Claudia Goldin nel 1990 è stata la prima donna a ottenere una cattedra all’Università di Harvard e nel 2023 ha ricevuto il Premio Nobel per l’economia “per aver accresciuto le conoscenze sui risultati della partecipazione delle donne nel mercato del lavoro”. Terza donna a vincere questo premio, avevamo recensito l’edizione italiana del suo celebre volume “Career & Family: Women’s Century-Long Journey Toward Equity”.
Ora un nuovo studio Goldin rivela che i Paesi in cui gli uomini contribuiscono maggiormente ai lavori domestici e alla cura dei figli — in altre parole, quelli che si discostano dal modello tradizionale del marito “breadwinner” e della moglie casalinga — registrano tassi di natalità più elevati. Vediamo perché.
La tesi di Goldin: senza impegno condiviso non si fanno più figli
Nell’ultimo dei suoi studi, l’esperta ha scoperto che le donne tendono a voler essere sicure che il partner sia disposto a condividere equamente il carico familiare prima di decidere di avere figli. A riportarlo è The 19th*, una testata statunitense indipendente e non profit che si occupa di genere, politica, politiche pubbliche e potere.
“Perché mettere al mondo un bambino, se questo significa rinunciare al proprio reddito futuro, alla sicurezza personale e a quella del bambino?”, ha osservato la docente durante un evento in cui ha presentato i risultati della ricerca.
I tassi di natalità sono in calo in tutto il mondo e, secondo Goldin, ogni volta questo fenomeno è seguito ai progressi compiuti dalle donne in materia di occupazione, istruzione e diritti riproduttivi. Però, sostiene l’economista, non è l’autonomia finanziaria femminile la causa principale del crollo delle nascite. Il vero nodo è il tipo di sostegno — o la mancanza di esso — che le donne ricevono dagli uomini.
Le vere ragioni della crisi di fecondità nel mondo, e in Italia
“Anche se il principale fattore del calo della fertilità è l’aumento dell’autonomia femminile, il vero ostacolo resta la necessità che mariti e padri dimostrino in modo affidabile il proprio impegno”, ha scritto Goldin.
A suo giudizio, altre politiche come servizi per l’infanzia pubblici o congedi parentali retribuiti potrebbero contribuire a migliorare i tassi di natalità, come avvenuto in Danimarca, Francia, Germania e Svezia. Tuttavia, l’impatto di queste politiche non sarebbe maggiore di quello derivante da una più equa condivisione dei compiti da parte degli uomini. Come sottolinea Goldin, il Giappone offre già un’ampia copertura per i trattamenti di fertilità e più di 30 settimane di congedo di paternità retribuito. Eppure i suoi tassi di natalità restano tra i più bassi al mondo.
Lo studio: il confronto tra Paesi
Lo studio di Goldin ha confrontato due gruppi di Paesi. Il primo — che comprende Danimarca, Francia, Germania, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti — mostra tassi di natalità relativamente bassi, in calo già da diversi decenni.
Il secondo — che comprende l’Italia, insieme a Grecia, Giappone, Corea del Sud, Portogallo e Spagna — registra i livelli di natalità più bassi al mondo, crollati bruscamente negli ultimi anni. In questi contesti, dove la modernizzazione economica è più recente e le norme di genere non si sono ancora allineate ai cambiamenti sociali, le donne tendono a rimandare o rinunciare del tutto alla maternità se non trovano un partner disposto a condividere i compiti domestici.
Poche nascite e meno figli per donna: per l’Italia il futuro a bassa fecondità è già qui
I dati parlano chiaro: in Giappone e in Italia le donne dedicano circa tre ore al giorno in più degli uomini ai lavori domestici e alla cura dei familiari. In Svezia e in Danimarca, la differenza si riduce a 0,8 e 0,9 ore rispettivamente. In Corea del Sud — il Paese con il tasso di natalità più basso al mondo — le norme di genere restano talmente rigide e la divisione del lavoro così squilibrata che molte donne hanno iniziato a rifiutare matrimonio e maternità.
Diverso il quadro nei Paesi del primo gruppo dove le trasformazioni culturali hanno accompagnato per decenni la modernizzazione economica. Tra questi Stati ci sono anche gli Stati Uniti, cui Goldin dedica maggiore attenzione.
Il caso degli USA
Negli Stati Uniti d’America i tassi di natalità hanno iniziato a calare in modo più marcato dopo la Grande Recessione del 2007, spinti in parte dalle donne con istruzione universitaria che hanno rinviato la maternità. Tra le giovani di età compresa tra i 20 e i 24 anni, il tasso di natalità è passato da 106,3 nascite ogni 1.000 donne nel 2007 a 56,7 ogni 1.000 nel 2024.
Le donne americane hanno fatto il loro ingresso massiccio nel mercato del lavoro già dagli anni Settanta e, dal 2000, rappresentano circa la metà della forza lavoro. Parallelamente, anche gli uomini statunitensi hanno cominciato a farsi carico di una parte maggiore dei compiti domestici: il divario si riduce di anno in anno, pur non essendo ancora colmato del tutto.
Dagli Usa all’Italia, come la natalità è diventata il nuovo terreno di scontro politico
Lo scorso anno, ad esempio, l’87% delle donne e il 74% degli uomini ha dichiarato di aver dedicato parte della giornata ad attività domestiche. Nelle famiglie con figli sotto i sei anni, le donne hanno trascorso in media un’ora in più al giorno rispetto agli uomini nella cura dei bambini. Un decennio prima, nel 2014, solo il 65% degli uomini affermava di svolgere lavori domestici.
Che fare?
Negli Stati Uniti, lo scorso anno i tassi di natalità hanno toccato un minimo storico e il tema demografico è sempre più terreno di scontro politico. Il presidente Donald Trump ha dichiarato di voler assistere a un “baby boom” e ha proposto di istituire una “medaglia alla maternità” per le madri con sei o più figli, mentre il vicepresidente J.D. Vance ha criticato le donne che non fanno figli indicandole come “gattare senza figli”.
Gran parte di queste argomentazioni scarica il peso della soluzione sulle donne, spingendole a lasciare il lavoro per concentrarsi sulla maternità. Ciò che gli uomini stanno facendo — o non facendo — non entra quasi mai nel dibattito pubblico.
Eppure, la soluzione non può essere semplicemente cancellare i progressi ottenuti. Basandosi sui studi Goldin sostiene che negli USA “invertire il cambiamento progressista potrebbe avere l’effetto opposto e abbassare ulteriormente il tasso di natalità”.