I contenuti di questo articolo fanno parte di un lavoro in corso, realizzato nell’ambito del progetto DisPARI, dal titolo “Developing perspectives on food poverty and food insecurity: a comprehensive literature review focusing on the social and emotional aspects” (Palladino M., Cafiero C., Sensi R.). Sono da considerarsi contenuti preliminari e in evoluzione.

La povertà alimentare non è solo mancanza di cibo, ma una condizione complessa fatta di esclusione, perdita di autonomia e negazione del diritto di scegliere cosa, come e con chi mangiare. Un fenomeno multidimensionale, tra bisogni materiali, emotivi, sociali e culturali.

Povertà alimentare o insicurezza alimentare?

Nonostante vi sia un ampio consenso sulla definizione di sicurezza alimentare proposta dal World Food Summit (FAO, 1996), ovvero la condizione in cui “tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico, sociale ed economico a un’alimentazione sufficiente, sana e nutriente”, la sua traduzione concreta resta complessa. Difficoltà teoriche e pratiche emergono nel misurare ogni dimensione della sicurezza alimentare e nel cogliere le molteplici forme di privazione legate all’insicurezza alimentare. In particolare, la dimensione sociale, introdotta nei primi anni Duemila, coinvolge aspetti immateriali – culturali, simbolici ed emozionali – difficili da analizzare, ma centrali nelle insicurezze lievi o moderate, tipiche dei paesi ad alto reddito. In questi contesti, al termine food insecurity si affianca spesso quello di food poverty.

I due termini, che dovrebbero fare riferimento allo stesso fenomeno, si prestano a interpretazioni diverse a seconda del contesto in cui vengono usati. Peraltro, le traduzioni in italiano come “insicurezza alimentare” e “povertà alimentare” sono spesso usate come sinonimi, anche se i termini in inglese derivano da prospettive teoriche e culturali diverse, ancora oggi oggetto di dibattito nella letteratura internazionale, su cui serve fare una riflessione.

Negli Stati Uniti, e nelle organizzazioni internazionali come FAO, UNICEF, WFP, da sempre il termine food poverty è legato specificamente a indicatori di povertà monetaria, come quelli della Banca Mondiale, basati su redditi e spese delle famiglie, rimandando così a una lettura fondamentalmente economica dell’accesso al cibo. In questo senso, esso indica “la condizione in cui una persona non dispone di risorse sufficienti per soddisfare i propri bisogni alimentari minimi” (Walton 2020).

Negli anni ’80 comincia a essere usato anche il termine food insecurity, evidenziando che il problema va oltre il reddito. In un rapporto del 1990 compare la definizione per cui: “la food insecurity [insicurezza alimentare] si verifica quando la disponibilità di alimenti sicuri e nutrizionalmente adeguati, o la possibilità di accedervi in modo socialmente accettabile, è limitata o incerta” (Anderson 1990, 1575–76), che accoglie i risultati del lavoro del gruppo di ricerca dell’università di Cornell, e in particolare quello di Kathy Radimer. che individua quattro dimensioni – quantitativa, qualitativa, psicologica e sociale – nell’esperienza vissuta da donne nello stato di New York (Radimer et al. 1992).

È proprio a partire da questa definizione che la letteratura britannica ha proposto il termine povertà alimentare per descrivere una realtà che include, oltre alla scarsità di mezzi economici, anche esclusione sociale, perdita di autonomia e disagio emotivo. Dowler (2002), e O’Connor et al., (2016) più tardi chiariscono come la definizione di food poverty derivi direttamente dalla definizione di food insecurity di Radimer et al. (1992), ed è per questo che, in questo articolo, useremo i due termini in modo intercambiabile.

Verso un nuovo quadro concettuale

La definizione del 1996 citata sopra è stata spesso usata per suggerire che la sicurezza alimentare consiste in quattro dimensioni: i tre pilastri della disponibilità, accesso e utilizzazione, appoggiati sulla base della stabilità. Per raggiungerla, basta che il cibo sia prodotto in quantità sufficiente, reperibile a prezzi accettabili e consumato in modo corretto, secondo uno schema interpretativo che ha influenzato a lungo tanto le statistiche usate per il monitoraggio quanto le politiche di intervento.

