Questo articolo è il secondo di una raccolta di esperienze, riflessioni e testimonianze sul Bosco delle Querce di Seveso e Meda. Alle soglie dell’anniversario dal disastro dell’Icmesa, come spiegavamo nel primo approfondimento, l’obiettivo è restituire memorie collettive fatte di pratiche, relazioni socio-ecologiche e apprendimento sociale. Tra storia e memoria arriveremo all’oggi con “Insieme per il bosco”, il progetto promosso da FARE arte contemporanea e circolo Legambiente Laura Conti di Seveso.
Immersi nella storia alla ricerca di cornici interpretative
Mi trasferii a Seveso nel 2018. Da subito cominciai a esplorare la città, per conoscerne la storia peculiare, nota soprattutto per il disastro industriale del 1976 e le numerose e contradditorie conseguenze sociali1.
Più mi calavo in questa realtà più scoprivo aspetti che mi restituivano una certa difficoltà nel comprenderla: una sorta di non linearità. Seveso è una città che esprime una forte vocazione ambientalista, frutto del suo vissuto, ma che, proprio per non essere riuscita a fare pienamente i conti con il disastro, appare ancora oggi divisa.
Per cercare di comprendere le contraddizioni che ho percepito sin dal mio arrivo, ho iniziato a intervistare diverse persone ponendo sempre la stessa domanda: “Spiegami Seveso”. Mi fornii dei numerosi testi e articoli che narravano la storia di questo luogo, la mia nuova casa. Per anni Seveso è stata il mio rompicapo.
Osservavo e studiavo dinamiche e pratiche del presente e del passato che esprimevano una dirompenza strabiliante. Da un lato, l’azione dei gruppi ambientalisti sul territorio, che dimostra una profondità di pensiero e un legame con l’esperienza sevesina capace di parlare al mondo intero. Dall’altro, le fratture e la tendenza all’oblio di una memoria ancora viva, che impediscono di riconoscere appieno la forza di queste pratiche e di farne un motivo di orgoglio ed esemplarità.
La città era ferma e queste pratiche ambientaliste pressoché sconosciute. Da cittadina non potevo capacitarmi dello sperpero di quel sapere ecologico che questa città avrebbe dovuto invece esprimere, valorizzare e presentare al mondo. Da sociologa non potevo non considerare la necessità di approfondimento che questa osservazione mi restituiva.
Nel 2021 entrai a far parte del progetto “Insieme per il Bosco” in qualità di sociologa, con l’incarico di una ricerca sul legame tra il Bosco delle Querce e la sua comunità. Incontri, interviste, studi ed elaborazione mi restituirono un quadro più preciso, che tuttavia non mi permetteva ancora di comprendere perché tante pratiche e di riscatto fossero ancora “quasi invisibili” agli occhi della collettività. Mi capitò poi tra le mani il testo di Marco Armiero “L’era degli scarti” (2021).
Fu per me una lettura illuminante perché mi diede la possibilità di riconoscere, attraverso una teoria, le pratiche che avevo osservato e quindi la possibilità di restituirle alla collettività. Questo articolo si muoverà così tra pratiche e teoria, analizzando Seveso e la sua storia tra il 1980 e il 2021 attraverso le lenti della “teoria del Wasteocene”.
Il Wasteocene, l’era degli scarti
Il Wasteocene è una categoria critico-interpretativa dell’era che viviamo. Descrive gli scarti non in termini materiali di rifiuti, ma in termini di processo. Vengono cioè inquadrati nell’azione che li produce: un insieme di relazioni socio-ecologiche che creano persone e luoghi di scarto. Questo approccio ci interroga su chi e cosa nel nostro mondo sia considerato rifiutabile, svelando quei processi di alterizzazione (Morrison 2019) che costituiscono una divisione di un “noi” al sicuro attraverso lo scarto di qualcos’altro: una ricchezza per pochi costruita sul sacrificio di molti.
