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Fondazione Bracco, in collaborazione con Percorsi di secondo welfare, ha deciso di promuovere un ciclo di approfondimenti sulle Fondazioni di impresa italiane coinvolgendo osservatori privilegiati, studiosi ed esperti di varie discipline. L’obiettivo, alla luce delle nuove e complesse sfide sociali sollevate dalla pandemia di Covid-19, è ragionare trasversalmente sul ruolo che le Corporate Foundations del nostro Paese stanno giocando e potranno giocare nel prossimo futuro, inserendo tali riflessioni in un una cornice analitica il più possibile ampia e articolata. In tale ambito abbiamo chiesto a Gaetano Giunta, Segretario generale della Fondazione di Comunità di Messina e membro del Forum Disuguaglianze e Diversità, di condividere alcune riflessioni sulle prospettive di intervento delle Fondazioni di impresa in Italia nel campo delle disuguaglianze.

Dottor Giunta, come descriverebbe il contesto nel quale stiamo vivendo, in particolare in relazione al tema delle disuguaglianze?

L’attuale paradigma socioeconomico dominante, fondato su ipotesi antropologiche hobbesiane di egoismo economico, ha progressivamente creato separatezza fra la sfera economica e le altre dimensioni del sapere e dell’agire umano. In questa prospettiva la società individualistica, centrata sul pensiero dell’economia politica, non persegue una specifica concezione del bene e sancisce che né i diritti individuali possono essere sacrificati a vantaggio del bene comune, né i principi di giustizia e responsabilità ambientale, che oggi specificano quei diritti, possono essere basati su una qualche nozione di solidarietà, fraternità o sostenibilità.

Tali approcci rigorosamente utilitaristici, unitamente alle rivoluzioni delle tecnologie informatiche e digitali e alle conseguenti innaturali accelerazioni dei mutamenti dei paradigmi tecnologici, hanno generato una serie di disarmonie e di contraddizioni che oggi hanno carattere insieme globale e strutturale: una traslazione fra coscienza e conoscenza; una forte dissimmetria, nei processi decisionali e di governance, fra poteri finanziari e tecnologici globali e la scala ancora locale e/o nazionale delle democrazie; sistemi di produzione predatori di risorse e materie prime in misura superiore alle capacità di rigenerazioni del Pianeta; l’approssimarsi della fine dell’era del fossile ed emissioni inquinanti fuori controllo, senza ancora una decisa direzione del salto di paradigma ecologico, che hanno fatto precipitare il Pianeta in una transizione climatica, particolarmente sensibile proprio nell’area del Mediterraneo; forti diseguaglianze geografiche che determinano, fra l’altro, squilibri demografici senza precedenti nella storia dei Sapiens.

Fenomeni ambientali e trend socioeconomico-demografici, diseguaglianze sociali e ambientali, sono ormai strutturalmente correlati: il Norwegian Refugee Council afferma che entro il 2050 200/250 milioni di persone nel mondo saranno costrette a spostarsi a causa di disastri ambientali, con una media di 6 milioni di uomini e donne costretti ogni anno a lasciare i propri territori. Le città, in prima istanza, sono gli attrattori demografici e le nuove centralità di questi mutamenti epocali. La popolazione urbana mondiale dovrebbe, infatti, aumentare dell’84% entro pochi decenni, passando dai 3,4 miliardi nel 2009 ai 6,4 miliardi nel 2050.

Come si colloca l’Italia nei mutamenti che ci ha descritto?

In tale contesto l’Italia assume valore paradigmatico. La Penisola è infatti una frontiera importante di tali flussi e tensioni globali e nello stesso tempo è un territorio drammaticamente interessato, soprattutto nelle regioni del Sud, dai processi di desertificazione. Proprio per questa doppia implicazione il nostro Paese è un laboratorio naturale di nuove sperimentazioni socio-economico-tecnologico-ambientali.

Risulta a questo punto evidente perché le città e i territori assumono una nuova centralità congiuntamente ai modelli democratici di gestione dei beni comuni, e ancora perché risulta strategico sviluppare politiche di attrazione e di sviluppo umano nelle aree interne. Il contesto “estremo” che stiamo vivendo e che vivremo nei prossimi decenni impone l’urgente necessità che l’umanità generi da sé stessa una vera e propria metamorfosi, sviluppando un nuovo umanesimo delle relazioni e approcci paradigmatici che tengano conto del concetto di limite.