Per lungo tempo, infatti, la letteratura e i policy makers hanno adottato un approccio produttivista all’insicurezza alimentare, focalizzandosi su disponibilità e distribuzione del cibo. All’inizio, gli indicatori usati erano solo quelli sulla quantità media di cibo disponibile, misurata in termini di calorie. Dal 1974, grazie a Sukhatme (1961), si iniziano a considerare anche disuguaglianze nell’accesso al cibo disponibile, ma sempre restando centrati sull’apporto calorico. Nel 1996, e poi nel 1999 si continua a usare la prevalenza di sottoalimentazione per monitorare gli obiettivi del WFS e degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG), ignorando la definizione di insicurezza alimentare comparsa nel 1990 e il riconoscimento del fatto che, per poter parlare di sicurezza alimentare, l’accesso al cibo debba avvenire “in modi socialmente accettabili” (Anderson 1990).

Tutto ciò appare, oggi, sempre più limitante, come sottolineato per esempio dal rapporto prodotto dallo High Level Panel of Experts del comitato per la sicurezza alimentare (CFS) della FAO. L’interpretazione basata sulle quattro dimensioni citate, fatica a cogliere le dimensioni che realmente caratterizzano l’esperienza personale quotidiana, soggettiva ed emotiva che accompagna il rapporto con il cibo e che avevano ispirato, la ricerca di Radimer e altri negli anni ’80.

Oggi è chiaro che non basta misurare quanto cibo c’è in un Paese o quanto esso costa. Anche con un piatto pieno o con un reddito nella norma si può essere in una condizione di insicurezza alimentare se manca la possibilità di scegliere e vivere il cibo come esperienza positiva. Per comprendere a fondo e poter affrontare veramente il problema, bisogna capire quanto potere reale hanno effettivamente le persone di scegliere cosa, come, quando e con chi mangiare. Le persone la cui capacità di accedere liberamente al cibo è limitata, incorrono in una serie di conseguenze che non sono solo di natura fisica o nutrizionale ma anche emotiva e sociale, diventando parte integrante della povertà alimentare che può essere vista come un costrutto multidimensionale e esperienziale (Figura 1).

Figura 1: Povertà alimentare come esperienza multidimensionale (elaborazione degli autori).

Tale libertà di scelta dipende da molti fattori: reddito, disponibilità locale di cibo di qualità, prezzi ma anche dal tempo, norme sociali, cultura, relazioni familiari e diseguaglianze sociali e di genere. Il cibo è anche identità, relazione, dignità. Quando queste dimensioni vengono meno si sperimenta una povertà che è sì materiale, ma anche emotiva e sociale.

Un contributo chiave a questa visione è dato dal capability approach sviluppato dall’economista Amartya Sen negli anni ’80. Secondo Sen, il benessere non si misura solo in termini di reddito, ma da ciò che una persona può fare ed essere: vivere in salute, partecipare alla società, fare scelte significative, anche a tavola. Già negli anni ’90, con Drèze, Sen sottolineava che non basta sapere se il cibo è disponibile: bisogna chiedersi se sia accessibile e consumabile con dignità (Drèze e Sen 1991). Su questa linea, Burchi e De Muro (2016) hanno ampliato il concetto, includendo aspetti sociali e culturali spesso ignorati, come le abitudini alimentari, le reti di supporto, le pratiche quotidiane legate al cibo, elementi centrali per capire davvero cosa significhi vivere in povertà alimentare. Un esempio interessante e piuttosto recente arriva dal Giappone, dove Ueda (2023) ha analizzato la povertà alimentare tra le madri single, mostrando come stress, malattie e turni di lavoro pesanti influenzino profondamente la qualità dell’alimentazione e il rapporto emotivo con il cibo.

Oggi Clapp et al. (2021) propongono di migliorare l’interpretazione della definizione classica di sicurezza alimentare, riconoscendo, accanto a quelle tradizionali di disponibilità, accesso, utilizzo e stabilità, due dimensioni aggiuntive: la sostenibilità, per garantire sistemi alimentari duraturi, e soprattutto l’agency, intesa come la capacità delle persone di poter decidere sulle proprie scelte alimentari.

