Nei giorni scorsi il Consorzio La Rada di Salerno ha organizzato un seminario dedicato dell’evoluzione dei servizi socio sanitari nell’ottica del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Le riflessioni emerse hanno delineato un articolato quadro di interdipendenze che per essere efficacemente governato richiede una convergenza tra dispositivi di programmazione. Un’azione che alla luce delle evoluzioni recenti appare sempre più necessaria affinché importanti obiettivi trasformativi non vengano traditi scaricando così sui territori le loro esternalità negative. Di seguito proponiamo i principali elementi affrontati.

Il nesso tra PNRR e Piani di zona

A prima vista il confronto tra PNRR e Piano di zona dei servizi sociali sembra impari, anzi improponibile. Il primo è top down, di ambito nazionale (anzi europeo), plurisettoriale, orientato all’investimento e caratterizzato da una governance centralizzata. Il secondo è invece bottom up, locale, settoriale (anche se con intenti di integrazione tra una molteplicità di servizi), policentrico nella formazione e orientato soprattutto alla redistribuzione.

Eppure una convergenza non solo rispetto ai contenuti dei documenti ma alla loro “coda lunga” che riguarda le loro modalità di formazione e soprattutto di implementazione è necessaria. Un po’ per ragioni pratiche, in quanto nelle missioni del PNRR si fa riferimento alla necessità di riformare segmenti del welfare sociale e di ristrutturare i loro sistemi di offerta e centri di servizio. Un po’ perché, in senso più strategico, il carattere mission-oriented del PNRR da una parte ha il merito di stimolare la finalizzazione di percorsi riformatori altrimenti paludati – non è forse un caso, a puro titolo di esempio, che la riforma della non autosufficienza sia stata approvata “a governo morto” – ma al tempo stesso rischia di “strappare” rispetto alle dinamiche di sviluppo locale data la sua impronta fortemente tecnocratica e molto incentrata sull’”hardware” infrastrutturale piuttosto che sul “software” dei processi sociali.

È più che emblematico in tal senso il recente rinvio del ferreo cronoprogramma del PNRR in materia di asili nido e scuole d’infanzia, pena il rischio di perdere 4,6 miliardi di euro. In sintesi: l’incapacità di cantierizzare investimenti che siano anche sostenibili nella gestione in un segmento tutto sommato limitato del welfare sociale rappresenta un sinistro scricchiolio per un Piano da quasi 200 miliardi.

Piani di zona: ipotesi di “upgrade

In attesa di vedere se il nuovo Governo nazionale vorrà (e soprattutto potrà) mettere mano alla macchina burocratica del PNRR per adattarla alle “curve di livello” dei territori, i Piani di zona delle politiche sociali locali potrebbero accettare la sfida di un “upgrade” come veri e propri piani di missione. Documenti che nei loro contenuti ma soprattutto nel modo in cui sono elaborati e gestiti contribuiscano a mettere a terra le grandi sfide del nostro tempo, le cosiddette grand challenges socio ambientali, dando loro sostanza ed evitando che i loro obiettivi vengano utilizzati più come “abbellimento” piuttosto che come pratica trasformativa. Un po’ come alle volte accade guardando al trattamento meramente comunicativo e di posizionamento tattico a cui sono sottoposti gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.

Al tempo stesso questo sforzo sui Piani di zona potrebbe essere utile per ridare dignità alle pratiche di coprogrammazione previste nella riforma del terzo settore e il cui ruolo è forse stato messo in secondo piano rispetto all’innovazione in effetti più dirompente della coprogettazione. Il Piano di zona, da questo punto di vista, può essere considerato l’antesignano della coprogrammazione a cui gli altri settori nei quali questa opzione è praticabile dovrebbero guardare, magari cercando di correggere alcuni suoi limiti come ad esempio una certa tendenza ad operare secondo logiche di mero coordinamento dell’esistente e di incrementalismo nelle proposte.

Opzioni per certi versi comprensibili in una fase storica recente in cui le politiche sociali pubbliche, e forse neanche le strategie del Terzo Settore, non hanno brillato per capacità, e soprattutto volontà, di darsi missioni ambiziose rispetto ai cambiamenti attesi, ingaggianti rispetto a una pluralità di attori (e non solo addetti ai lavori dei comparti chiamati in causa) e, non da ultimo, misurabili negli impatti (e non solo nella capacità di spesa). Ma ora che è necessario fronteggiare fratture profonde che mettono a rischio il contratto sociale delle società umane e l’equilibrio con i sistemi ambientali e dunque l’adozione di un approccio di missione anche nella coprogrammazione delle politiche sociali diventa inevitabile.

Nuovi Piani che rispondano alle sfide del PNRR

Sarebbe quindi necessario, se non urgente, aprire una “stagione speciale” della programmazione sociale e locale, prevedendo la redazione di nuovi Piani di zona in risposta alle sfide di missione del PNRR.

