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Più di metà delle persone immigrate in Europa sono donne. La prevalenza femminile è particolarmente forte in Italia dove gli uomini costituiscono solo il 45% della popolazione immigrata, come ci racconta il Sesto Rapporto annuale dell’Osservatorio sulle migrazioni del Collegio Carlo Alberto e del Centro Studi Luca d’Agliano.

Come ricordato anche da Openpolis, in Italia il lieve ma costante aumento della presenza femminile si è verificata a partire dal 2006. Sono soprattutto alcune nazionalità dal Sud Est asiatico e dall’Est Europa ad aver sviluppato un’immigrazione per lo più femminile: parliamo di chi viene dalle Filippine, dalla Thailandia, dalla Romania, dalla Bielorussia e dall’Ucraina che, come sappiamo, oggi vive il drammatico esodo dalla guerra (flusso composto quasi esclusivamente da donne e bambini).

Una nuova sensibilità sui temi migratori

Negli ultimi otto anni, e a partire dal picco degli sbarchi del 2014-2016, il dibattito sulle migrazioni in Italia si è concentrato sul sistema di accoglienza di richiedenti asilo, correndo talvolta il rischio di dimenticare che questi ultimi hanno pur sempre costituito una piccola componente della popolazione straniera in Italia, Paese nel quale le politiche di integrazione rivolte alla popolazione immigrata nel suo complesso non sono mai veramente decollate (si veda per una ricostruzione del dibattito questo articolo).

La pandemia ha da un lato peggiorato le condizioni di vita e di lavoro degli immigrati nel nostro Paese, dall’altro ha fatto scivolare via dall’agenda politica e mediatica l’intera questione. Oggi però gli sconvolgimenti dovuti all’irrompere della guerra nel cuore dell’Europa hanno riportato la questione dell’accoglienza in primo piano.

Oltre a seguire con partecipazione e attenzione ciò che sta avvenendo, è fondamentale riflettere sull’attuale stato di salute dell’integrazione nel nostro Paese e non perdere di vista il quadro più generale delle condizioni di vita e di lavoro della popolazione immigrata. Per farlo, può essere utile partire dalle condizioni di vita e di lavoro di quella componente della popolazione immigrata che, fino a ieri, non ha avuto il posto che merita nel dibattito pubblico: le donne straniere.

Ed è tanto più importante se partiamo dal presupposto che in Italia le donne, nel loro complesso, vivono un forte svantaggio nell’accesso al lavoro. Ciò avviene anche a dispetto del livello di istruzione (si veda sull’argomento questo articolo), a cui si somma il peso dei compiti di cura che ancora oggi ricadono quasi interamente sulle donne (come vi abbiamo raccontato qui), anche in ragione di stereotipi di genere che tardiamo a superare. Dunque, in un Paese in cui il divario di genere nell’accesso al lavoro è particolarmente significativo e al di sopra della media europea, è interessante chiedersi in che misura questo riguardi anche la popolazione straniera e in più in generale quale siano le condizioni di vita e di lavoro delle donne straniere.

Il “doppio svantaggio” delle donne immigrate

Il Sesto Rapporto annuale dell’Osservatorio sulle migrazioni ci spiega che in Italia il divario di genere nel trovare un’occupazione è ancora più elevato per la comunità immigrata. Come riassumono Tommaso Frattini e Irene Solmone su lavoce.info, ciò avviene anche a livello europeo. Tuttavia, in Italia il divario di genere – sia tra i nativi che tra gli immigrati – è superiore alla media europea. Inoltre, il gender gap tra gli immigrati è salito da 24 a 28 punti percentuali negli ultimi cinque anni.

Se si confronta la differenza, in termini di accesso al lavoro, tra native e immigrate del nostro Paese con quella di altri Paesi europei, come Germania e Svezia, questa è apparentemente più ridotta. Ma questo avviene solo perché anche il tasso di occupazione delle italiane è tra i più bassi in Europa. Dunque, se la condizione delle donne in Italia è critica, quella delle donne straniere è particolarmente critica. Per dirla in breve, nel 2020 solo una donna straniera su due lavorava.

 

 

Perché? Come ricordato da Openpolis, le straniere sono più esposte alla disoccupazione rispetto alle italiane, ma a fare la differenza è soprattutto il tasso di inattività, che indica il rapporto tra le persone non appartenenti alle forze lavoro e la popolazione di riferimento ovvero chi non è occupato ma non è in cerca di lavoro.

