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A Sharm el-Sheikh è iniziata la COP27. La ventisettesima edizione della Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, per usare la definizione completa dell’incontro, proseguirà fino al 18 novembre in Egitto.

L’urgenza di ridurre le emissioni di gas serra è destinata, almeno per qualche giorno, a tornare al centro dell’agenda politica internazionale. E lo farà dopo che negli ultimi mesi, tra la siccità e le temperature record, gli effetti del surriscaldamento globale si sono manifestati con particolare forza anche in Italia.

Il momento è quindi propizio per ragionare su quali siano i legami tra crisi climatica e welfare, nonché su quello che si può fare per limitare i rischi sociali collegati a un aumento delle temperature.

Il nesso socio-ecologico

“Il nesso socio-ecologico è bidirezionale”, dice Matteo Mandelli, dottorando dell’Università degli studi di Milano, tra i fondatori della rete di ricerca Sustainable welfare and eco-social policies. “Il clima incide sul welfare, ma anche il welfare sul clima, dato che ha un’impronta ecologica legata alla crescita economica”, spiega.

Per quanto riguarda il primo nesso, sul quale ci concentreremo, “le implicazioni” del cambiamento climatico “per il benessere, i rischi sociali e le politiche sociali in Europa” si dividono in quattro categorie. Le ha individuate Ian Gough sul Journal of European Social Policy e sono:

  • Rischi diretti, come l’innalzamento del livello del mare nelle zone costiere, la mancanza d’acqua, le ondate di calore
  • Rischi indiretti, come un aumento delle migrazioni dall’Africa sotto stress
  • Implicazioni delle politiche di adattamento al cambiamento climatico, come la rimozione di abitazioni da zone soggette ad alluvioni
  • Implicazioni delle politiche di mitigazione del cambiamento climatico, come nuove tasse o cambiamenti industriali per ridurre le emissioni.

Questi rischi possono concretizzarsi in diversi ambiti di attività dei welfare state europei, come ha evidenziato un convegno che ETUI, l’istituto di ricerca dei sindacati europei, ha dedicato al tema lo scorso anno. Si va dalla salute (emissioni nocive e qualità dell’aria) alle pensioni, dall’occupazione (il boom dell’edilizia legato alle ristrutturazioni a fine energetici) alla formazione (le competenze per i nuovi lavori per l’economia verde), dalla povertà energetica a quella alimentare fino alle politiche abitative.

La tripla ingiustizia del cambiamento climatico

Accanto alla sua categorizzazione dei rischi, Gough, già nel 2008, ragionava anche di “nuove preoccupazioni in materia di giustizia sociale e politica sociale”, “sollevate dalle pressioni (morali e pratiche) per ridurre drasticamente le emissioni di carbonio in Europa”. Quattordici anni dopo, in un documento pubblicato lo scorso giugno, l’Agenzia Europea dell’Ambiente sottolinea come “i cambiamenti climatici interessano tutti gli europei, ma il livello di impatto varia all’interno delle società. Le persone più colpite tendono a essere quelle già svantaggiate a causa dell’età, della salute o dello status socio-economico”.

Per dimostrare la sua teoria l’agenzia porta due esempi: “una crescente esposizione delle popolazioni vulnerabili al calore” e il fatto che “le aree a maggior rischio di inondazioni tendono ad avere percentuali più elevate di persone svantaggiate rispetto alle aree a minor rischio”. E stiamo parlando solo di rischi diretti.

Prendendo in considerazione tutte le categorie di nessi, il pericolo è che si crei una tripla ingiustizia. “La tripla ingiustizia – riprende Mandelli – riguarda soprattutto quelle persone vulnerabili che però, solitamente, sono responsabili di una quota inferiore di emissioni climalteranti, che hanno minori mezzi per affrontare gli effetti del cambiamento climatico e che, a volte, finiscono per subire anche le conseguenze sociali negative delle politiche di riduzione delle emissioni”.

In pratica, chi ha contribuito meno alla crisi climatica finisce per pagarla due volte.
Con vecchie disuguaglianze che rischiano di acuirsi, e nuove che rischiano di nascere.
Per evitare che tutto questo accada, le leve da azionare sono molte.

Che fare?

Per le politiche di adattamento al cambiamento climatico, l’Agenzia Europea dell’Ambiente chiede “azioni rivolte specificamente ai gruppi o ai luoghi più vulnerabili o più esposti”, che non devono essere solo beneficiari, ma anche attori attivi. “La partecipazione significativa dei gruppi vulnerabili, o degli stakeholder che rappresentano i loro interessi, alla pianificazione e all’attuazione dell’adattamento e al monitoraggio degli impatti sociali delle misure di adattamento è fondamentale per garantire un processo di adattamento equo e risultati equi”, avverte l’Agenzia.