Un modo anche per rompere il circuito di un ritualismo – fatto di tempi e modalità prestabilite, oltre che di pesi e contrappesi tra i vari partecipanti ai “tavoli” – che progressivamente (e forse un po’ inevitabilmente) ha fagocitato i processi di programmazione comune, rendendo i Piani di zona più sterili rispetto ai loro contesti di intervento, per quanto caratterizzati da una dimensione locale.

Un limite, quest’ultimo, che appare ancora più evidente considerando le sinergie da sviluppare con ambiti adiacenti dove, nel frattempo, il welfare sociale ha avuto modo di propagarsi: dall’agricoltura alla cultura, dalla prossimità comunitaria alla rigenerazione di infrastrutture per nuove forme d’uso di interesse collettivi. Tutti settori dove oggi il Terzo Settore è abilitato ad operare anche in sede di costruzione e gestione delle politiche.

Come avere Piani di zona mission-oriented

Ma come fare per redarre un Piano di zona mission-oriented? Si possono individuare, da questo punto di vista, due modalità principali.

Capacitare approcci di natura imprenditoriale

La prima è di riconoscere non tanto l’ennesima figura professionale con funzioni di accompagnamento rispetto a processi di cambiamento sociale che risulterebbero inevitabilmente un po’ artificiali, ma piuttosto capacitare un approccio di natura più imprenditoriale ad un ambito, quello del policy making, che in questi anni è stato “subappaltato” a policy analyst, facilitatori, ricercatori, ecc. Esperti le cui indubbie capacità si alimentano però di specialismi che per quanto rilevanti non sono, per definizione, esaustivi rispetto a sfide di natura sistemica e a volte poco propensi a farsi contaminare con approcci e modelli “non certificati” o provenienti da ambiti disciplinari diversi.

Ma c’è di più: anche coloro che “si limitano” al trasferimento delle conoscenze in sede di coprogrammazione fanno spesso uso di uno strumentario di facilitazione tutt’altro che neutrale in termini culturali e ideologici, tendendo così a “irregimentare” eccessivamente i processi di negoziazione e confronto soffocandone, anche involontariamente, i caratteri di innovazione più radicali.

In sintesi la riformulazione delle sfide a cui rispondere non limitandosi a considerare framework di missione prestabiliti, il carattere catastrofico degli scenari evolutivi socio ambientali di breve periodo e i rapporti di forza da riconfigurare tra stakeholder localizzati e globali chiamano in causa una generazione di “imprenditori di politica” tutta, o in buona parte da ricostruire, valorizzando in particolare ciò che emerge dalla nuova ondata di attivismo di questi ultimi anni.

Dotare i Piani di strumenti che sostengano la coprogrammazione

La seconda modalità riguarda invece il modo in cui si struttura e si mantiene il “backend” della coprogrammazione facendo riferimento a due ordini di risorse.

La prima, ben conosciuta, riguarda i sistemi informativi rispetto ai quali assumono centralità strategica le modalità attraverso cui vengono costituiti e governati nell’epoca dei big data e delle intelligenze collettive. Queste ultime, in particolare, corrispondono a comunità di pratica composte da soggetti – funzionari pubblici, imprenditori e operatori sociali, cittadini attivi – in grado di interrogare e significare masse di dati che sempre più spesso scaturiscono da intelligenze artificiali. Da questo punto di vista appare evidente il salto d’epoca rispetto a quanto previsto dalla legge 328/00 istitutiva dei Piani di zona, laddove parlava di sistemi informativi gestiti e alimentati dagli enti provinciali, mentre oggi, a puro titolo di esempio, si stanno diffondendo piattaforme digitali di welfare in grado, tra l’altro, di fornire dati di diversa natura e in tempo reale sui profili dei beneficiari dei servizi e sulle modalità di incontro e di interazione tra domanda e offerta di servizi sociali.

La seconda risorsa che può alimentare una coprogrammazione all’altezza delle grand challenges è legata all’innovazione che ormai si declina in un unicum sociale e tecnologico rispetto al quale urgono strategie volte non solo a definire e presidiare, spesso solo attraverso leve finanziarie e di mercato, i principali cluster sociotecnologici (terapia, domotica, ecc.) ma soprattutto a definire elementi di significato rispetto alle funzioni d’uso e al modo in cui questi diventano di patrimonio comune, “scalando” quindi secondo modalità human e community-centered.

Ecco quindi che Piani di zona così riconfigurati possono ambire a con-correre assieme ad altre politiche come quelle del PNRR a realizzare missioni che peraltro intestano anche gli statuti di una pluralità di soggetti di Terzo Settore chiamati a partecipare non per “gentile concessione” e neanche solo per riconoscimento normativo pubblico, ma per una più sostanziale comunanza di finalità di interesse generale.