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Accoglienza diffusa cercasi.

In un dibattito pubblico che per settimane è tornato a scaldarsi sul tema migrazione, tra sbarchi e centri per il rimpatrio, l’accoglienza diffusa sembra scomparsa.

Eppure qualcosa, con fatica, si muove.

In provincia di Vicenza, per esempio, il sindaco di Santorso ha promosso una cordata di Comuni per accogliere, prima, le persone in fuga dall’Ucraina e, ora, quelle sbarcate sulle nostre coste durante l’estate. “Tutto è partito nella primavera del 2022, quando ci siamo ritrovati donne e bambini ucraini letteralmente in casa senza sapere dove ospitarli”, racconta il primo cittadino Franco Balzi. Nel giro di pochi giorni, 27 Comuni del vicentino si sono uniti e hanno messo a disposizione 130 posti in appartamenti diffusi sul territorio grazie a un progetto chiamato Tenda di Abramo. Poi, una volta concluso nell’agosto 2023 il percorso per i rifugiati ucraini, il progetto si è riorganizzato e, da settembre, sono cominciate le accoglienze dei migranti arrivati via mare in Italia. “I Comuni che partecipano sono diventati 20 e al momento abbiamo iniziato con circa una cinquantina di persone accolte”, spiega Balzi.

Molti dei Comuni coinvolti, a cominciare da Santorso, avevano già da anni esperienza con il sistema SAI, ma per la Tenda di Abramo non hanno avuto altra scelta che operare nell’ambito dei CAS gestiti dalle Prefetture. Una scelta paradossale, se si guarda a come è organizzato il sistema italiano d’accoglienza.

Un sistema a due gambe

CAS e SAI sono, di fatto, le due gambe su cui si regge il sistema di accoglienza italiano. La seconda dovrebbe essere quella migliore, la cosiddetta accoglienza diffusa, ma la prima è quella che, storicamente, ha sempre ospitato il maggior numero di persone.

I CAS sono, infatti, i Centri di Accoglienza Straordinaria, gestiti dalle prefetture per conto del Ministero dell’Interno, nella maggior parte dei casi senza il coinvolgimento dei Comuni. Solitamente, si tratta di grandi centri, con decine e decine, a volte centinaia, di posti, all’interno dei quali, spiega Fondazione Openpolis che da anni analizza i dati dell’accoglienza, “vengono accolti i richiedenti asilo con servizi ridotti sia rispetto a quanto previsto in precedenza che, a maggior ragione, rispetto al SAI”.

Il SAI, invece, è il Sistema Accoglienza Integrazione (che in passato si è chiamato anche SPRAR1 e SIPROIMI2) è gestito dall’ANCI, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, e la titolarità dei suoi progetti è assegnata agli enti locali che, su base volontaria, attivano e realizzano progetti di accoglienza e integrazione, spesso insieme ad enti gestori del Terzo Settore.

Facendo un’analisi che va dal 2014 ad oggi, Openpolis sottolinea come l’attuale SAI “è sempre stato minoritario, a vantaggio dei Cas, divenuti negli anni di gran lunga maggioritari”.

Le presenze nei centri di accoglienza tra 2014 e 2023, Fonte: Openpolis

A partire dal 2018 questo dualismo è stato al centro di diverse riforme, a volte di segno opposto, che però non hanno mai cambiato l’equilibrio tra i due sistemi. Anzi, gli ultimi provvedimenti del Governo Meloni hanno complicato ulteriormente la situazione. In particolare, il cosiddetto decreto Cutro (Decreto Legge 20/2023, convertito con Legge n.50/2023), tra le varie misure, ha limitato ulteriormente i servizi offerti agli ospiti dei CAS e ha ristretto l’accesso al SAI ai richiedenti asilo.

Con la attuale normativa, l’accoglienza diffusa è prevista solo per i rifugiati (richiedenti asilo che hanno ottenuto una qualche forma di protezione internazionale) e, come spiega il sito Melting Pot, quindi “ai soli cittadini afgani e altri richiedenti protezione internazionale arrivati in Italia con operazioni di evacuazione umanitaria o reinsediamento, ai cittadini ucraini e ai richiedenti vulnerabili”.

“L’idea che accoglienza e integrazione vadano di pari passo fin dal primo giorno è un po’ uscita dal dibattito. Si è tornati a una dissociazione tra questi due concetti”, argomenta padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, il servizio dei Gesuiti per i rifugiati.

