Il 20 dicembre scorso, presso la sede romana dell’Istat, è stato presentato il quarto Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile in Italia. L’obiettivo di questo articolato lavoro è quello di raccontare la realtà attraverso nuovi indicatori, catturando le sfumature della complessità dello sviluppo economico e del progresso sociale dell’Italia, con un occhio rivolto in particolare al tema della sostenibilità, sia essa economica, sociale o ambientale.

Il Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (BES) fa parte di un progetto più ampio, nato da un’iniziativa congiunta del Cnel e dell’Istat, che si propone di misurare il benessere equo e sostenibile in Italia. Lo scopo principale del BES è quello di creare uno strumento, alternativo al Pil, in grado di stimare correttamente la condizione economica, sociale e politica del nostro Paese.

Il Rapporto BES, quindi, può essere inquadrato all’interno del dibattito sul superamento del Pil. Da diversi anni, infatti, sempre più soggetti hanno iniziato a sostenere che il solo Pil non può più essere considerato come l’unico strumento di valutazione della condizione di sviluppo sociale e economico del Paese. Ciò che si sostiene è che il Prodotto Interno Lordo, per sua natura, non sia più in grado di descrivere un quadro socio-economico sempre più complesso come quello attuale. Una delle critiche più ricorrenti è che la visione eccessivamente economicista del Pil, che a sua volta è fortemente condizionata da alcune lacune dell’indicatore – come, ad esempio, la mancanza di una misura inerente alla distribuzione del reddito all’interno della società e quindi di una misura in grado di valutare l’equità all’interno del paese – non permetta di fotografare la reale condizione di vita delle diverse popolazioni.

Per queste ragioni, l’adozione di strumenti come il BES – in grado di integrare le stime del PIL – può rappresentare un passo importante per la comprensione della situazione reale del nostro Paese e, di conseguenza, per la realizzazione di politiche attive più efficaci.

Le novità del Rapporto 2016

La metodologia utilizzata per la realizzazione del Rapporto si basa sull’individuazione di indicatori – definiti “domini” – in grado di fornire dati attendibili su sviluppo (non solo economico) e sulle diseguaglianze. I domini utilizzati sono 12 e riguardano: salute, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, ricerca e innovazione, qualità dei servizi. Come si può notare, quindi, l’approccio del BES ha molte analogie con quello utilizzato dalle Nazioni Unite per la realizzazione dell’Agenda 2030 (cioè dell’Agenda globale per lo sviluppo sostenibile).

Rispetto alle edizioni precedenti, il Rapporto di quest’anno presenta alcune importanti novità. La prima riguarda l’inclusione degli indicatori del benessere equo e sostenibile tra gli strumenti di programmazione e valutazione della politica economica nazionale, come previsto dalla riforma della Legge di Bilancio entrata in vigore nel settembre scorso.

Tale normativa prevede la costituzione di un Comitato deputato a selezionare indicatori utili alla valutazione del benessere e la redazione da parte del Ministero dell’economia e delle finanze di due documenti sulla base dei dati forniti dall’Istat. Mentre il primo, allegato al Documento di Economia e Finanza, descrive l’andamento nell’ultimo triennio degli indicatori di benessere e in cui si tracciano le previsioni sulla loro evoluzione, il secondo, da presentare al Parlamento entro il 15 febbraio di ogni anno, esamina tali indicatori sulla base degli effetti determinati dalla legge di bilancio per il triennio in corso. Con questo nuovo impianto normativo, quindi, la selezione ex-ante dei problemi principali del Paese e le valutazioni ex-post dell’efficacia delle azioni dei governi saranno realizzate sulla base non più solo dell’indicatore Pil, ma anche di tutti gli altri indicatori.

La seconda rilevante novità è rappresentata dall’approvazione da parte delle Nazioni Unite dell’Agenda 2030, l’Agenda globale per lo sviluppo sostenibile, e dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs nell’acronimo inglese), organizzati in un sistema di 169 target e oltre 200 indicatori, con i quali sono delineate a livello mondiale le direttrici dello sviluppo sostenibile dei prossimi anni, cui il rapporto fa ampio riferimento.

Attraverso il rapporto, quindi, l’Italia si presenta con le carte in regola per partecipare a pieno titolo al dibattito avviato in sede Onu su queste tematiche. Ma quale è lo stato di salute dell’Italia, in termini di risultati dei singoli indicatori contenuti nel Rapporto BES? Di seguito vi proponiamo un approfondimento su alcuni di essi, legati in particolare al welfare, che ci consegnano uno spaccato interessante Bel Paese.


