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Gli effetti della crisi ambientale sono ormai evidenti nella nostra quotidianità. Oltre che dal non banale punto di vista climatico e metereologico, i risvolti sociali ed economici sono sempre più tangibili e stanno allargando molte disuguaglianze già esistenti nella nostra società.

Si tratta di fenomeno che confermano come l’adattamento al cambiamento climatico richieda politiche di mitigazione che puntino a ridurre o prevenire le emissioni, ma che siano attente anche ai bisogni delle persone. L’idea della transizione ecologica è, infatti, quella di portare l’economia verso una produzione zero di gas climalteranti, ma questo cambiamento deve passare dalla cura di tutto ciò che abbiamo intorno, agendo in un’ottica inclusiva e giusta secondo quella che viene chiamata “just transition“, transizione giusta.

In questo quadro le donne e, in generale, le categorie marginalizzate in assenza di politiche adeguate rischiano maggiormente di essere penalizzate. In questo articolo proviamo quindi a capire perché è importante allargare la prospettiva. Anzitutto capendo che per alleggerire l’impatto ecologico bisogna ripensare il nostro rapporto con il lavoro.

Ripensare il lavoro per una transizione giusta

La transizione giusta è un concetto nato inizialmente per tutelare chi, lavorando in aziende molto inquinanti, a seguito dell’applicazione di politiche climatiche rimaneva escluso dal mercato del lavoro. Il processo è stato poi adottato in maniera più ampia, tant’è che secondo l’ILO – International Labour Organization – oggi l’obiettivo è rendere l’intera economia sostenibile nel modo più corretto e inclusivo possibile per tutte le persone coinvolte. Ma questo cosa significa concretamente dal punto di vista del lavoro?

L’European Environmental Bureau (EEB), la più grande rete europea di organizzazioni e associazioni di cittadini che si occupano di ambiente, sottolinea che le recenti crisi che abbiamo vissuto in concomitanza alla crisi climatica, in primo luogo la pandemia di Covid-19 e la guerra in Ucraina, hanno generato effetti sia negativi che positivi per il mercato del lavoro europeo. Se da un lato, infatti, la produttività è calata rispetto agli standard pre-pandemici, dall’altro la maggior flessibilità lavorativa ha permesso un incremento del benessere mentale, sociale e fisico delle persone.

Alcuni cambiamenti hanno innovato il mercato nelle sue caratteristiche tradizionali. Un esempio è stata la grande diffusione del lavoro agile a seguito della pandemia che, come abbiamo raccontato qui, ha portato molte organizzazioni a ripensare gli spazi aziendali. Un’altra novità è l’affermarsi di approcci volti a ridurre l’orario lavorativo. In generale, poi, si è assistito all’affermazione di macro-fenomeni indicati come Yolo Economy o Great Resignation: giovani che grazie alle possibilità del digitale, nel primo caso, hanno scelto di partire e lavorare in remoto in giro per il mondo o, nel secondo, cambiare occupazione dando priorità a benessere personale e salute. Si tratta di fenomeni che si sono affermati negli Stati Uniti, ma iniziano a essere evidenti anche in altri Paesi.

Ripensare il lavoro in toto tenendo conto dei cambiamenti avvenuti negli ultimi due anni, deve essere il punto di partenza anche per una reale transizione ecologica, come sottolinea l’EEB. Secondo il network, la necessità sempre più evidente è, in breve, quella di uscire dagli standard produttivi che si basano sulla crescita esponenziale del PIL, e adottare un approccio più sostenibile, in tutti i sensi, a partire dal ripensamento del lavoro in termini di spazi, orari e mansioni.

Adottare una prospettiva lungimirante

In questo quadro la Commissione Europea ha creato un fondo per la transizione giusta (Just Transition Fund) che “sarà disponibile per tutti gli Stati membri e si concentrerà sulle regioni a più alta intensità di emissioni di CO2 e su quelle con il più elevato numero di occupati nel settore dei combustibili fossili”.

Indirizzare le politiche della transizione ecologica su determinate regioni o settori economici, però, non sembra essere sufficiente per affrontare sfide che sono sempre più complesse e, come detto, riguardano molteplici aspetti delle nostre vite. Oltre a intervenire nelle cosiddette “brown regions”, le aree più inquinanti, bisognerebbe infatti ripensare il mondo del lavoro tenendo in considerazione anche i lavori a bassa produzione di CO2, come i lavori di cura o il settore dell’educazione. Questo  è necessario per più motivi.

Uno di essi è legato alla dimensione di genere. Come sottolinea l’OCSE nel rapporto Gender and environmental statistics, “nelle economie avanzate esistono differenze nell’esposizione all’inquinamento e alle sostanze chimiche pericolose tra uomini e donne, legate alle abitudini di consumo, alle differenze fisiologiche e ai divari del background socioeconomico“. Considerando che l’occupazione nel settore della produzione di gas e petrolio è tra quelli con la più bassa percentuale di donne 22%, secondo solo al settore edile con l’11%, si rischierebbe di adottare un approccio sostenibile a livello ambientale, ma non inclusivo in un’ottica di medio periodo.

Sempre in quest’ottica, molte delle persone marginalizzate adottano per necessità uno stile di vita più sostenibile. Lo fanno ad esempio perché usano di più i mezzi pubblici o perché prestano maggior attenzione ai costi delle bollette. Questo, però, non cambia la situazione. Secondo i dati raccolti da 40 Cities Climate Leadership Group, ActionAid e Eurostat e recentemente riportati dal Corriere, a livello mondiale “l’80% delle persone costrette a spostarsi a causa del cambiamento climatico sono donne“.

Favorire la partecipazione e l’accesso ai dati

Nel prendere decisioni legate al bene comune, e utili a marginare la crisi climatica, c’è dunque un fattore che andrebbe preso maggiromente in considerazione: la partecipazione delle donne e delle minoranze ai processi di decision making, che oggi è molto limitata.

La leadership è ancora un ambito delle nostre vite dove la presenza maschile è nettamente superiore a quella femminile. Come sottolinea il Report 2022 dell’EIGE, l’European Institute for Gender Equality, negli anni il divario è stato ridotto, ma ancora persiste. E la situazione è ancora più complessa se consideriamo le minoranze presenti nella società.

Secondo il network ENERGIA, che si occupa dei nessi tra sostenibilità e parità, “la transizione ecologica deve includere pienamente le donne e utilizzare il loro libero arbitrio, la leadership, le capacità imprenditoriali e la loro partecipazione per accelerare il raggiungimento di un’energia sostenibile universale e ridurre il divario di genere”. Si tratta di obiettivi che devono andare di pari passo, mettendo in luce anche le necessità delle minoranze.

Farlo non è sempre facile. Un fattore che incide sulla valutazione di politiche sostenibili è la mancanza di dati disaggregati per genere. Come avevamo raccontato qui, la giornalista e attivista Caroline Criado Perez ha affrontato questo problema nel suo libro “Invisibili” (2020). Dal suo lavoro emerge come politiche e decisioni che si dichiarano “neutre” rispetto al genere, o ancora peggio sono costruite intorno a una visione androcentrica, hanno tendenzialmente conseguenze negative. Senza i dati, infatti, non si possono avere delle basi per sviluppare delle politiche adeguate a rispondere alle esigenze che, come detto, mutano a seconda del genere.

Ripensare la partecipazione politica e i processi decisionali, oltre che lavorativi, sono punti di partenza per una transizione giusta. Senza un’evoluzione culturale, infatti, la transizione ecologica rischia di favorire disuguaglianze e allargare il divario sociale.