In generale, come ha scritto il Centro studi e ricerche IDOS, che da anni pubblica un rapporto dedicato alla migrazione, “preoccupa il passaggio da un modello di accoglienza basato sulla protezione e l’inclusione dei richiedenti asilo a un sistema che ne produce l’isolamento, li considera irregolari e li tratta come un pericolo sociale”.

E il Terzo Settore?

All’interno di questo quadro, cui si aggiunge una riduzione dei contributi giornalieri pagati dallo Stato per l’accoglienza agli enti gestori, come si stanno comportando gli enti di Terzo Settore che, in quanto attori del secondo welfare, hanno storicamente svolto in Italia un ruolo centrale nell’accoglienza?

“Il contesto rende tutto più difficile”, dice Stefano Trovato, vicepresidente del CNCA, il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza cui aderiscono oltre 250 enti. “Una buona accoglienza riescono a farla quelle realtà del Terzo Settore che hanno relazioni forti coi territori e che attivano reti locali per sopperire alle mancanze dettate dalla situazione attuale”, aggiunge, facendo l’esempio dei corsi di italiano che nei CAS non sono più coperti dalle rette pubbliche e vengono spesso garantiti da volontari.

Un’alternativa al volontariato è quella di integrare con fondi ulteriori, raccolti dalle organizzazioni attraverso canali che non siano quelli pubblici. È quello che prova a fare, ormai da qualche anno, CIAC Onlus in provincia di Parma.

Un video racconta le storie di alcuni rifugiati accolti dal Centro Astalli

“Siamo stati tra gli iniziatori dello SPRAR (attuale SAI, nda) e oggi teniamo dritta la barra dell’accoglienza pubblica, integrata e diffusa, in un’ottica di sussidiarietà tra terzo settore ed enti pubblici. E non in un regime di “apartheid” scollegato dal pur fragilissimo welfare locale”, dice Chiara Marchetti, sociologa e responsabile dell’equipe progettazione e ricerca della Onlus. I fondi che CIAC raccoglie vengono usati per sostenere situazioni abitative e servizi aggiuntivi, “in attesa che la situazione torni accettabile”, spiega riferendosi a possibili miglioramenti di un sistema che oggi considera inadeguato.

Qualcosa di simile cerca di farlo anche il Centro Astalli. “Cerchiamo di non far ricadere sulle persone accolte le fluttuazioni legislative che negli anni si sono accumulate”, riprende padre Ripamonti, riferendosi al recente decreto Cutro, ma anche alle precedenti riforme dell’accoglienza decise dai Ministri dell’Interno Matteo Salvini e Luciana Lamorgese, rispettivamente nel 2018 e nel 2020. “Il contesto muta in modo molto repentino e, a volte, imprevedibile. Noi facciamo da ammortizzatore rispetto a questi cambiamenti, aggiunge.

Il Centro Astalli, però, è una realtà storica e molto solida, ben al di sopra della media degli enti del Terzo Settore che operano nel campo dell’accoglienza, che oggi faticano non poco a operare come in passato. “Una capacità economica extra rispetto al pubblico diventa fondamentale, soprattutto se sei un’organizzazione come la nostra che lavora con professionisti assunti a tempo indeterminato”, ragiona Marchetti di CIAC.

Crisi Ucraina: un’occasione persa

Eppure, nonostante tutte le fluttuazioni politiche citate da Ripamonti, nel 2022 una finestra di opportunità per migliorare la situazione sembrava essersi aperta: l’accoglienza di chi arrivava dall'Ucraina in guerra. Per accogliere le persone in fuga dall’invasione russa del Paese, il Governo Draghi aveva decretato uno stato di emergenza e dato mandato alla Protezione civile di gestire la situazione.

Da un lato, anche per il concomitante arrivo delle persone evacuate dall’Afghanistan in seguito al ritorno dei Talebani, vi è stato un ampliamento dei posti SAI. Dall’altro, la Protezione civile ha varato una nuova forma di accoglienza diffusa, che ha dato agli enti del Terzo Settore compiti inediti e più ampi rispetto a quelli dello stesso SAI, con l’idea di sfruttare al meglio la grande disponibilità all’accoglienza mostrata dalla società civile.

Quest’ultimo, secondo Trovato di CNCA, è stato “un modello innovativo che però si è arenato a causa di grossi problemi di gestione”. Come abbiamo raccontato anche su Secondo Welfare, i posti attivati da questo canale parallelo di ospitalità, infatti, alla fine sono stati solamente 5.000 a fronte di una disponibilità iniziale di oltre 17.000. E per di più, temporanei. Per contro, il SAI è stato ampliato in maniera limitata, arrivando a superare a agosto 2023 i 43.000 posti totali, ma rimanendo del tutto minoritario rispetto ai CAS, che a giugno avevano una capienza di oltre 83.000 unità.