Seveso è stata luogo di scarto a più livelli. Da un punto di vista territoriale insieme alle città di Meda, Cesano Maderno e Varedo, venne a configurarsi come “distretto della chimica”. Il modo in cui queste produzioni si insinuarono nel territorio (Conti 1977) si configurò come processo di scarto: zone di sacrificio sottoposte ai rischi delle produzioni industriali in un contesto scarsamente controllante dei danni che queste potevano causare. È interessante rilevare come di tutta un’area geografica sottoposta alle tossicità, le narrazioni si concentrino sulla sola Seveso. Un meccanismo complesso che, attraverso l’unica evidenza di un disastro, cancellò dalle cronache accadimenti che per lungo tempo segnarono un intero territorio. Il disastro dell’Icmesa non fu l’unico disastro ambientale di questa zona. Fu piuttosto l’unico evento che si rivelò in modo materiale. Una vera e propria epifania del Wasteocene.
Certamente Seveso, per prossimità alla fabbrica, fu la città più colpita. Ma nell’ottica del sacrificio si configurò come la vittima designata di un secondo processo di scarto, determinato questa volta da scelte politiche ed economiche. Le narrazioni maggioritarie parlano infatti del “disastro di Seveso”, dimenticando che il disastro fu piuttosto dell’Icmesa, che la diossina fu l’agente contaminante e che Seveso fu solo una delle vittime, lasciata sola a fronteggiare lo stigma. In questo processo di disassociazione del proprio nome dal disastro, i corpi delle cittadine e dei cittadini di Seveso subirono lo stesso destino di scarto. Rifiutati dagli alberghi perché ritenuti contaminati, allontanati dai contesti sociali, osservati dalla scienza che da quella corporeità cercava evidenze sugli esiti del disastro: i corpi di Seveso sperimentarono lo stigma della contaminazione. Questo ci mostra come il Wasteocene abbia una stratigrafia situata nei corpi, dove risiedono le tossicità. “Ma è proprio perché è situato nei corpi che il Wasteocene produce soggetti resistenti: il corpo rifiutabile diviene corpo politico e la sua lotta per sopravvivere diviene insurrezione” (Armiero 2021).
La lotta contro l’inceneritore
Nell’autunno del 1976, alcuni mesi dopo il disastro, in un clima di preoccupazione e divisione, si cominciò ad affrontare il problema della bonifica. La proposta supportata da Regione Lombardia mirava alla costruzione di un inceneritore per la distruzione delle terre e del materiale contaminato nella zona maggiormente colpita, la zona A. Il progetto fu osteggiato da un vasto schieramento che univa numerosi soggetti, eterogenei per posizionamento politico, economico e sociale. Un coinvolgimento collettivo del tutto inaspettato in un luogo che aveva visto il dissolversi di una identità nei comportamenti collettivi (Pansa 1977). Obiettivo della mobilitazione era la salvaguardia del paesaggio: un patrimonio da tutelare e trasmettere alle generazioni future.
La mobilitazione mostrò che la temperatura di combustione dell’inceneritore, inferiore a 1200° C, non sarebbe stata in grado di distruggere la diossina TCDD spargendola così nuovamente a mezzo dei fumi sul territorio. Vi era inoltre il rischio concreto che l’inceneritore sarebbe rimasto perennemente in funzione.
Il tipo di richiesta che questo gruppo portò avanti ci mostra un peculiare approccio alle relazioni socio-ecologiche: la pretesa che l’inceneritore non fosse affatto costruito, né a Seveso né altrove. I corpi scartati di Seveso non cedettero alla logica della riproduzione dell’alterizzazione verso altri luoghi e collettività.
Nella raccolta di idee per metodi alternativi di bonifica si affermò l’idea di Lanzani, chimico agrario sevesino. La proposta fu di trasformare la zona A in un bosco: un’area di natura e al tempo stesso custode delle scorie contaminate, conservate nel suo sottosuolo2 (Centemeri 2006). Da questa battaglia vinta nel 1979, la prima che la popolazione di Seveso riuscì a portare avanti in un’ottica collettiva, nacque così il Bosco delle Querce.
