Il rapporto tra capitale e lavoro torna periodicamente al centro del dibattito ma l’analisi va sempre nella stessa direzione, ovvero evidenziare il dominio del primo sul secondo. Un vero e proprio sfruttamento per massimizzarne l’interesse secondo modalità sempre nuove, ad esempio attraverso l’utilizzo di piattaforme digitali che efficientano e scalano l’estrazione del valore.

In questo modo il capitale ne esce, inevitabilmente e giustamente, ridimensionato nella sua funzione di sviluppo, tanto che le istanze di advocacy ne reclamano una più equa redistribuzione ad esempio tassando i patrimoni, oppure incentivando i capitali a rientrare in un ambito di piena legalità rispetto a contesti come i cosiddetti paradisi fiscali che ne favoriscono l’accumulazione a condizioni particolarmente favorevoli.

Il capitale in ambito sociale

Tutto ciò si riverbera anche a livello di narrazione per cui qualsiasi riferimento al capitale è di per sé negativo, a maggior ragione se si considera che la sua principale modalità di incremento deriva da una finanza che ha sempre meno a che fare con “l’economia reale”. Il rischio, più che concreto, è che il capitale venga se non espulso quasi certamente svilito da parte di molte espressioni di economia alternativa a quella mainstream. Basti pensare che nel recente Piano d’azione europeo sull’economia sociale quest’ultima viene definita come un settore dove il capitale non prevale sulle persone, paventando in questo modo una sorta di trade off.

Così ridimensionato il capitale in campo sociale viene impiegato soprattutto per finanziare la gestione attingendo preferibilmente a risorse interne. Investimenti veri e propri da sostenere con apporti esterni rappresentano ancora oggi operazioni tendenzialmente straordinarie, legate a particolari fasi di sviluppo e quando magari non è più possibile attingere al proprio di capitale.

Nell’economia tradizionale dove il capitale è dominante, la strategia è diversa. Accanto a tentativi (limitati) di irregimentare il capitale, soprattutto finanziario, attraverso più stringenti norme di regolazione, si assiste, soprattutto in epoca recente, al tentativo di riorientarne la missione attraverso criteri di accumulazione e allocazione che enfatizzano elementi di sostenibilità ambientale, impatto sociale e qualità della governance (la famosa tassonomia ESG).

In sintesi, diversi tentativi e su vari fronti che però, almeno finora, sembrano aver generato risultati parziali, o perché scontano approcci di “integrità” rispetto all’utilizzo del capitale che impattano solo in alcune nicchie (come l’impact investing definito in senso stretto) oppure, all’opposto, derive opportunistiche di “washing” sempre più evidenti a causa di modelli di regolazione troppo blandi e ambivalenti rispetto a strumenti di rendicontazione e ruoli di controllo.

Guardare dove, per ora, “prevale” il lavoro

Per verificare quale valore ha, o meglio potrebbe avere, il capitale nell’economia e nella società c’è però un’altra prospettiva ancora poco osservata, ovvero considerare quelle organizzazioni dove il fattore lavoro prevale sul capitale. Organizzazioni, spesso appartenenti al Terzo Settore e all’economia sociale, che enfatizzano il loro carattere labour intensive e che generalmente – e a volte anche con un certo orgoglio – si connotano per bassi livelli di capitalizzazione.

Questo assetto è chiamato ad affrontare sfide di crescita non indifferenti anche perché non è infrequente rilevare in queste stesse imprese bassi livelli di produttività, di marginalità economiche e di remunerazioni salariali che, alla fine, finiscono per deprimere il loro principale capitale, cioè il lavoro e il complesso di motivazioni che lo sostiene anche in termini di significato, in particolare se si tratta di imprese che operano nei settori dei servizi alla persona e alla comunità. Un aspetto, quello del senso del lavoro oltre che della sua giusta remunerazione e adeguata formazione delle competenze, che assume un’enfasi particolare nell’era delle grandi dimissioni e del quiet quitting post pandemia.

Questo corto circuito, a differenza del passato, è reso ancora più evidente da un altro fattore ovvero il progressivo avvicinamento a frontiere di innovazione da parte di ambiti, come cura, educazione, assistenza, che fino a qualche tempo fa si pensavano al riparo da effetti di disruption dei loro modelli di servizio e di business a seguito dell’introduzione di nuove tecnologie.

Oggi invece ci si accorge che anche nel caso di beni a forte valenza relazionale la tecnologia – in particolare digitale – gioca un ruolo chiave nel ridefinire il valore del lavoro, non solo in chiave supportiva o di potenziamento della prestazione in presenza ma perché contribuisce a definire nuovi ambienti e modelli di erogazione e fruizione. Una trasformazione profonda che può rappresentare una minaccia in termini di eliminazione di posti di lavoro come è avvenuto in altri comparti ma, allo stesso modo, può anche costituire un’opportunità per rompere quella rappresentazione dell’economia dei servizi, in particolare di quelli alla persona, come un ambito di crescita debole sia in termini sia assoluti che qualitativi, proprio come sta avvenendo in questi ultimi tempi.

Per una nuova cultura del capitale

Ecco quindi a cosa serve, o meglio a cosa potrebbe servire, il capitale oggi: a rafforzare investimenti trasformativi che abbiano come obiettivo la creazione di lavori nei servizi, e nel welfare in particolare, più qualificati e remunerati.

Da questo punto di vista il tema non riguarda la sola disponibilità di capitale ma soprattutto le modalità di accesso. Servono infatti intermediari specializzati – un ecosistema che sta sempre più crescendo per numero di attori e loro capacità operativa – e organizzazioni capaci di domandare e di assorbire capitale in modo efficace – e su questo i diversi programmi di capacity building nel Terzo Settore ci dicono che il cantiere è aperto. Ma serve infine, e non da ultimo, la formazione di una nuova cultura o ideologia del capitale anche da parte di chi lo ha sempre rappresentato come controparte, legittimando così indirettamente coloro, cioè i capitalisti, che se ne sono sempre più appropriati.

Si tratta di una evoluzione ancora in divenire perché se è vero che oggi esiste una provvista di risorse consistente in termini assoluti e differenziata per modalità di apporto che riconosce le peculiarità del “valore sociale” (grazie in particolare a un protagonismo dell’equity rispetto al credito bancario tradizionale), si pone una ulteriore sfida, fin qui inedita, legata a costi crescenti di accesso e di remunerazione del capitale.

In questo quadro dove potenzialità e rischi tendono ad esasperarsi a vicenda può essere interessante guardare alle strategie dei principali agenti di cambiamento del settore. In primo luogo il crowdinvesting, in particolare se lavora sempre più per la costruzione e gestione di community consapevoli e orientate allo scopo. In secondo luogo l’economia sociale che non immagina più il proprio sviluppo per via endogena ma come open innovation aprendosi quindi alla “biodiversità” degli apporti e delle partnership. Infine un governo della transizione del capitale secondo logiche di impatto e sostenibilità che non può essere lasciato in mano alla compliance delle tecnocrazie pubbliche e consulenziali (ormai quasi fuori controllo) ma deve ri-costituirsi come una vera e propria istanza di politica partecipata da tutti gli stakeholder autenticamente oltre che formalmente interessati.

 

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