“Come rendere il welfare italiano più inclusivo, efficace e sostenibile? Come rafforzare la sua capacità di proteggere le nuove categorie a rischio, spesso prive di tutele, e allo stesso tempo ridurre le disuguaglianze? In che modo il risparmio incentivato e la costruzione di patrimonio possono contribuire?”. L’ultima pubblicazione dell’Osservatorio di Intesa Sanpaolo per il Sociale si apre con queste ambiziose domande e propone come possibile risposta uno strumento nuovo, l’asset building.
Stiamo parlando del policy paper “Contrastare le disuguaglianze e favorire la crescita: quando risparmio e asset building si incontrano”, scritto dalla direttrice scientifica di Percorsi di Secondo Welfare Franca Maino e da Giampaolo Vitali, dirigente dell’IRCrES, l’Istituto di Ricerca sulla Crescita Economica Sostenibile del CNR.
“L’approccio dell’asset building si configura come uno strumento promettente e complementare alle politiche tradizionali di sostegno al reddito” scrivono nel documento. Questo perché “puntando sull’accumulazione di risorse economiche, educative, relazionali e simboliche, esso mira a rafforzare la capacità di scelta e la progettualità delle persone, promuovendo percorsi di crescita autonoma e inclusione duratura”, sottolineano Maino e Vitali. Ma andiamo con ordine.
Il contesto italiano
Il paper si apre tratteggiando il quadro attuale del welfare nazionale. “In un contesto di profonde trasformazioni – demografiche, ambientali e digitali – e di crescente instabilità, il welfare italiano mostra segnali di inadeguatezza nel fronteggiare i nuovi rischi sociali”.
Maino e Vitali spiegano che il modello tradizionale del nostro Stato sociale sembra incapace di intercettare i bisogni emergenti – dalla solitudine alla ridotta mobilità sociale, dalla denatalità all’invecchiamento, dalla povertà sanitaria a quella abitativa – mentre i livelli di copertura dei servizi rimangono bassi. Prevalgono ancora i trasferimenti monetari rispetto ai servizi, e una larga parte dell’assistenza è affidata al lavoro informale.
“Povertà educativa, esclusione giovanile e divari territoriali mettono in discussione l’universalità e l’equità del sistema”, si legge ancora nel paper.
“È in questo scenario – continuano Maino e Vitali – che si colloca l’asset building: un paradigma che mira a favorire l’accumulazione di risorse patrimoniali (economiche, educative, sociali) in grado di rafforzare l’autonomia delle persone e la loro capacità di scelta nel medio-lungo periodo”.
La storia dello strumento
Il concetto di asset building nasce negli Stati Uniti negli anni Novanta, grazie in particolare agli studi di Michael Sherraden. L’idea di fondo del suo volume Assets and the Poor del 1991 è che le politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale non debbano limitarsi a sostenere i redditi nel breve periodo, ma siano chiamate a favorire anche l’accumulazione di beni (asset) materiali e immateriali da parte delle persone e delle famiglie, per rafforzarne le capacità di scelta, l’autonomia e la resilienza nel medio-lungo periodo.
“Gli asset – precisano Maino e Vitali – non si limitano al denaro, ma includono capitale umano, capitale sociale, risorse simboliche e relazionali: tutti elementi che, se accumulati e trasmessi nel tempo, possono incidere profondamente sulla vita delle persone”.
La prospettiva dell’asset building ha trovato applicazione concreta in settori diversi: dalla casa (politiche abitative e mutui agevolati) alla sanità (fondi per cure a lungo termine), dall’imprenditoria (microcredito e sostegni per le startup) fino alla previdenza. Particolarmente importante è stata la crescente estensione nel campo dell’istruzione, dove la disponibilità di risorse si rivela fondamentale per garantire non solo l’accesso ai percorsi formativi, ma anche la loro continuità e il loro completamento.
Negli Usa, in particolare, si sono sviluppati strumenti come gli Individual Development Accounts e i Child Development Accounts, che hanno mostrato come i percorsi di asset building abbiano effetti economici, ma anche psicologici. “La disponibilità di asset – anche modesti – influenza positivamente aspettative educative, partecipazione scolastica e benessere complessivo. Inoltre, la titolarità di asset ha una forte valenza simbolica: un conto intestato a un minore comunica un impegno pubblico verso la sua formazione, rafforzando l’idea che l’investimento nell’istruzione sia un bene comune”, scrivono Maino e Vitali.
Gli elementi cruciali
Programmi di asset building per l’istruzione si sono sviluppati anche in Italia negli ultimi anni, come abbiamo visto già in alcuni precedenti articoli di Percorsi di Secondo Welfare dedicati alle iniziative della Fondazione Ufficio Pio.