Salute e speranza di vita

Il capitolo del Rapporto BES dedicato alla salute descrive un 2015 in cui l’Italia si presenta tra i Paesi più longevi d’Europa: la speranza di vita alla nascita è di 82,3 anni anche se si osserva una leggera riduzione della vita media alla nascita, dovuta a una combinazione di oscillazioni demografiche e di fattori congiunturali di natura epidemiologica e ambientale. Nonostante la flessione, però, non si registrano diminuzioni significative dei valori che descrivono la qualità degli anni da vivere in buona salute.

Gli indicatori di mortalità per singola causa monitorati nel BES, hanno mostrato segnali di miglioramento ed è stato confermato il trend di riduzione della già bassa mortalità infantile (3 decessi nel primo anno di vita per 1.000 nati vivi), della mortalità per incidenti stradali dei giovani, soprattutto tra i maschi, nonché della mortalità per tumori maligni tra gli adulti. Sulla medesima linea anche i dati relativi alla mortalità per demenze e malattie del sistema nervoso tra gli anziani, che tornano a diminuire dopo l’incremento osservato nei due anni precedenti. Quest’ultimo è un dato particolarmente positivo se si considera il carico assistenziale che queste patologie comportano sulle famiglie e sui servizi socio-sanitari.

Come si diceva, l’Italia continua ad essere tra i paesi più longevi in Europa con un vantaggio di oltre due anni di speranza di vita rispetto alla media europea (80,9 anni). Tuttavia l’elevata longevità spesso non è accompagnata da buone condizioni di salute: nel nostro Paese infatti la speranza di vita senza limitazioni nelle attività a 65 anni – indicatore che esprime il numero medio di anni che una persona di 65 anni può aspettarsi di vivere senza subire limitazioni nelle attività per problemi di salute – è di circa un anno inferiore alla media europea (8,6 anni per entrambi i generi) ed è simile a quella di Grecia, Slovenia e Austria (Figura 1). Alcuni Paesi del Nord Europa (quali Svezia, Irlanda, Danimarca, Lussemburgo), ai quali si aggiunge Malta, presentano invece livelli più elevati. 

Figura 1. Speranza di vita senza limitazioni nelle attività a 65 anni nei paesi dell’UE – Anno 2014Fonte: Rapporto BES 2016

Grazie ai dati contenuti nell’indagine sulla salute EHIS (European Health Interview Survey) è stato possibile, inoltre, per la prima volta, monitorare, anche all’interno del Rapporto BES, alcuni aspetti rilevanti della salute mentale e confrontare tra loro i Paesi europei. Tale novità acquisisce ancor più importanza se letta nell’ottica di quanto indicato nel cosiddetto Piano di Azione europeo per la salute mentale 2013-2020, nel quale si fa riferimento alle attività da mettere in campo per contrastare i disturbi mentali che generano un elevato carico di malattia e di cura. I disturbi mentali hanno un forte impatto sulla qualità della vita, sia del malato sia dei suoi familiari, e possono ridurre la capacità lavorativa e di reddito, generando una maggiore esposizione al rischio di povertà. Tra i disturbi mentali più diffusi nella popolazione si annoverano la depressione e i disturbi d’ansia. Uno degli indicatori disponibili per il confronto a livello europeo della prevalenza di disturbi depressivi è quello derivante dalla somministrazione del questionario PHQ8 (Personal Health Questionnaire Depression Scale), utilizzato per lo screening dei sintomi depressivi. Nel confronto europeo, l’Italia appare in posizione favorevole: la percentuale di persone sopra i 15 anni con disturbi depressivi è pari al 4,3% a fronte di una media europea del 6,8% (Figura 2). Eccezion fatta per la Finlandia, i disturbi depressivi si confermano essere più diffusi tra le donne: per l’Italia la stima si attesta al 5,3% tra le donne e al 3,3% tra gli uomini



Figura 2. Percentuale di persone di 15 anni e più con disturbi depressivi – Anno 2014Fonte: Rapporto BES 2016

Il lavoro e la conciliazione dei tempi di vita

I dati degli indicatori BES che fanno riferimento alle condizioni del mercato del lavoro dicono che il divario di genere, diminuito negli anni della crisi a seguito della maggiore caduta dell’occupazione nei comparti a prevalenza maschile, è tornato a crescere restando tra i più alti d’Europa. Anche la qualità del lavoro è inferiore per le donne, più spesso occupate nel terziario in professioni a bassa specializzazione (in particolare le straniere).

In particolare, l’indicatore che misura i tassi di occupazione delle donne con figli in età prescolare e quelle senza figli richiama l’attenzione sull’importanza delle reti di sostegno alle famiglie, di natura pubblica, privata e informale. In questo senso, sembra persistere un consistente divario tra coloro che, in assenza di un sostegno di natura pubblica, possono rivolgersi al settore privato (nidi o baby sitter) o a reti di assistenza informale (nonni e parenti).

Sebbene i problemi di conciliazione tra vita e lavoro restino rilevanti soprattutto per le donne con basso titolo di studio e per le straniere, c’è da segnalare il dato positivo legato alla riduzione delle differenze tra i tassi di occupazione delle donne con figli in età prescolare e quelle senza figli. Nello specifico, i dati del BES 2016 dicono che il rapporto tra il tasso di occupazione delle donne tra i 25 e i 49 anni con figli in età prescolare e quelle senza figli è pari a circa il 78%, in crescita rispetto al 2014 seppur con minore intensità sull’anno precedente (+0,3 punti e +2,1 punti). Il miglioramento dell’indicatore ha riguardato esclusivamente le donne italiane (+0,3 punti), mentre è peggiorata la condizione delle straniere (-0,2 punti). Nel 2015 le donne straniere con figli piccoli occupate sono poco più della metà delle coetanee senza figli (51% contro 82,3% delle italiane).

La disparità di genere riguarda anche la tradizionale asimmetria nella ripartizione del lavoro familiare, seppur in lieve diminuzione negli ultimi anni. La percentuale del carico di lavoro familiare svolto dalla donna (25-44 anni) sul totale del carico di lavoro familiare della coppia in cui entrambi sono occupati, diminuisce dal 71,9% del biennio 2008-2009 al 67% nel 2013-2014. Peraltro, le donne presentano anche una maggiore quota di sovraccarico tra impegni lavorativi e familiari: più della metà delle donne occupate (54,1%) svolge oltre 60 ore settimanali di lavoro retribuito e/o familiare (a fronte del 46,6% per gli uomini).


La qualità dei servizi

Strettamente collegato alle condizioni lavorative e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro c’è il tema della qualità dei servizi. Prendendo in esame soprattuto i dati relativi all’offerta di servizi sociali e socio-sanitari – sia quelli destinati alla popolazione anziana sia quelli offerti alle famiglie con bambini – continua ad emergere anche nel rapporto del 2016 una forte eterogeneità. Ad esempio, l’offerta di posti letto di natura residenziale si è stabilizzata da alcuni anni (tra il 2011 e il 2013 la dotazione di posti letto varia tra le 384 e le 387 mila unità, circa 6,5 posti letto ogni 1.000 abitanti). A fronte della stabilità di questi dati, invece, l’assistenza domiciliare integrata (ADI) erogata in favore delle persone di età superiore ai 65 anni ha avuto un leggero incremento tra il 2012 e il 2013, in linea con la tendenza generale degli ultimi anni (dal 2004 al 2013 si è passati da 3 a 5 anziani assistiti ogni 100).

Seppur a piccolissimi passi quindi l’integrazione tra assistenza sociale e assistenza sanitaria – che rappresenta uno dei punti qualificanti della riforma del 2000 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) – sta andando verso una direzione coerente con la strategia d’azione che è alla base.

Sempre in tema di offerta di servizi pubblici rivolti alle famiglie, quella dei servizi socio-educativi per la prima infanzia continua a diminuire, confermando un andamento in atto già dal 2011. Nell’anno scolastico 2013/2014 i bambini fino a 2 anni accolti in asili nido e in servizi integrativi comunali o finanziati dai Comuni sono stati quasi 207.000, circa 3.400 in meno rispetto all’anno scolastico precedente (Figura 3). In rapporto al potenziale bacino di utenza, gli utenti dell’offerta comunale complessiva rappresentano una percentuale piuttosto bassa e in lieve diminuzione, dal 13% al 12,9% dei bambini sotto i tre anni. 

Figura 3. Percentuale di bambini di 0-2 anni che hanno usufruito dei servizi per l’infanzia (asili nido o servizi integrativi) – Anni 2013/2014Fonte: Rapporto BES 2016

Dal punto di vista del tipo di gestione, l’offerta pubblica di asili nido si esplica prevalentemente nei nidi comunali, dove risultano iscritti quasi 146.000 bambini. Gli utenti dei nidi privati convenzionati sono circa 31.000, di cui circa 14.500 beneficiano dei contributi dati dai Comuni alle famiglie per la frequenza di asili nido pubblici o privati (compresi i voucher). I bambini iscritti nei nidi comunali rappresentano l’85% dei posti disponibili nel settore pubblico, mentre gli utenti dei nidi privati convenzionati con i comuni corrispondono al 19% dei posti autorizzati al funzionamento nel settore privato.

Anche la spesa corrente impegnata dai Comuni per questi servizi risulta in calo, l’importo complessivo della compartecipazione a carico delle famiglie è rimasto invece invariato. La conseguenza è un aumento della quota sostenuta dagli utenti sulla spesa complessiva per gli asili nido, che nell’arco di dieci anni è passata dal 17,5% al 20%.


