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L’articolo che segue è parte di “Allargare lo sguardo sulla conciliazione”, dispensa che raccoglie approfondimenti tematici per i partecipanti del modulo formativo “Rinnovare le RTC: reti e nuove logiche per innovare i servizi locali” realizzato da WorkLife Community.

Il 10 maggio 2023 è stata pubblicata la direttiva europea volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza retributiva. Prima nel suo genere, vediamo quali sono i limiti di questa direttiva e quali innovazioni mira a introdurre negli ordinamenti degli Stati membri.

Divario retributivo: un problema globale oltre che europeo

Quello della disparità salariale tra uomini e donne è un tema che non coinvolge soltanto l’Unione Europea. Un recente report di Willis Towers Watson e del Word Economic Forum attraverso l’indicatore Wealth Equity Index (WEI) mostra infatti che un consistente divario di genere nell’accumulo di ricchezza al momento della pensione si può riscontrare in 39 Paesi nel mondo (Figura 1). L’indice varia da 0 ad 1, dove 1 rappresenta l’equità patrimoniale tra uomini e donne. Oltre a una grande variabilità del dato rilevato, dal report emerge che in tutte e cinque le Regioni mondiali (Africa e Medio Oriente, Asia Pacifica, Europa, America Latina e Nord America) al momento del pensionamento le donne hanno accumulato in media solo il 74% della ricchezza accumulata dagli uomini (Greppi e De Stefanis 2023).

 

Figura 1, Distribuzione in 39 mercati della parità globale di ricchezza (2022 Global Gender Wealth Equity Report, p.9)
Figura 1, Distribuzione in 39 mercati della parità globale di ricchezza (2022 Global Gender Wealth Equity Report, p.9)

Se guardiamo al solo caso europeo, possiamo vedere che il divario pensionistico che – si attesta intorno al 30% –  e sappiamo che questo (come spiegavamo qui) è diretta conseguenza del persistere del gender pay gap. Infatti, sebbene si sia registrato un generale miglioramento del dato rispetto al 2011, nel 2020 le donne hanno guadagnato in media il 13% in meno rispetto alle loro controparti maschili (nel 2011 il divario era del 16%). Come è ben noto, a incidere sul divario retributivo tra uomini e donne sono alcune caratteristiche del mercato del lavoro, quali la segregazione occupazionale, sia orizzontale che verticale (Figura 2); le interruzioni di carriera legate alla maternità e all’assolvimento dei compiti di cura; il ricorso al lavoro part-time.

Abbiamo già avuto modo di approfondire la situazione italiana in questo ambito. Abbiamo visto ad esempio che, a cinque anni dalla laurea il tasso di occupazione è di circa 6 punti percentuali a favore degli uomini, che dunque riscontrano meno difficoltà e ostacoli per entrare nel mercato del lavoro (le percentuali sono pari all’86% per le donne e al 92,4% per gli uomini con laurea triennale, mentre scendono di poco per le/i laureate/i magistrali rispettivamente 85,2% e 91,2%).

Inoltre, quando entrano nel mercato del lavoro, le donne sono maggiormente esposte a contratti a tempo parziale o precari, e riscontrano maggiori ostacoli nella progressione di carriera a causa delle interruzioni del percorso lavorativo, come detto, sia per il congedo di maternità, sia perchè è sulle donne (occupate o meno) che ricadono le maggiori responsabilità di LTC informale.

Figura 2, Divario retributivo di genere in Italia, per professione. (Eurostat 2018)
Figura 2, Divario retributivo di genere in Italia, per professione. (Eurostat 2018)

In questo scenario, come può una direttiva sulla trasparenza retributiva promuovere la riduzione e, nel lungo periodo, l’azzeramento del gender pay gap? Vediamolo insieme.

La direttiva 2023/970: “pietra miliare” verso la parità di genere

Fin dal giugno 2019, il Consiglio dell’Unione Europea ha chiesto agli Stati membri e alla Commissione di adottare uno sforzo integrato al fine di contrastare il gender pay gap e, di conseguenza, promuovere la parità retributiva avendo rilevato che il suo raggiungimento è “ostacolato da una mancanza di trasparenza nei sistemi retributivi, da una mancanza di certezza giuridica sul concetto di lavoro di pari valore e da ostacoli procedurali incontrati dalle vittime di discriminazione” (Direttiva 2023/970, considerazione 11, p.22).

Il 10 maggio 2023 è stata dunque pubblicata nella sua versione definitiva la direttiva sulla trasparenza retributiva che introduce obblighi e doveri per i datori di lavoro del settore pubblico e privato e sanzioni in caso di mancato adeguamento. Dal momento dell’entrata in vigore, gli Stati membri avranno 3 anni per mettere in atto le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie a recepire nei propri ordinamenti quanto previsto dalla direttiva. Vediamo dunque le principali previsioni.