Anche Maino e Vitali li analizzano nel paper e, basandosi su quanto emerso a livello internazionale, indicano gli elementi necessari per creare programmi di asset building efficaci e sostenibili: una combinazione di “incentivi al risparmio, vincoli orientati a investimenti di lungo periodo, educazione finanziaria, supporto istituzionale e inclusione mirata”.
In particolare, autrice e autore sostengono che un contesto di policy favorevole permetterebbe alle famiglie a basso reddito di accedere agli strumenti bancari di base, di essere protette da pratiche predatorie e di usufruire di incentivi pubblici mirati. In questa prospettiva, scrivono, “gli asset non assumono soltanto un valore privato, ma vengono riconosciuti come parte integrante della sicurezza economica collettiva. Il risparmio diventa un’azione situata in un contesto istituzionale, più che una semplice scelta individuale”.
Certo, però, vanno considerate anche le possibili “barriere soggettive e istituzionali che limitano la partecipazione ai programmi di asset building” e, per questo, il paper di Maino e Vitali dedica un intero capitolo all’analisi dei risultati dell’Indagine 2025 sul Risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani (Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi e Intesa Sanpaolo, 2025)
I dati sul risparmio
Gli autori spiegano che sono ormai decenni che le famiglie italiane utilizzano i risparmi per pagare l’istruzione dei familiari. È una pratica che risale già agli anni Sessanta. “Il ricordo dei libretti postali accesi dai nonni o dai genitori al momento della nascita, per favorire l’istruzione universitaria, è ancora presente nei boomer di oggi. Ciò significa che allora, come oggi, il risparmio può rappresentare un utile strumento di crescita sociale”, sostengono i due esperti.
Analizzando i dati dell’indagine, infatti, emerge un interesse diffuso per il risparmio finalizzato alla formazione dei figli.
Al tempo stesso, sembra che le famiglie non abbiano problemi nell’accesso alla formazione, con l’84% degli intervistati che non ha mai dovuto rinunciarvi per motivi finanziari, e il 95% che non ha mai utilizzato un prestito per pagare formazione. “Le risposte – precisano però Maino e Vitali – andrebbero meglio approfondite per verificare se c’è davvero la volontà di formarsi o meno: se non sento la necessità di fare formazione, non la chiedo, non la cerco, e non mi indebito per ottenerla”.
Inoltre, nell’ambito di specifiche domande sull’asset building, viene espresso un certo apprezzamento per la possibile defiscalizzazione del versamento mensile o delle spese di formazione, per l’opportunità di un conto corrente agevolato su cui versare e, in misura ancora maggiore, per corsi gratuiti di pianificazione finanziaria familiare. Sempre rispondendo a domande sull’asset building, le famiglie dicono di voler ridurre al minimo i rischi finanziari dell’operazione, con la richiesta che il promotore sia una banca (36%), che la famiglia non abbia un obbligo stringente di versare un fisso tutti i mesi (62%), ma che ci sia una certa flessibilità, che i versamenti diano anche un rendimento (70%) e non rappresentino soltanto un mero accumulo di liquidità.
Infine, alcune cifre meno positive: il 64% degli intervistati vorrebbe poter utilizzare il capitale accumulato anche per eventuali emergenze della salute; i corsi gratuiti di educazione finanziaria non sembrano molto richiesti (17%); operai e nuclei a basso reddito mostrano uno scarso interesse verso l’asset building. Invece, notano gli autori del paper, “si tratta di due sottogruppi che dovrebbero essere al centro delle proposte di asset building stante la formidabile opportunità di elevazione sociale a loro offerta”.
Una nuova infrastruttura di welfare
A fronte di questi numeri e di tanti altri elementi analizzati nel paper, Maino e Vitali concludono che “gli strumenti di asset building, per essere realmente inclusivi, devono essere progettati con attenzione alla progressività degli incentivi, alla trasparenza gestionale, al supporto educativo e alla semplificazione delle procedure”.
Per gli autori, ad esempio, le esperienze messe in campo da Fondazione Ufficio Pio sono “replicabili”, ma a condizione che ci siano “un forte investimento in termini di governance collaborativa, integrazione tra politiche sociali ed educative, e coinvolgimento attivo di soggetti pubblici, privati e filantropici”.
Per Maino e Vitali, “in prospettiva, l’asset building potrebbe costituire una delle infrastrutture portanti di un nuovo welfare orientato alla capacitazione, in grado di accompagnare i cittadini lungo l’intero ciclo di vita. Non si tratta solo di soddisfare i bisogni, ma di creare opportunità: ridurre le disuguaglianze non come semplice redistribuzione ex post, ma come una creazione strutturale di condizioni favorevoli all’autonomia, alla mobilità sociale e alla cittadinanza attiva”.