Come scrive ancora Openpolis, infatti, “nonostante un modesto aumento di posti nel SAI nel 2022 e nel 2023, la proporzione è tornata a ridursi a causa di una crescita delle presenze complessive (29,4% a giugno 2023).

L’accoglienza dei profughi ucraini e il secondo welfare, un anno dopo

È anche a fronte di dati come questo che Trovato non mostra molti dubbi quando gli si chiede se l’accoglienza Ucraina, alla fine, non sia stata un’occasione persa. “Assolutamente”, risponde, spiegando quale dovrebbe essere la soluzione per il pluriennale problema di un sistema strutturalmente insufficiente: “i Comuni dovrebbero diventare protagonisti” e l’accoglienza dovrebbe essere “un sistema di welfare in cui ogni territorio ha i suoi posti per ospitare le persone che li vengono collocate”.

Anche Marchetti di CIAC ha un parere simile. “Il tema della scalabilità del SAI e dell’accoglienza istituzionale diffusa - argomenta - trova un limite nell’ANCI”, che non ha mai spinto per far diventare la partecipazione al SAI obbligatoria per gli enti locali. “Il tema della non obbligatorietà della partecipazione dei Comuni, in qualsiasi forma - aggiunge - è stata la morte di un sistema pubblico reale di accoglienza diffusa”.

E la situazione potrebbe anche peggiore. Trovato segnala che entro la fine dell’anno sono in scadenza circa 10.000 posti SAI aperti per l’accoglienza di afghani e ucraini, più altri 4.000 circa per minori stranieri non accompagnati. Se non venissero rinnovati, sarebbe un pessimo segnale. “Aspettiamo notizie dal Viminale e lo vedremo, concretamente, dai fondi stanziati dalla Legge di Bilancio. Ma il SAI rimane sottodimensionato, spiega.

Le prospettive, insomma, non sono affatto rosee. Grandi cambiamenti legislativi nel senso auspicato da Marchetti e Trovato non sembrano intravedersi all’orizzonte politico. Eppure, sui diversi territori ci sono enti locali e organizzazioni del Terzo Settore che continuano a provarci, a lavorare insieme, anche coprogettando gli interventi.

Una Ferrari senza benzina

“Sono anni che a Santorso lavoriamo bene con lo stesso ente gestore, sia per il SAI sia ora con il CAS della Tenda di Abramo”, riflette il sindaco Balzi che, prima di dedicarsi alla politica locale, ha avuto un’esperienza pluriennale nel mondo della cooperazione sociale. “Puntiamo su procedure di assegnazione trasparenti, su meccanismi di accesso ai bandi che fanno filtro nei confronti dei soggetti poco seri, su capitolati d’appalto che valorizzano il radicamento territoriale e anche sulla coprogettazione”, spiega.

La questione della coprogettazione, che sarà al centro del Sesto Rapporto sul secondo welfare che verrà presentato il prossimo 4 dicembre, è sentita anche a Parma, da CIAC. “Per noi è un tema che ha avuto importanza ancora prima che venisse chiamata così. Per i progetti SAI o per gli sportelli di orientamento e informazione sul territorio, abbiamo sempre cercato di tenere con gli enti pubblici locali uno stile di interlocuzione e affinamento di bisogni e risposte, in un’ottica di reti multistakeholder”, ragiona Marchetti.

In questo momento, per esempio, CIAC è coinvolta in diverse coprogettazioni che toccano i bandi per il Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami) dell’Unione Europea. “In questo caso, i capofila possono essere solo enti pubblici, come Comuni o Asl. Teoricamente può anche essere giusto, ma è molto complesso concretamente, a livello di implementazione. I Comuni, soprattutto, sono troppo impegnati con il PNRR o la gestione di altri fondi, come quelli della politica di coesione…”. C’è un grande potenziale di collaborazione, ma le risorse sono poche.È come guidare una Ferrari, ma senza avere la benzina”, conclude Marchetti.

Note

  1. Acronimo di Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, che fino al 2018 era costituito dalla rete degli enti locali che per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata accedevano al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo
  2. Acronimo di Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati, che ha sostituito lo SPRAR rivolgendosi inizialmente solo ai titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati
Foto di copertina: Ricardo Gomez Angel via Unsplash