strumenti digitalizzati e non – con l’intento di riconfigurare i rapporti tra gli attori locali, da un lato, e favorire la co-ideazione e implementazione di spazi condivisi e inclusivi, dall’altro. L’innovazione, di prodotto e di processo, ambisce all’introduzione di nuovi (o rinnovati) strumenti e processi indirizzati a irrobustire le connessioni e i legami tra le iniziative, gli attori e le risorse disponibili sul territorio (Maino 2017). In letteratura, lo studio di tali processi origina dall’analisi dei processi di innovazione sociale nel campo delle relazioni sociali (Bunker & Alban 1992) e, a seguire, dal tentativo di stabilire un legame tra sostenibilità economica, efficienza e benessere collettivo, attraverso la congiunzione delle teorie sull’innovazione sociale e dei servizi (“service innovation”) (den Hertog & Bilderbeek 1999; Berloto e Fosti 2019).

Nel campo della povertà lavorativa, questi processi si traducono nel coinvolgimento attivo di imprese, enti del Terzo Settore, organizzazioni di rappresentanza, enti bilaterali, con l’intento di ampliare il bacino di servizi rivolti ai lavoratori, alle lavoratrici e ai loro figli, riducendone la frammentazione nell’erogazione e nell’implementazione. I potenziali interventi spaziano dall’incremento del salario e del reddito disponibile (es. sostegno economico per la casa e agevolazioni fiscali), alle agevolazioni per l’accesso ai servizi e la conciliazione vita-lavoro (es. piattaforme di mutuo-aiuto e forme di sharing costs per l’accesso ai servizi), sino all’aumento della domanda di lavoro e, quindi, il miglioramento del mismatch tra domanda e offerta (es. tavoli locali multistakeholder e forme di community building).

I fattori facilitanti all’innovazione: il rapporto tra pubblica amministrazione e politica locale

La povertà lavorativa è spesso definita una povertà “invisibile”. Negli ultimi vent’anni, il prevalere di un approccio welfare-to-work (si intendono, le iniziative pubbliche dirette a inserire o reinserire nel mercato del lavoro i soggetti più svantaggiati della popolazione, con l’introduzione di sussidi o aiuti accessibili con una prova dei mezzi e vincolati dalla ricerca attiva del lavoro), ha sorvolato sulle problematiche insite nel mercato del lavoro come, ad esempio, il progressivo indebolimento della legislazione sulla protezione del lavoro.

Allo stato attuale, si riconosce come siano gli stessi lavoratori e le loro famiglie, e quindi non solo i disoccupati e gli inattivi, ad essere poveri: il lavoro non protegge più sufficientemente dai rischi sociali. Questo richiede, a tutti i livelli di governo, una chiara transizione verso un nuovo “paradigma”. Come noto, l’intrappolamento dei sistemi di welfare territoriali in pratiche e norme stratificate rallenta i processi di transizione da un paradigma all’altro e, appunto, tali processi dipendono dalle caratteristiche del territorio in cui evolvono. Ed è qui che entra in gioco l’innovazione sociale.

Infatti, la realizzazione di iniziative innovative è strettamente correlata alle caratteristiche istituzionali del territorio (la cornice legislativa, il sistema di finanziamenti, la struttura organizzativa prevista e la scalabilità degli interventi). Tali fattori agiscono sull’intero processo di policy-making e influenzano ciascuna delle fasi del ciclo di policy, dall’agenda setting, sino all’implementazione e alla valutazione della politica.

Rispetto al secondo fattore facilitante, la “struttura organizzativa” (in riferimento al ruolo, agli interessi e alle responsabilità di cui ciascuno degli attori coinvolti nel processo decisionale è coinvolto), ad esercitare una pressione “endogena” al quadro istituzionale di riferimento è il rapporto tra politica e pubblica amministrazione. Secondo la letteratura, i processi di innovazione sociale si contraddistinguono per la neutralità dei fini e degli strumenti per raggiungerli (Phills et al. 2008). In particolare, tale neutralità è evidente nelle prime due fasi del ciclo di policy – la formazione dell’agenda e la formulazione delle policy – in cui i problemi sociali si definiscono come tali (per cui, un problema è collettivamente e oggettivamente percepito come tale) e conducono alla formulazione di strategie per rispondervi (secondo una logica “input-outcome”, secondo cui ad essere rilevanti sono gli impatti sociali di lungo periodo).