Le conseguenze della povertà alimentare tra disagio emotivo e esclusione sociale

Che lo si chiami food poverty o food insecurity, è chiaro che concettualmente il problema va inquadrato andando ben oltre la semplice mancanza di cibo. Anche dimensioni meno visibili ma profondamente rilevanti per il benessere delle persone, come la dignità, le relazioni sociali, la salute mentale, fanno parte dell’esperienza di povertà alimentare. Purtroppo, però, solo ciò che si misura cattura l’attenzione e, come osservano per esempio Bartelmeß et al. (2022), molti degli indicatori usati si limitano a considerare solo le dimensioni materiali della povertà alimentare, trascurandone la dimensione sociale e le sue conseguenze dal punto di vista psicologico. Tutto ciò, nonostante molti studi abbiano evidenziato chiaramente l’impatto emotivo dell’insicurezza alimentare, soprattutto per le persone più vulnerabili.

Nelle società moderne dei paesi ricchi, la povertà alimentare non è non avere abbastanza da mangiare, ma anche – e forse soprattutto – sentirsi esclusi, giudicati, privati della possibilità di vivere il cibo come normale momento di condivisione. Garthwaite (2016), per esempio, racconta le difficoltà di chi si trova oggi in una condizione di bisogno nel Regno Unito, e si deve accontentare di cibo di scarsa qualità, subire un senso di emarginazione e perdita di autostima.

Nel caso degli adolescenti, ad esempio, il cibo può diventare un elemento che separa, esclude, isola, anziché unire (Popkin et al. 2016; ActionAid 2022; Palladino et al. 2024). Non poter uscire a mangiare con gli amici può generare forte disagio emotivo e senso di esclusione nei ragazzi (Orben et al. 2020; Almeida et al. 2022) e non è da escludere che questi siano alcuni dei canali attraverso cui l’insicurezza alimentare delle famiglie si traduce poi nei problemi di salute mentale mostrati degli adolescenti, una associazione di cui esiste ampia evidenza (Alaimo et al. 2002; Shankar et al. 2017).

Anche le persone anziane vivono forme di deprivazione, spesso legate alla solitudine, alla mobilità ridotta o all’assenza di una rete sociale, che si configurano a pieno titolo come elementi di una povertà alimentare. Per gli anziani, procurarsi cibo può essere difficile, con conseguenze anche sul piano psicologico. Studi recenti (Burris et al. 2020; Mesbah et al. 2020) evidenziano un legame tra isolamento sociale, insicurezza alimentare e sintomi depressivi.

Le donne rappresentano un altro gruppo particolarmente vulnerabile agli effetti dell’insicurezza alimentare. Spesso le madri si trovano costrette a sacrificare il proprio benessere per garantire un pasto ai figli, adottando strategie che compromettono la loro salute fisica e mentale, come saltare i pasti o ridurre drasticamente le porzioni (Liebe et al. 2023).

Cibo, identità e disuguaglianza: una riflessione

Come abbiamo visto, la povertà alimentare è un fenomeno complesso e multidimensionale che non può essere compreso soltanto attraverso la lente della deprivazione economica. Sebbene un reddito insufficiente rappresenti un importante predittore dell’insicurezza alimentare, non è una condizione sufficiente per spiegare la totalità del fenomeno. A parità di reddito, infatti, l’accesso a un’alimentazione adeguata può variare significativamente in base a fattori sociali, culturali, di genere, territoriali e alla presenza o meno di reti di supporto.

Nei Paesi ad alto reddito, l’insicurezza alimentare riguarda soprattutto l’incapacità di accedere in modo stabile a una dieta sana ed equilibrata, che si traduce spesso in carenze nutrizionali e nello sviluppo di malattie croniche legate all’alimentazione, e – come abbiamo visto – implicano dinamiche più ampie di esclusione sociale e culturale, che meritano maggiore attenzione.

Le sociologie contemporanee della povertà e dell’alimentazione convergono nel riconoscere che la deprivazione materiale non esaurisce l’esperienza dell’impoverimento. Con l’affermarsi del consumo come asse portante dell’identità sociale, a partire dagli anni Novanta, il cibo ha assunto un ruolo centrale nei processi di rappresentazione individuale e collettiva. Perdere l’accesso a certi cibi o modalità di consumo significa quindi perdere anche visibilità sociale, riconoscimento e senso di appartenenza.