Accesso alle informazioni

Dal momento che uno dei primi ostacoli alla parità retributiva consiste proprio nelle difficoltà che lavoratori e lavoratrici e/o candidate e candidati riscontrano nel reperimento delle informazioni necessarie per richiedere accesso a retribuzioni egualitarie, la direttiva prevede per i datori di lavoro l’obbligo di fornire nei relativi annunci dei posti vacanti e/o comunicandole prima del colloquio di lavoro tutte le informazioni riguardo la loro retribuzione iniziale o la loro fascia retributiva. I datori di lavoro, inoltre, non potranno chiedere alle/ai candidate/i alcuna informazione riguardo le loro attuali o precedenti retribuzioni. Una volta assunti, invece, lavoratori e lavoratrici potranno chiedere:

  • i livelli retributivi medi, ripartiti per sesso, delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore
  • i criteri utilizzati per determinare la progressione retributiva e di carriera, che devono essere oggettivi e neutri sotto il profilo del genere

I datori di lavoro, inoltre, secondo quanto disposto dall’art. 8, dovranno comunicare agli Stati membri, le informazioni legate al divario retributivo di genere relative alla propria organizzazione. A partire da giugno 2027, ciò avverrà annualmente per le aziende con almeno 250 dipendenti e triennalmente per le realtà con meno dipendenti.

Accesso alla giustizia

Ai sensi della nuova direttiva, qualsiasi lavoratore o lavoratrice che sia vittima di discriminazione retributiva basata sul genere può ottenere un risarcimento o la piena riparazione del danno. Avendo l’obiettivo di restaurare il diritto leso alla trasparenza retributiva, la direttiva auspica, in caso di violazioni, a porre il/la lavoratore/lavoratrice nella posizione in cui si sarebbe trovato/a se non avesse subito una discriminazione in base al genere.

In questo senso, decisamente interessante e a sostegno di chi lavora è l’inversione dell’onere della prova (art. 18): in seguito all’entrata in vigore della direttiva, infatti, in caso di discriminazione retributiva spetterà al datore di lavoro (e non più ai/alle lavoratori/lavoratrici) dimostrare di non aver violato le norme europee in materia di parità di retribuzione e trasparenza retributiva. Per garantire questo diritto, agli Stati membri è demandato il compito di stabilire sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive.

Alcune criticità

Come detto, le imprese dovranno adempiere a obblighi di comunicazione sul divario retributivo di genere diversi a seconda del numero di dipendenti. La principale criticità legata alla direttiva, tuttavia, risiede proprio in questo passaggio: l’art. 10, infatti, specifica che se dalla comunicazione dovesse emergere un divario retributivo superiore al 5% non giustificabile sulla base di criteri oggettivi e neutri rispetto al genere, le imprese saranno tenute ad agire svolgendo una valutazione congiunta delle retribuzioni in collaborazione con i rappresentanti dei lavoratori. Questa specifica soglia, tuttavia, come riporta Bagnariol (2023), sembra essere del tutto arbitraria e ingiustificata, soprattutto se l’obiettivo è quello di azzerare la disparità retributiva.

Altra criticità, inoltre, è il fatto che la direttiva si applica solo a lavoratrici e lavoratori dipendenti, non ai/alle liberi/e professionisti/e – un problema che continua a ripresentarsi nella normativa europea e italiana, ma che non può e non deve essere sottovalutato. Altrimenti, il buon proposito della parità di genere sarebbe semplicemente vanificato dall’assenza di parità nei diritti e doveri di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici, indipendentemente dalla forma contrattuale.

Riconoscimento dell’intersezionalità 

Lo European Institute for Gender Equity (EIGE) ha definito questo provvedimento la “pietra miliare per la parità di genere”. E questo è evidente se si considera, ad esempio, il fatto che per la prima volta entrano nella legislazione dell’Unione argomenti come il diritto all’informazione sui trattamenti economici e il ribaltamento dell’onere della prova in caso di discriminazioni basate sul genere.

Ma c’è di più. Per la prima volta, si apre in una direttiva dell’Unione alla possibilità che lavoratori e lavoratrici esperiscano situazioni in cui la discriminazione può avere una natura intersezionale (Crenshaw 1989, 2017). Si riconosce infatti che “La discriminazione retributiva basata sul genere, in cui il genere della vittima svolge un ruolo cruciale, può […] implicare un’intersezione di vari assi di discriminazione o disuguaglianza qualora il lavoratore appartenga a uno o più gruppi protetti contro la discriminazione fondata sul sesso, da un lato, e la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale” (Direttiva 2023/970, considerazione 25, p.24).

 

 

Bibliografia

Foto di copertina: Tim Mossholder, Unsplash