E’ nello scambio virtuoso tra pubblica amministrazione (ad esempio rappresentata dal dirigente dei servizi sociali o da altre figure che ricoprono posizioni organizzative nella struttura comunale) e attori politici (in primo luogo l’Assessore al Welfare, possibilmente in coordinamento con altri assessorati che direttamente o indirettamente si occupano di politiche del lavoro) che si creano le basi per ridurre l’inerzia e/o la miopia che spesso limitano l’interazione sinergica tra gli stakeholder locali. In tal senso, i processi di innovazione sociale sarebbero allora perlopiù de-politicizzati mentre i “policy entrepreneur” agirebbero con l’intento di individuare le “crepe” dei sistemi territoriali, al fine di creare i presupposti per favorire aperture e opportunità in grado di affrontare nuove sfide e introdurre nuove modalità di risposta.

Le sfide aperte

Nonostante la narrativa ottimista, non mancano le difficoltà nella formulazione, nell’implementazione e nella valutazione dei processi di innovazione sociale soprattutto se applicati a fenomeni sociali complessi come è il caso della povertà, in continua crescita.

Sebbene i sistemi sociali si servano dei processi di “innovazione sociale” per accrescere la propria resilienza, nella fase di formulazione e implementazione delle policy non c’è ancora piena consapevolezza da parte degli attori locali dei risvolti operativi riguardanti l’introduzione di logiche e prodotti innovativi per far fronte alle sfide sociali. Inoltre, il tentativo di combinare le risposte di policy alla povertà lavorativa secondo logiche di innovazione sociale ha mostrato come, in assenza di iniziative politiche nazionali, questi processi da soli non siano sufficienti a colmare i gap strutturali. Questo, secondo alcuni, incentiverebbe i casi, già evidenti nello scenario nazionale, di frammentazione delle iniziative di policy locali.

Occorre, in ottica futura, guardare all’innovazione sociale partendo da un’altra dimensione: l’eco (ri)generativo di tali processi. Una volta avviati, questi sviluppi sono capaci di generare una risonanza tale da riuscire ad inglobare una molteplicità di attori nel maggior numero di ambiti sociali possibili (lavoro, sport, cultura, educazione…). Poiché l’innovazione sociale necessita, in prima istanza, di un cambio paradigmatico – sia nell’azione che nel pensiero – esso contribuisce a creare le condizioni per migliorare la “resilienza territoriale”, incentivando un’alta flessibilità rispetto ai rischi e alle esigenze sociali. L’investimento di lungo periodo nel territorio è alla base di un rinnovato concetto di cittadinanza sociale “a geometria variabile” che, a fronte di esigenze diverse e in continua evoluzione, richiede risposte e interventi differenziati.

Per approfondire

Berloto, S. & Fosti, G. (2019), Paradigmi di innovazione per i servizi di welfare locale: servizi, service management e innovazione, in G. Fosti, E. Notarnicola, E. Ricciuti, S. Berloto e E. Perobelli (a cura di), Il cambiamento nel welfare locale: lezioni per il riposizionamento dei servizi pubblici, OCAP 2.2019, Egea, Milano.

Berloto, S., Maino, F. & Meda, F. (2021), Progettare il welfare locale: il ruolo della governance, in F. Longo e F. Maino (a cura di), Platform welfare. Nuove logiche per innovare i servizi locali, Egea, Milano.

Den Hertog, P. & Bilderbeek, R. (1999), Conceptualising Service Innovation and Service Innovation Patterns, Thematic essay within the framework of the research Programme Strategic Information Provision on Innovation and Services, Directorate for General Technology Policy, Utrecht.
Di Bartolomeo, G., Di Bartolomeo, A., Pedaci, M. (2011), Chi sono I lavoratori poveri?, Journal of Applied Economics, Volume 2, pp. 42-61.

Longo F. e Maino F. (2021), Platform Welfare. Nuove logiche per innovare i servizi locali, Egea.
Maino, F. (2017), Secondo welfare e innovazione sociale in Europa: alla ricerca di un nesso, in F. Maino e M. Ferrera (a cura di), Terzo Rapporto sul secondo welfare in Italia 2017, Torino, Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi, pp. 19-42.

Maino, F. (2020), WILL: il progetto per innovare i sistemi di welfare locale, 5 novembre 2020.
Phills, J., Deiglmeier, K., Miller, T.D. (2008) Rediscovering Social Innovation, Stanford Social Innovation Review, Volume 6, Issue 34.


Questo articolo è stato pubblicato su Quaderni di Economia Sociale 2/2021 ed è qui riprodotto previo consenso dell’autrice.

Note

  1. Per ulteriori informazioni sulla genesi e le finalità del progetto al Capitolo 9 del volume “Platform Welfare. Nuove logiche per innovare i servizi locali” (Longo e Maino 2021).