Le politiche di mitigazione del cambiamento climatico, che puntano a ridurre o prevenire le emissioni, invece portano a ragionare di transizione. La transizione verde è la trasformazione che l’economia sta affrontando per cercare di non produrre più gas climalteranti. È un cambiamento di portata enorme, dai risvolti enormi. “Le politiche climatiche – dice Mandelli – hanno conseguenze sociali notevoli, spesso negative”. Per evitarle, si è deciso di lavorare affinché la transizione verde sia anche una transizione giusta (just transition, in inglese).

La Commissione Ue, per esempio, ha creato un “meccanismo per la transizione giusta” e cioè uno strumento che dovrebbe “contribuire a mobilitare almeno 55 miliardi di euro nel periodo 2021-2027 nelle regioni più colpite, al fine di attenuare l’impatto socioeconomico della transizione” e di “non lasciare indietro nessuno”.

Lo slogan è molto usato dalle istituzioni, ma non di così facile attuazione.

Basti pensare alle conseguenze sociali che avranno i cambiamenti in atto in settori come quello automobilistico o energetico. Che ne sarà dei lavoratori che scendono nelle miniere di carbone o lavorano in aziende energivore come l’ex Ilva di Taranto o ancora producono le auto a combustione che, dal 2035, non si dovrebbero più vendere in Ue, ? E, soprattutto, i sistemi di welfare saranno in grado di rispondere ai nuovi bisogni di questi cittadini e delle loro comunità?

Qualche esempio positivo esiste, come quello spagnolo nell’abbandonare il carbone, ma sono domande in larga parte ancora senza risposte. Nel cercarle però può avere un ruolo anche il secondo welfare.

Legittimità e partecipazione

Sono infatti diverse le modalità con cui imprese, sindacati, associazioni, organizzazioni di Terzo Settore e corpi intermedi in generale  possono contribuire a delle positive politiche eco-sociali e cioè delle politiche pubbliche che perseguono in modo esplicito e integrato obiettivi di politica ambientale e sociale. Lo possono fare sia creando esperienze spontanee sia partecipando ai processi istituzionali.

In Italia, per esempio, si possono “osservare molteplici esperienze promosse dal basso, in modo spontaneo o organizzato, a livello per lo più locale e da attori diversi, informali, associativi, istituzionali e imprenditoriali, che uniscono creatività e sapere pratico in innovazioni di grande interesse nei processi produttivi, nelle misure di welfare e nella tutela dell’ambienteha scritto Matteo Villa, professore associato di Sociologia economica all’Università di Pisa.

Allo stesso tempo” continua Villa in un intervento ripreso anche dal movimento ambientalista Fridays For Future Italia “potrebbe rivelarsi particolarmente importante per i movimenti, i gruppi, i cittadini e altri attori seguire da vicino, discutere e prendere parte e nei propri territori gli sviluppi concreti delle azioni implementate dall’alto da parte dalle istituzioni, dai processi di tutela dell’ambiente, decarbonizzazione, transizione produttiva e energetica, ai progetti di rigenerazione urbana e agli interventi di adattamento, mitigazione e innovazione tecnologica: le problematiche eco-sociali sono, come detto, differenti ma integrate, richiedono di essere affrontate in modo sistematico ma anche contestualizzato, riconoscendo e valorizzando le peculiarità dei contesti e le conoscenze e competenze locali come parte di un’azione globale”.

La questione dei territori è centrale anche per la partecipazione degli enti del secondo welfare alla giusta transizione (ne avevamo parlato anche qui), secondo Mandelli.

Quali attori vengono coinvolti in questi processi dipende molto da territorio a territorio: possono esserci i sindacati, le aziende, la politica locale, ma anche i movimenti ambientalisti”, spiega il ricercatore. In Germania, ad esempio, la ristrutturazione industriale del settore energetico ha visto un forte coinvolgimento di aziende e sindacati nel decidere come e quando abbandonare le fonti fossili. In Spagna, invece, alla chiusura delle miniere di carbone e delle centrali ad esse collegate hanno preso parte gli attori pubblici locali, che sono stati ascoltati e coinvolti nelle diverse fasi del processo. Gli esempi, nel complesso, sono ancora limitati. “Per garantire la legittimità della transizione, però, un aspetto è fondamentale: le istituzioni devono disegnare dei processi partecipati”, conclude Mandelli

 

 

Foto di copertina: Mika Baumeister