Il benessere economico

Un altro dominio considerato dal Rapporto dell’Istat è quello del benessere economico, nel quale sono misurati il livello di reddito disponibile e la ricchezza pro capite. Secondo i dati mostrati dal Rapporto, mentre il livello di reddito disponibile pro capite in Italia è di poco inferiore alla media europea, il grado di disuguaglianza è decisamente più marcato: il rapporto tra il reddito posseduto dal 20% della popolazione con i redditi più alti e il 20% con i redditi più bassi è pari nel 2015 a 5,8 in Italia, contro una media europea di 5,2. Questa elevata disuguaglianza nella distribuzione del reddito determina anche alti livelli di rischio di povertà.

Tra i paesi che hanno aderito all’UE prima degli anni duemila, solo Spagna, Grecia e, per alcuni indicatori, Portogallo mostrano un benessere economico inferiore a quello italiano. La moderata crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto, a cui ha contribuito la frenata della dinamica inflazionistica, ha favorito nel biennio 2014-15 un lieve recupero della spesa per consumi. Le forme di indebitamento, che avevano caratterizzato il comportamento di consumo negli anni più difficili, si sono in parte alleggerite con una conseguente diminuzione della vulnerabilità finanziaria delle famiglie: tra quelle con minori livelli di ricchezza è diminuito sia il numero degli indebitati sia la loro esposizione media.

Il miglioramento osservato, tuttavia, non ha modificato la disuguaglianza reddituale e non si è tradotto in una diminuzione dei livelli di povertà. Nel 2015 la povertà assoluta ha raggiunto il valore più elevato dal 2005 coinvolgendo 4 milioni e mezzo di persone, in particolare coppie con due figli e famiglie di stranieri. L’Italia, con il 19,9% della popolazione a rischio di povertà, si colloca al di sopra della media europea per 2,6 punti percentuali. Valori del tutto simili si registrano in Portogallo e Grecia, dove tuttavia il valore della linea di povertà è poco più della metà di quello italiano (rispettivamente 5.061e 4.512 euro contro i 9.508 euro dell’Italia); in Spagna la quota sale al 22,1%, con una linea di povertà di 8.011 euro (Figura 4). 

Figura 4. Rischio di povertà con relativa soglia (reddito anno precedente) e povertà assoluta – Anni 2010-2015Fonte: Rapporto BES 2016


Non migliorano neanche i dati relativi alla grave deprivazione materiale
(data dal manifestarsi di quattro o più sintomi di disagio economico su un elenco di nove), che coinvolge, come nel 2014, oltre un decimo della popolazione. Circa l’11,5% della popolazione residente in Italia è gravemente deprivata, con una quota sensibilmente inferiore solo a quella registrata in Lettonia (16,4%), Ungheria (19,4%), Grecia (22,2%), Romania (22,7%) e Bulgaria (34,2%). Questo aumento si contrappone alla diminuzione dell’incidenza di chi dichiara di non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione o di non potersi permettere una settimana di ferie all’anno lontano da casa (anche grazie all’andamento dei prezzi, in leggero calo rispetto all’anno precedente). Le condizioni di difficoltà risultano particolarmente diffuse nella popolazione residente nel Mezzogiorno, nelle famiglie con minori a carico, nei giovani e negli stranieri che, nel 2015, continuano a mostrare segnali di peggioramento in termini di povertà e deprivazione.


L’associazionismo e le reti informali

Infine appare interessante segnalare alcuni dati inerenti l’associazionismo e le reti informali, che non solo influiscono sul benessere psicofisico dell’individuo ma rappresentano una forma di “investimento” in grado di rafforzare gli effetti del capitale umano e sociale.

Rispetto agli altri Paesi europei, l’Italia presenta livelli inferiori a quelli medi rispetto alla soddisfazione per i rapporti interpersonali (solo il 22,5% delle persone di 16 anni e più esprime un’elevata soddisfazione per i rapporti personali con parenti, amici e colleghi). Per quel che riguarda la “possibilità di ottenere il sostegno di parenti, amici o vicini nel momento del bisogno”, l’85,6% della popolazione di 16 anni e più ha dichiarato di avere parenti, amici o vicini di casa a cui chiedere aiuto morale, materiale o economico in caso di bisogno , mentre la media europea è 93,3%.

La fiducia negli altri è invece in linea con la media europea, ma comunque piuttosto contenuta (5,7 – su una scala da 0 a 10 – rispetto ad una media europea appena superiore e pari a 5,8). Rimangono stabili infine anche altri indicatori relativi al sistema delle reti informali, così come rimane sostanzialmente invariata la quota di popolazione che dichiara di poter contare sulla propria rete potenziale di aiuto, di avere finanziato associazioni e di avere svolto attività di volontariato.

Riferimenti

Istat (2016), Il benessere equo e sostenibile in Italia, Roma