Concettualizzare la povertà alimentare richiede quindi un ampliamento dell’orizzonte interpretativo dell’esperienza oltre la sola dimensione materiale, includendo anche fattori sociali, psicologici e culturali. È fondamentale partire dai vissuti concreti delle persone, non come aneddoti marginali, ma come chiavi interpretative centrali per comprendere un fenomeno tutt’altro che uniforme.

L’esperienza quotidiana della povertà alimentare, infatti, è spesso segnata da dinamiche latenti, da disuguaglianze multiple e da forme di esclusione che gli indicatori quantitativi usati oggi non riescono a intercettare. Mettere al centro queste prospettive consente di cogliere la complessità del fenomeno e di restituire dignità conoscitiva a chi lo vive, contribuendo allo stesso tempo a definire gli elementi costitutivi di una condizione di sicurezza alimentare che va ben oltre il minimo necessario per non soffrire la fame.

La sfida oggi è tradurre questo nuovo modo di guardare alla questione in strumenti concreti di analisi, politiche pubbliche più sensibili alle dimensioni sociali ed emotive, che punti a promuovere una condizione che tenga conto delle molteplici dimensioni del benessere, sia individuale che collettivo, e che riconosca nel cibo un elemento essenziale non solo per la sopravvivenza, ma per la partecipazione sociale, la costruzione dell’identità e il senso di appartenenza ad una comunità.

Ripensare il modo in cui contrastiamo la povertà alimentare

Le politiche attualmente adottate per contrastare la povertà alimentare si rivelano largamente inefficaci nel coglierne la natura complessa e multidimensionale. L’aiuto alimentare, che rappresenta oggi la principale risposta istituzionale e solidale, rivela chiaramente come l’attenzione sia data prevalentemente alla dimensione materiale del fenomeno, trascurando le sue implicazioni psicologiche, relazionali e culturali. Questo approccio parziale riflette una concezione riduttiva del cibo, considerato come un semplice bisogno da soddisfare anziché un diritto da garantire. Tanto più che dover ricorrere all’aiuto alimentare rischia di essere causa di stigma e minare la dignità di chi vi è costretto, trasformando l’accesso al cibo in un’esperienza umiliante (Riches 2018).

È chiaro che le strategie messe in campo, dai fondi europei alle misure nazionali, restano ancorate a una logica emergenziale e assistenziale, incapace di intervenire sulle cause strutturali della povertà alimentare. La logica della filiera – orientata all’approvvigionamento e alla distribuzione – si è di fatto imposta a quella del contrasto alla povertà, privilegiando l’efficienza e la standardizzazione rispetto all’efficacia, alla diversità e alla partecipazione (ActionAid 2023).

Nonostante questo scenario, negli ultimi anni sono emerse pratiche innovative a livello locale, grazie all’impegno di reti civiche, contesti accademici e realtà del consumo organizzato. Tali esperienze, rafforzatesi in particolare dopo la pandemia, hanno favorito approcci più strategici, centrati sulle comunità e attenti alla varietà dei bisogni. Tuttavia, queste sperimentazioni restano spesso ai margini, ostacolate da un sistema centrato su logiche centralizzate e orientato alla gestione dell’emergenza piuttosto che alla trasformazione sociale.

In assenza di un cambiamento strutturale, il sistema continuerà a produrre risposte decontestualizzate, disconnesse dai territori e incapaci di valorizzare la centralità del cibo come strumento di benessere, inclusione e giustizia sociale. Per affrontare la povertà alimentare in modo efficace, serve un approccio che riconosca la complessità del fenomeno e che agisca sulle sue molteplici dimensioni, a partire dai vissuti e dalle capacità delle persone coinvolte. Non si tratta solo di nutrire, ma di restituire dignità, relazioni e possibilità, costruendo sistemi locali di contrasto che non siano semplici ingranaggi della filiera dell’aiuto, ma veri e propri motori di cambiamento.

 

 

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Foto di copertina: Rebecca Mosca, Unsplash.com