Questo è molto alto tra le donne, ma è anche molto basso tra gli uomini stranieri rispetto agli uomini italiani e quindi la differenza di genere appare particolarmente marcata. Anche tra gli italiani, in realtà, si osserva una tendenza simile: le donne sono più inattive rispetto agli uomini. Nel caso degli stranieri, però, la differenza di genere risulta particolarmente forte. Vi sono, da questo punto di vista, importanti differenze a seconda del Paese di provenienza. Il tasso di inattività è particolarmente alto tra le donne che provengono da Paesi meno secolarizzati e più tradizionalisti nella ripartizione dei ruoli familiari (come il Nord Africa o il Pakistan), e ciò si lega anche ai motivi della scelta di migrare, al tipo di catena migratoria (diverso il caso dei ricongiungimenti familiari da quello delle donne che emigrano per lavoro e spesso senza nucleo familiare al seguito).

 

 

Una particolare attenzione merita il tema delle giovani straniere. I disoccupati e inattivi di età compresa tra i 15 e i 34 anni  non inseriti in un percorso di studio o di formazione costituiscono il gruppo dei cosiddetti NEET (not in employment, education, or training): una condizione di alienazione dal mondo del lavoro che ha effetti a lungo termine spesso molto severi. Le giovani migranti sono particolarmente esposte a questa condizione, per fattori legati a stereotipi di genere presenti nella cultura di origine e in quella di arrivo, oltre che per la condizione di svantaggio rappresentata dall’essere straniera.

Lavoratrici povere, soprattutto nell’ambito domestico

Negli ultimi mesi in Italia è cresciuto il dibattito sui working poor, espressione tradotta solitamente con l’italiano “lavoratori poveri” (ne abbiamo parlato qui e qui). Sarebbe opportuno iniziare a declinare anche al femminile questa definizione, perché buona parte del lavoro povero riguarda lavoratrici, e spesso lavoratrici straniere. Infatti, quando le donne straniere lavorano, lo fanno in una condizione di svantaggio salariale.

Le ragioni del loro svantaggio derivano in modo importante dalla concentrazione in alcuni segmenti del mercato del lavoro, in particolare nel lavoro domestico e di cura, e solo in misura ridotta dalle caratteristiche individuali (come il livello di istruzione). Come evidenziato dal 31° Dossier Statistico dell’Immigrazione, più della metà delle lavoratrici straniere si concentra in tre occupazioni: collaborazioni domestiche, le cosiddette “badanti” e le addette alle pulizie. Nel complesso il 39,7% è occupata nel settore domestico e di cura.

Come si legge nel III Rapporto sul lavoro domestico in Italia (di cui abbiamo parlato qui), il settore domestico impiega oltre 2 milioni di lavoratori, più della metà in nero. I lavoratori domestici regolari sono oltre 920 mila (dati INPS 2020), in aumento rispetto all’anno precedente (+7,5%). Il settore è caratterizzato da una forte presenza straniera (68,8% del totale), soprattutto dell’Est Europa, e da una prevalenza femminile (87,6%), nonostante l’aumento della componente maschile e di quella italiana. Il lavoro domestico rimane il settore con la maggiore presenza di “lavoro nero” (tasso di irregolarità 57,0%, dati ISTAT 2019), ben al di sopra rispetto alla media di tutti i settori (12,6%). Ciò significa che i 920 mila lavoratori registrati all’INPS rappresentano meno della metà del totale, che supera come detto i 2 milioni.

 

 

Per la gestione dei lavoratori domestici, le famiglie italiane nel 2020 hanno speso un volume complessivo di 14,9 miliardi. L’impegno dei datori di lavoro domestico si traduce inevitabilmente in un risparmio per le casse pubbliche, rendendo di fatto le famiglie veri e propri attori di welfare. Il risparmio per lo Stato si può quantificare in 11,6 miliardi (0,7% del PIL), pari a quanto lo Stato dovrebbe spendere se gli anziani accuditi in casa venissero ricoverati in struttura.

Questo settore, così importante per gli equilibri delle famiglie italiane è dunque caratterizzato dalla diffusione di lavoro irregolare, lavoro povero, mancanza di tutele e di continuità lavorativa (come osserva ad esempio Seghezzi in questo articolo). E, come detto, è soprattutto lavoro femminile straniero.

Il bisogno di nuove politiche di integrazione

Le donne straniere vivono dunque doppio svantaggio in quanto donne e in quanto straniere nell’accesso al mercato del lavoro. Quando lavorano sono spesso lavoratrici povere e non per ragioni legate al grado di istruzione, ma per la concentrazione in un segmento del mercato del lavoro caratterizzato da lavoro nero e condizioni di svantaggio salariale.

Bisogna tenerne conto perché ciò è in stretta connessione con la programmazione di politiche che da un lato possano offrire risposta al bisogno di cura delle famiglie italiane (si pensi alla riforma della legge per la non autosufficienza), dall’altra promuovano la regolarizzazione del lavoro di cura e il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori del settore.

È inoltre chiaro che la programmazione delle principali politiche sociali, il contrasto al fenomeno dei NEET, il contrasto al lavoro povero, la promozione di politiche attive del lavoro, non può non tenere conto delle variabili legate all’immigrazione e al genere.