Il seme dell’impegno politico
A partire dagli anni ’90 Seveso fu teatro di un nuovo corso nella scena politica e pubblica. Ad animarlo furono alcuni giovani testimoni del disastro. L’intensa esperienza di impegno politico vissuta a ridosso del disastro aveva lasciato in loro il sapore di una sconfitta: “l’impossibilità di fare politica in questo territorio” (Una città 1996). Dopo aver praticato altrove esperienze di impegno politico, queste giovani donne e uomini si ritrovarono alle soglie degli anni ’90 a riflettere sulla necessità di forme di riparazione del danno ambientale in termini collettivi e politici.
Tra le esperienze più significative che alimentarono le riflessioni del gruppo vi fu quella che arrivava dalla pratica politica generatasi nel contesto della Libreria delle Donne di Milano, di cui alcune erano parte. È proprio da qui che arriva il pensiero di centralità della cura delle relazioni con il senso della differenza sessuale (AlfaZeta 1997). Una rivisitazione delle pratiche ambientaliste: il terreno divenne humus per la valorizzazione della qualità dell’habitat naturale e sociale. La terra, da elemento contaminato a terreno di coltivazione e cura dell’ambiente e delle relazioni. Da scarto a risorsa.
Di lì a breve questo contesto generò esperienze che si formalizzarono in diverse associazioni: il Circolo Legambiente Laura Conti di Seveso, Natur&-Onlus e Musicamorfosi. Comincia così la danza della riparazione del danno ambientale e sociale: esperienze collettive che hanno raccolto l’eredità del disastro trasformandolo in opportunità di riparazione e riscatto.
Uno dei primi frutti di questo impegno fu quanto accadde al Fosso del Ronchetto, una zona dell’altopiano della città di circa quattro ettari, residuale e in stato di abbandono, salvo tuttavia dal danno diossina. Un terreno impervio che aveva allontanato gli appetiti edificatori, scomparendo dalla topografia urbana. Una discarica a cielo aperto, dove venivano sversate macerie e rifiuti. Nel 1992, un giovane residente della zona interpellò il sindaco con una proposta di recupero e cura di quel bosco.
Questa proposta raccolse il favore dell’amministrazione comunale che chiamò proprio quei giovani che si stavano costituendo in associazione ambientalista e, successivamente, anche al WWF e agli Alpini. Fu un progetto di recupero “dal basso” con l’avallo istituzionale. Fu questo un modo di assumersi una responsabilità diretta attraverso la pratica collettiva di cura di un bene comune, che non fu solo materiale ma soprattutto pratica relazionale.
Il portato simbolico fu quello di mostrare come a Seveso era ancora possibile toccare quella terra di cui tutti avevano paura: una terra che da contaminata diventava agente contaminante di impegno, relazioni, responsabilità e restanza. Il Fosso del Ronchetto fu inaugurato nel 1994 e oggi è oasi naturalistica annessa al Parco delle Groane.
Il ponte della Memoria
Il Bosco delle querce, tranne qualche apertura straordinaria, rimase chiuso al pubblico fino al 1996, quando l’amministrazione comunale di allora decise di darvi accesso, inizialmente, per la sola giornata di domenica. Il circolo Legambiente si oppose a questa apertura: quel Bosco, infatti, non portava alcuna memoria di ciò che lì era accaduto. Il rischio osservato dal gruppo ambientalista era quello dell’oblio. Senza memoria, senza una rielaborazione del danno ambientale e sociale subito, non poteva sussistere alcuna riparazione. La natura del Bosco delle Querce custodiva uno spazio simbolico che non poteva essere calpestato. Nelle vasche di stoccaggio, nel profondo del terreno, vivevano ricordi di una collettività lacerata da un disastro che aveva distrutto vite, case, oggetti personali e ricordi, seppellendoli sotto una coltre di prato e alberi le cui radici dovevano essere restituite alla memoria collettiva.
Nei primi anni del 2000 il circolo Legambiente si fece promotore di un nuovo progetto: “Il ponte della memoria”. Questo fu finanziato dalla Fondazione Lombardia per l’Ambiente e sostenuto da una rete estesa tra cui compariva il Comune di Seveso, l’Agenzia Innova 21 e Legambiente Lombardia. Due gli obiettivi principali: la creazione di un archivio di memorie del disastro e l’ideazione di pannelli della memoria all’interno del Bosco delle Querce. La cittadinanza venne coinvolta attraverso la donazione di materiali documentali e fotografici affinché fossero protetti dall’oblio temporale (Centemeri et al. 2022). La partecipazione fu molto ampia. Questi materiali oggi offrono un prezioso sguardo sociale del disastro.
Il percorso dei pannelli fu un processo partecipativo attraverso un “comitato dei garanti”, composto da persone rappresentative della comunità sevesina. Il progetto vide la scrittura delle memorie del disastro, storiche, collettive e sociali. La scrittura rappresentò una mediazione dei conflitti e dei portati che il disastro aveva suscitato. Una “memoria discreta” (Centemeri 2006): non univoca, ma quanto più plurale e comunemente accettata dagli attori allora in campo.
L’esperienza ispirò l’azione di Sinistra e Ambiente, gruppo consiliare della città di Meda, che nel 2017 portò in consiglio comunale la proposta di affissione un pannello sul muro dell’Icmesa, manufatto ancora oggi esistente della fabbrica. Meda, oltre a Seveso, è l’unica città tra quelle coinvolte a portare il segno della memoria del disastro, e il fatto che la “contaminazione della pratica ambientalista” si sia estesa da una città all’altra ha permesso l’apposizione di un segno di memoria sull’unico manufatto rimasto della fabbrica, che altrimenti sarebbe rimasto anonimo.
L’Abbraccio al Bosco delle Querce
Il 10 luglio 2011, il coordinamento “Insieme in rete per uno sviluppo sostenibile”, di cui facevano parte i gruppi ambientalisti di Seveso e Meda, si fece promotore dell’Abbraccio al Bosco delle Querce, iniziativa che ebbe il patrocinio delle amministrazioni delle due città. Un migliaio di cittadine e cittadini quel giorno abbracciarono simbolicamente i confini del Bosco per difenderlo da uno sbancamento di 12 ettari per la costruzione dell’autostrada Pedemontana, di cui abbiamo parlato anche nel primo articolo. Un tracciato che lo avrebbe lacerato e, in definitiva, ucciso.
L’abbraccio fu una vera e propria rivoluzione gentile, che mostrò con determinazione la volontà di difendere il simbolo del riscatto e riparazione del danno. Tanta fu la partecipazione e l’insistenza collettiva che Regione Lombardia dovette tornare sui propri passi, costringendo Pedemontana a rivedere il suo tracciato. Il risultato fu una riduzione a due ettari dell’area di sbancamento. Non una vittoria completa, ma di certo un segno importante di resistenza collettiva.
Il portato di queste pratiche vive oggi nel progetto “Insieme per il Bosco”. Pratiche socio-ecologiche capaci di contrastare le narrative dominanti del Wasteocene e di sabotare dall’interno le logiche dello scarto di luoghi e comunità. Pratiche che ci parlano di come sia possibile costruire alleanze multispecie (Haraway 2019) tra umani e non umani al di fuori del sacrificio socio-ambientale tipico della nostra era.
Bibliografia
- Armiero M. (2019), L’era degli scarti. Cronache dal wasteocene. La discarica globale, Einaudi.
- Armiero M. et al. (2021), Environmental Humanities, vol.1, DeriveApprodi.
