Il nostro laboratorio si è sempre occupato delle Reti territoriali di conciliazione, istituite da Regione Lombardia una decina di anni fa per sostenere esperienze di work-life balance grazie alla collaborazione tra istituzioni pubbliche e realtà private, sia profit che non profit.

In particolare, abbiamo sviluppato delle riflessioni su questi network fin dalla prima sperimentazione (2011-2013), che è stata oggetto anche di un capitolo del nostro primo rapporto di ricerca. Successivamente, quando la misura si è strutturata, perdendo quindi il suo carattere sperimentale (2014-2016), abbiamo dato conto delle nuove strategie avviate a livello regionale, ma anche di esperienze concrete sviluppate in tale contesto, e abbiamo offerto alcune riflessioni sul nuovo corso intrapreso. Più recentemente (programmazione 2017-2019), abbiamo partecipato direttamente allo sviluppo di alcune reti, ad esempio facendo parte del Comitato di valutazione e monitoraggio dell’ATS Milano, senza tuttavia rinunciare a fornire spunti critici per migliorare il funzionamento delle reti.

In tal senso, per la programmazione in corso (2020-2023), in collaborazione con Variazioni srl, stiamo realizzando le “azioni di sistema” a supporto di alcune Agenzie per la Tutela della Salute (ATS). Queste sono infatti l’ente responsabile del coordinamento delle reti di Conciliazione e dell’attuazione delle linee guida regionali in materia. In questo ambito, siamo stati coinvolti in attività di ricerca e accompagnamento rivolte all’ATS Insubria (si veda qui e qui) e all’ATS Pavia. Infine, attualmente stiamo accompagnando il progetto “Agriwel, finanziato dall’ATS Milano.

Nell’ambito di queste attività, abbiamo sentito l’esigenza di confrontarci con Regione Lombardia circa le prospettive future delle Reti territoriali di conciliazione (da qui in avanti indicate più semplicemente anche come Reti o Reti di conciliazione, ndr). Di questo abbiamo discusso con Clara Sabatini, Dirigente dell’Unità Organizzativa Famiglia, Pari Opportunità e Programmazione Territoriale di Regione Lombardia.

Che obiettivo possono porsi le Reti di conciliazione nel contesto attuale e quindi nel quadro della pandemia?

L’obiettivo delle Reti è quello di creare servizi di supporto alle famiglie, anche promuovendo la corresponsabilità, e quindi le pari opportunità, all’interno dei nuclei familiari. Questo è l’obiettivo da cui Regione Lombardia è partita ormai qualche anno fa: ovviamente l’esperienza pandemica ha ormai cambiato il quadro generale. E per questo si rende quindi necessario fare ora qualche ragionamento aggiuntivo. In questi anni, è stato sviluppato un meccanismo di funzionamento delle Reti di conciliazione che ormai è abbastanza consolidato, nonostante le risorse destinate a queste strutture siano complessivamente contenute.

Nel prossimo futuro c’è una volontà di aumentare le risorse per le Reti. Ma parallelamente sarebbe necessario avviare anche un percorso volto a sostenere le progettualità che si sviluppano in esse.

All’inizio di questa programmazione, infatti, le risorse ammontavano a circa 3 milioni per tutto il triennio, e non erano quindi molte. Da un’analisi fatta, però, ci risulta che, ad oggi, non sia stato speso neanche metà del finanziamento assegnato. Questo significa che c’è un rallentamento nella realizzazione dei progetti. Che potrebbe essere dovuto sia alla pandemia, sia ai meccanismi amministrativi che rendono il processo un po’ troppo articolato per gli enti coinvolti.

Pensa che oltre alla pandemia altri elementi possono spiegare questo ritardo?

Sono aspetti su cui stiamo riflettendo. Ritengo che sia proprio sulle modalità che dobbiamo avviare una riflessione. Ad esempio, le procedure di coinvolgimento degli enti spesso, sono molto onerose. Inizialmente erano state messe in campo per spingere verso la costruzione delle Reti territoriali; adesso forse sarebbe invece il momento di alleggerire un po’ il sistema. Probabilmente potremmo prevedere dei cambiamenti già in vista della prossima programmazione.

Rispetto ai progetti finanziati dalle Reti, ci siamo fatti l’idea che dentro ci sono iniziative anche molto diverse fra loro. Dal vostro punto di vista, che tipo di progettazioni dovrebbero essere finanziate in via prioritaria?

Sicuramente i servizi votati alla flessibilità, perché i servizi rivolti alle famiglie sono ancora piuttosto rigidi, ad esempio in termini di orari e modalità di fruizione. Oggi, invece, e a maggior ragione nel contesto pandemico, bisognerebbe introdurre dei meccanismi per flessibilizzarli.

