4 ' di lettura
Salva pagina in PDF

È appena iniziata un’altra fase durissima da affrontare, con il virus che non accenna a indebolirsi ed un nuovo ciclo di blocchi e restrizioni che rischia di durare per mesi.

Se la prima ondata era stata affrontata con eroico entusiasmo, anche da chi ha dovuto stringere i denti per riuscire ad attraversare il guado, oggi è forse lo sconforto ad occupare lo spazio maggiore. Perché non si sa quando ne usciremo, la luce in fondo al tunnel si fa sempre più fioca e, soprattutto, comincia a farsi largo un senso di totale inadeguatezza.

L’imperativo della prima ondata, a marzo-aprile, era di tenere duro per tornare alla normalità, per riaprire al più presto fabbriche e luoghi della produzione, per riprendere a far funzionare la macchina inceppata. La corsa verso la riapertura è stata scandita, insomma, da questa retorica del ripristino, del ritorno, del riavvolgimento del nastro. La pandemia, dentro questa narrazione, era qualcosa da cancellare, un esubero da cui non si poteva cavare nulla – o quasi – di buono. Bisognava annichilirlo in fretta e tornare all’ordinario: anche la maggior parte di coloro che non avevano del tutto a genio la normalità precedente erano convinti che fosse quello, in ogni caso, il terreno su cui giocare le partite importanti per costruire, eventualmente, delle alternative, e che la pandemia fosse solo una parentesi da chiudere in fretta.

Oggi l’umore sembra essere in parte cambiato. Lo slancio collettivo dell’estate è andato a schiantarsi rovinosamente, e il virus sembra mettere radici più salde, descrivendo un orizzonte dal fiato più lungo, con spiragli di uscita sempre più radi e meno nitidi. L’emergenza sembra imporre una condizione: se si vuol progettare un futuro oltre lo sconforto, la mancanza e le difficoltà, è necessario farlo dentro il tempo che stiamo vivendo, in questa condizione di vulnerabilità e finitezza, senza fughe consolatorie in altri mondi ideali, che possono far presa solo sulla nostra testa. È con il nostro tempo, insomma, che dobbiamo fare i conti.

E bisogna ammettere che i mondi descritti dal virus non sono sempre feudi al servizio della privazione e della dipendenza. Se alcuni si stanno affannando, ormai da mesi, a recriminare sull’attacco alle libertà, c’è chi ha costruito, dentro l’emergenza, nuove possibilità di convivenza. Basti pensare ad associazioni, movimenti sociali, cittadini attivi, che stanno mettendo in campo esperienze di mutualismo e di solidarietà, sperimentando nuove possibilità dentro la relazionalità “a distanza” tracciata dal virus. Sono molti, ad esempio, i “patti di collaborazione” fra cittadini e amministrazioni pubbliche per l’inclusione sociale promossi da Labsus, il Laboratorio per la sussidiarietà, nel bel mezzo della pandemia.

Ma anche alcuni pezzi importanti di mercato hanno riconfigurato parte della loro progettualità e delle loro coordinate. Senza considerare l’impegno ingente proveniente dal mondo delle fondazioni, che già avevano nell’inclusione sociale uno dei propri obiettivi cardine (basti pensare alle risorse indirizzate, in questi anni, al sostegno del “welfare di comunità”, per favorire il protagonismo delle comunità territoriali nella risposta ai bisogni sociali), tante sono le start up, le iniziative imprenditoriali e le forme di cooperazione sociale, nate negli ultimi mesi, finalizzate a rispondere a vecchie e nuove forme di vulnerabilità, attraverso modalità inclusive e partecipate.

Insomma, il Covid non è stato vissuto sempre e solo come una minaccia all’ordine precedente. C’è chi sta vedendo in questa fase l’occasione per assumere i limiti di quella normalità e per produrre, dentro le contraddizioni in cui viviamo, nuovi varchi per aprirsi ad altre forme di vita e possibilità. Del resto, la finitezza non è una condizione temporanea, che dura il tempo di un’emergenza, ma è lo stato a noi connaturato in cui siamo chiamati a vivere. Allontanarsi dalla barbarie, allora, significa assumere questa finitezza come la posta in gioco per creare un mondo in cui tutti possano essere protagonisti, e non solo i più forti.

Durante la pandemia si sono aperte delle crepe. Dentro quel mondo che credevamo inscalfibile si stanno creando esperimenti, laboratori, piccoli pezzi di un nuovo mondo, che non sempre ha il sapore di un surrogato di quello vecchio. Delle volte sembra indicarci un’altra strada possibile. A condizione, però, che anche la politica abbia il coraggio di sostenere questi mondi.

Più che pensare a tappare i vuoti e le mancanze della normalità precedente, che la pandemia ha semplicemente rivelato ed esaltato, è forse possibile allargare lo sguardo e sostenere la possibilità concreta, da parte delle persone, di generare nuove prassi. Ad esempio con un sostegno universale al reddito che, dentro la fase durissima che si sta aprendo, permetta a tutti di vivere dignitosamente. E poi incoraggiando la produzione di solidarietà, ad esempio assumendo il welfare come “bene comune”, a cui cittadini attivi, associazioni, terzo settore, pezzi di mercato etc. possano contribuire.

Dentro questo nuovo spazio possono darsi i presupposti per un altro orizzonte, in cui ciascuno possa sperimentare su se stesso la possibilità di un’attitudine diversa nei confronti degli altri e del mondo, orientata alla reciprocità e alla cooperazione. Per questo, però, non basta spalleggiare il ritorno alla normalità. Bisogna scommettere sull’imprevedibilità della libertà delle persone, dare fiducia a quella parte di noi che è stata troppo a lungo soffocata.

Perché la libertà prima del Covid, che tutti oggi rimpiangiamo, era una libertà sicura, piena di sè, inscalfibile, e forse proprio per questo così povera, ristretta, quasi bloccata. Era già compiuta, non sembrava non aver più nulla da esprimere. C’è adesso la possibilità di dare fiato ad un’altra libertà, che ha già provato il carattere impermanente di tutto ciò che ci sta intorno, finanche di noi stessi, e che per questo può trovare il coraggio di rimettere tutto in discussione, di mettersi a nudo e fare il vuoto, per iniziare tutto da capo. 


Questo articolo è stato pubblicato il 6 novembre sul sito de
 L’Espresso ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore.