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Il mondo del lavoro è sicuramente complesso e, come tanti ambiti delle nostre vite, subisce l’influenza di avvenimenti esterni e condizionamenti sociali.

La giornalista Claire Cain Miller a tal proposito ha recentemente pubblicato sul New York Times un articolo che mette in luce, attraverso i dati, com’è cambiato il panorama per le donne madri e lavoratrici a seguito della pandemia. Per quanto le evidenze siano variabili da Paese a Paese, appare interessante riportare alcune considerazioni relative agli Stati Uniti.

Le ricerche di Claudia Golding, Harvard

Secondo Cain Miller, “per le madri durante la pandemia, il solito tira e molla del lavoro e della vita familiare è sembrato più un tiro alla fune. Eppure, nonostante la preoccupazione che avrebbero lasciato il lavoro in massa, la maggior parte è riuscita a mantenerlo, mostrano due nuove analisi dei dati“.

A dimostrarlo sono i dati di recente studio di Claudia Goldin, economista all’università di Harvard, su cui si basa l’articolo del NYT.

 

 

La conciliazione nei mesi più duri del lockdown si è fatta più problematica, soprattutto per chi ha figli piccoli. Eppure, nonostante molti esperti temessero un abbandono del lavoro in massa da parte delle donne, la maggior parte è riuscita a mantenere la propria occupazione. “La vera storia delle donne durante la pandemia è che sono rimaste nella forza lavoro” scrive Goldin. “Hanno continuato il loro lavoro, per quanto hanno potuto, e hanno perseverato“. Ma andando a approfondire i dati la situazione appare contraddistinta da molti aspetti su cui occorre riflettere.

Genitorialità e servizi di cura

Un dato rilevante riguarda il tempo di cura che i genitori dedicano all’assistenza dell’infanzia: nell’aprile del 2020 è raddoppiato rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ma questo aumento non è stato però equo: le donne, infatti, hanno dovuto farsi carico del grosso dell’impegno extra richiesto. Cain Miller spiega che “nell’aprile 2020, con la chiusura dell’economia e delle scuole, la quota di madri che lavorano attivamente con i bambini in età scolare a casa è scesa del 22% rispetto all’anno prima“.

Inoltre, l’età dei figli e delle figlie da accudire è stata una discriminante anche al momento delle riaperture, perché asili nido e strutture private in certi casi sono tornati in servizio prima delle strutture statali.

Le riaperture hanno poi fatto riemergere problematiche relative alla necessità di prendersi cura di figli e figlie. Il tempo dedicato alla cura da parte dei padri è aumentato durante il lockdown del 25%. Si tratta con molta probabilità di padri che per necessità e – soprattutto – possibilità hanno svolto il proprio lavoro da remoto. Per molte persone, a prescindere dal genere, non è stato possibile scegliere la modalità di svolgimento del proprio lavoro, soprattutto durante la seconda fase della pandemia. Il problema si è verificato alla riapertura delle scuole e degli asili: i dati mostrano che il contributo apportato dai padri nello svolgere i compiti di cura è diminuito notevolmente.

Per molte donne, inoltre, la difficoltà nel tornare al lavoro sta nella mancanza di servizi di cura. Alcune di esse faticano a trovare lavoro perché sono impossibilitate a cercarlo. Essendo responsabili dei figli, spesso non riescono ad affidarli né a parenti o persone strette né portarli in asili nido a causa del prezzo che questi servizi hanno.

Come ha detto anche il presidente degli Stati Uniti Joe Biden: “Ci sono quasi 1,2 milioni di donne estremamente qualificate che non sono tornate nel mondo del lavoro. C’è una semplice ragione: non ci sono cure per l’infanzia a prezzi accessibili per loro“. L’assistenza all’infanzia, il doposcuola e i centri estivi non sono tornati a pieno regime – spiega ancora Cain Miller -, le persone stanno ancora prendendo il Covid e, per alcune madri, la riapertura delle scuole ha dato loro la possibilità di fermarsi e rendersi conto di quanto fossero sopraffatte.

Il tasso d’istruzione è la vera discriminante

Durante la pandemia è emersa una discriminante più incisiva del genere riguardo alla possibilità di ottenere un lavoro, o poterlo mantenere. Se per certe donne, infatti, la necessità di lavorare da casa ha permesso di invertire la rotta per cui entrando in maternità l’abbandono del lavoro era l’unica strada possibile, per molte altre non è stato così. Il tasso di istruzione delle donne madri e lavoratrici è stato il fattore più escludente in questo scenario.

In primo luogo, la maggior parte dei lavori che era possibile svolgere in remoto erano quelli a cui si accede con almeno una laurea. Prendendo come campione le madri tra i 25 e i 34 anni, i dati mostrano che con l’avvento della pandemia il tasso di impiego è sceso. Confrontando la percentuale d’impiego dei mesi di aprile e maggio del 2020 rispetto agli stessi mesi del 2018 si vede come la quota di donne laureate impiegate è scesa del -1,3%, passando da 84% a 82,7%, mentre per le donne non laureate la differenza è stata del -4,4%, passando da 65,9% a 61,5%.

Inoltre, larga parte delle donne che hanno perso il lavoro svolgevano mansioni che sono state perse proprio a causa delle restrizioni: lavori di cura (di anziani o bambini) e lavori di servizio (ad esempio nel settore della ristorazione).

Disuguaglianze in aumento

La pandemia da quanto emerge dai dati ha frammentato ancora di più la società, acuendo disuguaglianze già precedentemente difficili da risanare e mostrando come sia difficile superare il retaggio paternalista che contraddistingue le nostre società, per cui in una situazione di genitorialità a doverci rimettere sono donne. La speranza, però, è quella di un cambio culturale dato anche dalle nuove generazioni: le donne che hanno un’istruzione universitaria sono sempre più propense a lavorare in maniera retribuita anche con neonati o bambini piccoli.