Una strategia operativa capace di tentare processi di metamorfosi deve necessariamente prevedere la trasformazione: del paradigma economico-sociale, dei paradigmi tecnologici, del sistema della conoscenza, dei modelli energetici, dei modelli di governance locali e globali.

Cosa può favorire questa metamorfosi e come si potrebbe realizzare?

Le dinamiche culturali e sociali evolvono per paradigmi e rivoluzioni. Esse sono infatti caotiche, nel senso scientifico del termine: una fluttuazione generativa può, in determinate condizioni, nei cosiddetti periodi speciali, far divergere il corso della storia del pensiero e, conseguentemente, anche delle comunità locali, modificando, in tempi relativamente brevi visioni, quadri teorici e perfino trend economico-sociali, che sembrano ineluttabili. Le ricerche più avanzate ci indicano con chiarezza che quando sui territori si sviluppano sistemi socio-economici caratterizzati da forti correlazioni interne, congiuntamente a significative aperture nazionali ed internazionali, da una forte biodiversità sociale e da elevati livelli di autonomia economico-finanziaria, tali cluster manifestano complessità e auto-organizzazione e diventano più capaci di attivare sui territori di riferimento iniziative sistemiche, durevoli, potenzialmente capaci di divenire l’evento permanente, il nucleo scatenante un salto paradigmatico per ripensare lo sviluppo del territorio nella direzione della sostenibilità ambientale e sociale.

Rispetto a questo scenario quale ruolo e quali prospettive di intervento potrebbero avere le fondazioni filantropiche, e in particolare le Fondazioni di impresa?

In generale le fondazioni dovrebbero imparare a riconoscere sui territori quando reti di partnership locali sono vicini a quella soglia critica oltre la quale evolvono come bene comune collettivo auto-generativo, così come sopra descritto.

Le Fondazioni di impresa, in particolare, attraverso processi di co-progettazione e insieme ai cluster territoriali, dovrebbero assumere sempre più una valenza di tipo storico-strategico, piuttosto che di tipo episodico ed effimero: sostenendo processi e non progetti frammentari e precari, adottando policy durevoli centrate sull’idea di favorire lo sviluppo di interconnessioni feconde fra sistema di welfare, sistema culturale, sistema produttivo, programmi di ricerca e di trasferimento tecnologico finalizzati al potenziamento dell’economia sociale e solidale, azioni mirate all’attrazione di talenti creativi e scientifici, programmi complessi di rigenerazione urbana e di riqualificazione dei beni comuni e processi partecipativi finalizzati alla valorizzazione delle social capabilities dei territori.

Più specificatamente, i binomi fondazioni di impresa – cluster territoriali dovrebbero sostenere la sperimentazione di paradigmi economici capaci di porre quali vincoli esterni alla logica di massimizzazione del profitto la progressiva espansione delle libertà sostanziali delle persone più fragili, la costruzione di capitale e coesione sociale, la sostenibilità ambientale, lo svelamento ovvero la creazione di “bellezza”. Questi binomi col tempo potrebbero diventare soggetti articolati e plurali capaci di condizionare e modificare in maniera efficace i più significativi determinanti ambientali, di salute, di benessere e di sviluppo economico-sociale, fecondando microclimi sociali generatori di libertà.

La promozione di sistemi ad alto capitale sociale di dimensione mesoscopica, dove si sperimentano forme stabili di cooperazione anche economica, può facilitare, come in un gioco evolutivo, la transizione territoriale di società non cooperanti verso società cooperanti. Per questo i binomi fondazioni di impresa – cluster territoriali possono e devono rappresentare un nucleo aperto fecondo per le persone e per le comunità locali e, quindi, possono e devono essere capaci di indurre cambiamenti più ampi, facilitando scambi di risorse (strumentali, conoscitive, economiche, ecc) con attori, significativi, esterni al reticolo strettamente territoriale. Condizione, quest’ultima, necessaria per attivare le persone, le comunità e quindi generare una vera e propria transizione di fase catastrofica (in tempi relativamente brevi) delle economie dei territori in cui fondazioni di impresa e cluster territoriali scelgono di operare.

 

 Questo contributo è parte del ciclo di approfondimenti sulle Fondazioni di impresa nell’era del Covid-19, promosso da Fondazione Bracco insieme a Percorsi di secondo welfare.