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Lavorare (poco) meno, ma con lo stesso stipendio. È questo uno degli output della settimana corta. Probabilmente quello che più stimola l’interesse di chi lavora ma, evidentemente, anche di chi il lavoro lo dà. Nell’ultimo anno se n’è parlato molto a seguito di alcune esperienze fatte all’estero, ma anche perché alcune organizzazioni hanno iniziato a sperimentare seriamente questo nuovo modo di lavorare nel nostro Paese.

ln modello, lo spiegavamo qui, è già testato in altri Paesi (il più recente è la Germania), e in breve prevede la possibilità per lavoratrici e lavoratori di sottoscrivere contratti che prevedono, a parità di retribuzione, una riduzione delle ore complessive di lavoro o, addirittura, una riduzione del numero di giorni lavorati. E, come detto, questa possibilità sembra piacere molto a chi lavora, a chi rappresenta i lavoratori, ma anche alle stesse aziende.

A indicare questa tendenza ci sono alcune ricerche e diverse sperimentazioni in corso.

La “tentazione” della settimana corta

Secondo una recente ricerca di AIDP, l’Associazione Italiana per la Direzione del Personale, il 93% dei direttori del personale è favorevole alla settimana lavorativa di quattro giorni. Le ragioni sono diverse: c’è chi crede che la settimana corta possa migliorare la conciliazione vita-lavoro, chi pensa che potrebbe migliorare il benessere psicofisico e chi è convinto che aumenti la motivazione al lavoro. E gli HR non sono gli unici ad avere questa idea. Stando ai risultati della report “La nuova relazione con il mondo del lavoro”, curato da Assirm1 il 55% degli italiani è disposto a guadagnare meno pur di avere un giorno libero in più. Questa percentuale sale addirittura al 62% nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni.

Come vi abbiamo raccontato anche nel Sesto Rapporto sul secondo welfare, di fronte a questo apprezzamento generalizzato della settimana corta, molte organizzazioni hanno scelto di sperimentare questo modello organizzativo. La prima realtà è stata Intesa Sanpaolo, che ha proposto ai propri dipendenti, su base volontaria, la possibilità di lavorare quattro giorni a settimana aumentando a 9 le ore giornaliere, a parità di retribuzione, senza obbligo di giorno fisso, con quindi una riduzione di orario settimanale da 37,5 a 36 ore totali.

Settimana corta: dentro il caso Intesa Sanpaolo

Ma ad essere interessati non sono solo i grandi. Qualche mese fa vi abbiamo infatti parlato di UniAbita, storica cooperativa di abitanti2 dell’hinterland milanese che ha ridotto il monte ore settimanale dei suoi 42 collaboratori da 38 a 36. Come per Intesa, la soluzione è stata quella di aumentare l’orario di lavoro di un’ora tra il lunedì e il giovedì: il venerdì è divenuto così un nuovo giorno di chiusura per l’azienda.

Le recenti esperienze italiane

Più di recente, altre aziende hanno attuato questa modalità organizzativa. Lamborghini ha sottoscritto con i sindacati un accordo che – a parità di salario, anche grazie a quanto definito dal nuovo contratto integrativo – introduce una nuova turnazione che prevede l’alternarsi di una settimana da 5 giorni lavorativi e una da 4 per il personale di produzione che lavora su due turni (mattina e pomeriggio): si tratta di una riduzione complessiva di 22 giornate di lavoro all’anno. Ci sarà invece una settimana da 5 giorni e due da 4 per il personale di produzione che lavora su un regime a tre turni (mattina, pomeriggio e notte): in questo caso la riduzione sarà di 31 giornate.

In Luxottica è stato invece sottoscritto un accordo sperimentale tra azienda e parti sociali che prevede che per 20 settimane l’anno i dipendenti di tutti gli stabilimenti dell’azienda3 lavoreranno 4 giorni, restando liberi da venerdì a domenica o da sabato a lunedì. Per tutte le altre settimane si manterranno invece i canonici 5 giorni lavorativi. Anche in questo caso il salario resterà lo stesso, dato che i costi di questa riduzione delle giornate saranno ripartiti tra azienda e lavoratori/trici: 5 dei 20 giorni in meno saranno scalati dai retribuiti, mentre gli altri 15 saranno in carico all’azienda.

Il vero tema dietro alla settimana corta

Più di recente, anche il gruppo assicurativo Sace ha implementato la settimana di 4 giorni su base volontaria. I dipendenti della società possono quindi chiedere di lavorare un giorno in meno alla settimana, garantendo comunque 36 ore lavorative (al posto delle “normali” 37), scegliendo qualsiasi giorno della settimana per il riposo, sulla base di una programmazione mensile a livello di area. Il tutto senza nessuna modifica del trattamento economico.

Settimana corta: una vera opportunità?

Sembra dunque che sempre più organizzazioni comprendano come questa novità organizzativa e produttiva possa essere un’occasione. E – come abbiamo evidenziato anche all’interno del Sesto Rapporto sul secondo welfare – lo è su più fronti: consente di migliorare il work-life balance, avere più tempo per sé e la famiglia, rafforza il clima e, di conseguenza, riduce lo scontento e migliora la produttività.

Ma c’è un nodo di fondo che non dobbiamo dimenticare. Nonostante la settimana corta possa essere considerata – a tutti gli effetti – anche uno strumento di welfare aziendale, è evidente che non è applicabile a tutti i settori produttivi e a tutti i lavori. Ci sono posizioni lavorative in cui la presenza deve essere garantita (come nel caso dei medici o degli infermieri). Inoltre ci sono realtà che per dimensioni o tipologia di attività – si pensi ai comparti dell’agricoltura e dell’edilizia – non possono permettersi di avere più personale per ridurre le ore-persona.

Tutto ciò rischia di allargare quella profonda frattura che esiste già tra grandi organizzazioni che hanno la possibilità di investire in questo genere di innovazioni e le piccole realtà, in particolare quelle che operano in comparti con scarso valore aggiunto e con ridotti margini di guadagno. Come hanno avuto modo di sottolineare Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi, oggi è cruciale per le imprese riuscire ad essere attrattive, anche grazie a innovazioni come la settimana corta, ma va ricordato che le organizzazioni che non possono permetterselo rischiano di essere discriminate e di avere un posizionamento svantaggiato per la ricerca di collaboratori e a livello di mercato.

È corretto dunque evidenziare le (numerose) opportunità della settimana corta; ma bisogna ricordare come il rischio sia quello di creare “isole felici”, in cui lavoratori e lavoratrici hanno la possibilità di accedere a benefit e tutele migliori rispetto a (molte) altre persone e organizzazioni che invece rischiano di vedere peggiorata la propria posizione.

 

Note

  1. Assirm è l’Associazione che riunisce le maggiori aziende italiane che svolgono ricerche di mercato, sondaggi di opinione e ricerca sociale.
  2. Le cooperative di abitanti organizzano il bisogno abitativo in maniera mutualistica per dare ai propri soci la possibilità di accedere a un alloggio a condizioni migliori di quelle del mercato. Promuovono la formazione di programmi edilizi, direttamente o con altri partner, per consentire ai loro soci sia l’accesso alla casa in proprietà (cooperative a proprietà individuale o divisa), sia alla casa in godimento o locazione (cooperative a proprietà indivisa).
  3. Situati a Agordo, Sedico, Cencenighe Agordino, Pederobba, Lauriano (Torino) e Rovereto (Trento).