Andrebbero sperimentati servizi che siano realmente tarati sui bisogni, per raggiungere e includere anche fasce di popolazione che sono attualmente ostacolate dalla rigidità. Ad esempio, per come sono organizzati in questo momento, i servizi di conciliazione tante volte non tengono conto del fatto che, a seconda del settore, i lavoratori e le lavoratrici possano avere esigenze di orari diverse.

Le Reti dovrebbero finanziare soprattutto delle sperimentazioni che, se di successo, successivamente dovrebbero trasformarsi in “servizi strutturali”, ci sembra però che in molti casi non sia così. Cosa ostacola un processo di questo tipo?

Le reti finanziano principalmente servizi caratterizzati da una organizzazione più flessibile rispetto a quella dei servizi strutturali. Questa flessibilità rischia di essere di difficile integrazione in un sistema standardizzato e che presenta alcune rigidità (pensiamo ad esempio al tema degli orari dei servizi per l’infanzia). Le novità organizzative determinate da queste sperimentazioni, infatti, faticano a strutturarsi all’interno di un sistema che è basato su regole fisse. Per creare una integrazione sarebbe necessaria una modifica complessiva.

Tenendo fuori la questione delle risorse, attraverso quali strumenti è possibile sostenere un processo di questo tipo?

Lo strumento d’elezione dovrebbe essere il Piano di zona; tuttavia, ho notato che questa concezione, dal punto di vista dei territori, è tutt’altro che scontata. Fanno eccezione, ovviamente, quelle esperienze progettuali che nascono nelle Reti di conciliazione e vedono come ente capofila proprio gli Uffici di Piano. Negli altri casi però manca effettivamente un’evoluzione di questo tipo. Ma ci stiamo muovendo in questo senso.

Abbiamo già iniziato a valorizzare la maggiore integrazione delle progettualità della conciliazione nei Piani di zona.

Nell’ambito delle Linee di indirizzo per la programmazione sociale territoriale per il triennio 2021-2023 abbiamo fatto riferimento al tema della conciliazione, e sottolineato come le Reti siano da considerarsi come parte integrante degli interventi a supporto dei servizi per le famiglie presenti nei territori sociali territoriali. All’interno delle Linee guida, peraltro, la conciliazione vita-lavoro è stata collocata nel quadro degli “interventi per la famiglia”. Adesso rimane da verificare quanto questi cambiamenti saranno effettivamente recepiti nei prossimi Piani di zona.

Le Reti di conciliazione finanziano anche molte iniziative che promuovono il welfare aziendale. Come si può combinare la prospettiva del welfare aziendale con lo strumento Piano di zona?

Il Piano di zona è uno strumento ampio che può certamente includere anche elementi relativi all’occupazione, e quindi al welfare aziendale. L’elemento alla base dei Piani di zona è la famiglia: tutto ciò che si rivolge alle famiglie per favorire il loro benessere può rientrare nel Piano. Ci sono Ambiti particolarmente attivi che sono capaci di interfacciarsi con diversi attori, quindi anche quelli aziendali, mentre altri fanno più fatica. Si tratta infatti di un processo estremamente complesso che necessita di essere supportato anche percorsi formativi specifici che siano volti a creare all’interno delle Reti delle “comunità di pratica” in cui si possano anche condividere delle buone prassi per la promozione del welfare aziendale.

Quindi sarebbe utile creare un aggancio più solido fra Reti di conciliazione e Piani di zona, ma c’è un disallineamento temporale tra i due strumenti di programmazione. Come si può allora immaginare l’integrazione?

Siamo a conoscenza del disallineamento e proprio per questo il Piano di conciliazione, che inizialmente era biennale, è diventato triennale. Adesso è necessario individuare una complementarità fra i due strumenti, tenendo in considerazione il fatto che quando si arriverà alla nuova programmazione dei Piani di conciliazione i Piani di zona saranno già partiti.

I Piani di conciliazione potrebbero diventare un “di cui” dei Piani di zona.

Allo stesso tempo, potremmo immaginare che, alla luce delle attività dei Piani di conciliazione, gli Uffici di Piano coinvolgano i capofila dei progetti nella programmazione. Questi sono alcuni esempi delle modalità con cui i due Piani potrebbero integrarsi.

Concludendo, possiamo aspettarci delle novità per il prossimo ciclo di programmazione delle Reti di conciliazione?

Direi di sì. Rispetto alle direttrici di cambiamento al momento abbiamo alcune idee, ma abbiamo bisogno di rifletterci ancora e in maniera specifica nei prossimi mesi.