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In Italia si parla sempre più spesso della possibilità di introdurre settimane lavorative più corte e, di conseguenza, diminuire l’orario lavorativo. Si tratta di un modello già testato in altri Paesi, come per esempio il Regno Unito o il Belgio, in cui lavoratrici e lavoratori possono sottoscrivere contratti che prevedono un giorno in meno di lavoro e una riduzione delle ore complessive a parità di retribuzione, seppur a fronte di un aumento dell’orario giornaliero.

Katy Wiese su Social Europe racconta ad esempio di 4 Day Week Campaign, “un progetto che ha riunito 70 aziende (che rappresentano 3.300 lavoratori) nel Regno Unito per sperimentare una settimana lavorativa di quattro giorni e 32 ore senza perdita di stipendio. I primi risultati sono stati molto positivi per la produttività, il benessere e per affrontare la crisi del costo della vita“. Risultati incoraggianti, come racconta Il Post, arrivano anche dall’Irlanda, dall’Islanda e dalla Spagna, dove sono in corso progetti pilota simili.

Anche in Italia sono in corso sperimentazioni, seppur ancora ai primi passi. Intesa Sanpaolo e Lavazza hanno proposto ai propri dipendenti, a parità di stipendio, di spalmare parte delle ore del venerdì negli altri giorni o di accorciare la giornata lavorativa di venerdì portando quindi a una diminuzione del monte orario. Per ora non ci sono dati sufficienti per verificare come stiano impattando queste scelte.

Alla luce di quel che sappiamo, possiamo affermare che la riduzione dell’orario di lavoro è vantaggiosa? E, soprattutto, è vantaggiosa per tutti? Proviamo a capirlo di seguito.

Vantaggi e sfide della riduzione dell’orario di lavoro

Secondo i sostenitori di questo approccio, concentrare in meno ore il lavoro garantirebbe un aumento della produttività e, quindi nel lungo termine anche a un aumento della retribuzione.  In generale, lavorare meno ore potrebbe poi rappresentar un vantaggio abbastanza intuitivo per la conciliazione vita-lavoro, avendo più tempo a disposizione per la sfera personale. Più tempo per se stessi significherebbe un maggiore benessere potenziale.

Inoltre, secondo il Report Reimagining work for a just transition (Reinventare il lavoro per una transizione giusta) dell’European Environmental Bureau, lavorare meno e avere più tempo a disposizione potrebbe avere anche dei vantaggi per l’ambiente. Permetterebbe infatti alle singole persone di entrare in un’ottica di economia circolare, spostarsi con i mezzi pubblici, riciclare o riparare oggetti e così via. Nel suo piccolo potrebbe quindi essere una misura che favorisce la sostenibilità.

Bisogna tuttavia tenere in considerazione anche alcuni rischi. Concentrare il lavoro in meno ore potrebbe portare a un aumento dello stress sul posto di lavoro. Al contempo, una diminuzione delle ore lavorate a parità di stipendio potrebbe portare ad un incremento del costo orario con un aggravio per quelle imprese che dovessero avere necessità di assumere altre persone. Anche sul fronte della conciliazione, poi, bisogna stare attenti a possibili risvolti negativi. Wiese, in questo senso, ha analizzato le conseguenze della riduzione dell’orario di lavoro prendendo in considerazione l’impatto che ha sul lavoro di cura informale.

Out-Of-Office ma si lavora comunque

Al di là del tempo passato sul luogo di lavoro, esiste un’occupazione ulteriore che impiega una larga fetta di tempo delle vite delle persone: il lavoro di assistenza e cura.

Prendersi cura di bambini, bambine e persone anziane non autosufficienti talvolta è un compito affidato a vere e proprie figure professionali. Più frequentemente, però, sono questioni che assieme alla cura della casa vengono assunte dai singoli individui che si trovano a svolgere quello che viene comunemente indicato lavoro di cura non retribuito.

Come abbiamo già raccontato, durante la pandemia la situazione di tale lavoro ha risentito delle misure di lockdown. Ora, tuttavia, sembra si stia confermando un ritorno alla situazione pre-pandemica dove, come riporta EIGE, più di tre quarti del lavoro domestico non retribuito è a carico delle donne. Si tratta di un fattore che amplia le disuguaglianze. Katy Wiese nel suo articolo riporta che “alcuni studi basati su dati di Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Italia mostrano come le donne ogni settimana contribuiscano in media 15 ore in più degli uomini al lavoro di cura non retribuito”.

Con i dati alla mano, allora, possiamo affermare che esiste uno squilibrio che va aldilà dell’orario di lavoro. E se non viene tenuto in considerazione, con la riduzione della settimana lavorativa il rischio è di peggiorare questa situazione.

Molte delle proposte che riguardano la settimana corta compensano parte delle ore tolte al venerdì allungando l’orario di lavoro su base giornaliera. Questo può essere un problema se i servizi complementari – come l’asilo nido o i centri diurni – non aumentano anche loro le ore di servizio offerto per l’assistenza dei più piccoli o dei più anziani.

Al di là della riduzione: servono servizi e equità

Di fronte alla necessità di rispondere ai bisogni di assistenza, chi ci rimette sono le donne. Come riportano i dati Istat, il lavoro part time riguarda un uomo su dieci a fronte di circa una donna su tre. Come sottolinea Save the Children nel Report “Le Equilibriste, La maternità in Italia 2022“, “per circa sei donne su dieci il part time è una condizione subita, e non una scelta. Nel 2020, era così per il 61,2% delle lavoratrici a tempo parziale, con una sensibile variazione rispetto all’età: il part time era infatti involontario per il 72,9% delle 15-34enni, mentre calava al 57% tra quelle over 35″. Inoltre, nel complesso delle dimissioni volontarie “le lavoratrici madri rappresentano il 77,2% (30.911)” mentre i padri che hanno chiesto le dimissioni sono 9.110. E, come riporta il report, tra le motivazioni indicate nelle convalide, la più frequente riguarda la difficoltà di conciliazione vita-lavoro soprattutto per rispondere alle esigenze di cura di figli e figlie. Sia per la difficoltà a usufruire di servizi di cura, sia per difficoltà organizzative.

Questo panorama mostra come nel contesto quotidiano le madri vengano già penalizzate per rispondere alle necessità familiari. In questo contesto, per le donne la riduzione dell’orario di lavoro potrebbe non comportare necessariamente un vantaggio. C’è quindi da chiedersi se un giorno in meno al lavoro non rischi di rallentare il lento processo che dovrebbe portare alla parità di genere.

Se applicata nella giusta maniera la settimana corta può certamente favorire la conciliazione e rendere meno pesanti gli oneri legati all’accudimento dei bambini o all’assistenza delle persone anziane non autosufficienti. Per essere vantaggiosa per tutti, però, la settimana corta deve necessariamente accompagnarsi di un cambiamento sociale e culturale che favorisca la condivisione dei carichi di cura.

Foto di copertina: Milad Fakurian, Unsplash