- Centemeri L. et al. (2022) Rethinking Post-Disaster Recovery, Routledge.
- Conti L. (1977), Visto da Seveso: l’evento straordinario e l’ordinaria amministrazione, Feltrinelli.
- Di Fidio M. (2000) Il Bosco delle Querce di Seveso e Meda, Regione Lombardia e Ente Regionale per i Servizi all’Agricoltura e alle Foreste
- NATUR&-Onlus (1997), Quando la politica delle donne risignifica l’ambientalismo, in AlfaZeta 65-66.
- Pansa G. (1977), “Seveso la voglia di arrendersi. A un anno dal disastro i dubbi dei cittadini, degli scienziati e dei politici”, in Corriere della Sera, 10 luglio 1977.
- Saporetti G. (a cura di) (1996), “Il Bosco delle Querce”, in Una Città, 50/1996.
- Morrison T. (1999), L’origine degli altri, Sperling & Kupfer.
- Haraway D. (1999), Chthulucene, Sopravvivere su un pianeta infetto, Produzioni Nero.
- Storia e origine del parco – Bosco delle Querce
Questo contributo è parte del Focus tematico Collaborare e partecipare, che presenta idee, esperienze e proposte per riflettere sui temi della collaborazione e della partecipazione per facilitare cooperazione e coinvolgimento. Curato da Pares, il Focus è aperto a policy maker, community maker, agenti di sviluppo, imprenditori, attivisti e consulenti che vogliono condividere strumenti e apprendimenti, a partire da casi concreti. Qui sono consultabili tutti i contenuti del Focus. |
Note
- Il 10 luglio 1976 alle 12.37 dalla fabbrica Icmesa di Meda si sprigionò una nube tossica di diossina TCDD e altri inquinanti. La nube interessò i comuni di Meda, Seveso, Cesano Maderno, Desio e Bovisio Masciago e con trasporto anche ad altri comuni in direzione sud. Seveso fu la città più colpita, in quanto più prossima alla fabbrica. L’area più inquinata (in seguito zona A) venne individuata con inizio dalla fabbrica verso sud per una superficie di circa 15 ettari, successivamente estesa a 108 ettari. Furono evacuate 736 persone (676 di Seveso e 60 di Meda) per un totale di 204 famiglie, oltre a imprese, esercizi commerciali e industrie. La zona evacuata fu recintata con reticolati di filo spinato. Fu poi istituita una zona B, non evacuata ma con regole stringenti e numerosi divieti che andavano dal divieto di movimentazione del terreno e di attività produttive, all’igiene personale, il divieto di coltivazione e consumo di prodotti alimentari fino all’abbattimento di tutti gli animali e una zona R di rispetto con indicazioni meno stringenti. 225 persone non fecero mai ritorno nelle loro case.
- Il 2 Giugno 1977 il Consiglio Regionale della Lombardia approvò i programmi di intervento per bonificare il territorio inquinato, affidandone la realizzazione all’Ufficio Speciale per Seveso (Di Fidio, 2000). Tra il 1981e il 1984 furono costruite, da una azienda svizzera specializzata, due vasche di stoccaggio (una a Seveso e una a Meda) per la messa in sicurezza del materiale contaminato. Venne adottato un sistema di quattro barriere successive tra l’inquinante e l’ambiente esterno, simile a quello messo a punto per i materiali radioattivi. La vasca di Meda ha una capacità di 80.000 m3 mentre quella di Seveso di 200.000 m3. All’interno delle vasche furono sepolti gli animali abbattuti, il terreno scarificato e la vegetazione, le macerie delle case abbattute con tutti gli oggetti personali di chi vi abitava, macerie e reattore della fabbrica Icmesa. I lavori di realizzazione del parco, nella zona A, cominciarono nel 1984 e terminarono nel 1986 previa bonifica del terreno. Per approfondire Storia e origine del parco – Bosco delle Querce