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In questi giorni, complici le anticipazioni di stampa sulle misure allo studio del Governo Meloni, ha ripreso forza il dibattito sulle politiche pubbliche contro la povertà che sostituiranno il Reddito di Cittadinanza (RdC). In questo quadro appare utile riflettere su uno dei tratti distintivi dell’attuale schema di reddito minimo italiano, ovvero i Progetti utili alla collettività (PUC). Si tratta di attività di servizio alla comunità che i beneficiari del RdC sono tenuti a svolgere nel proprio Comune di residenza. Per la loro duplice valenza – controprestazione e capacitazione/occupabilità/sviluppo – i PUC sono particolarmente interessanti nel panorama europeo, oltre che per approfondire l’attuazione del RdC. Ne trattiamo nel contributo che segue, che sintetizza un recente articolo pubblicato sul numero 3/2022 della rivista Stato e Mercato.

Il dibattito sulla riforma del Reddito di Cittadinanza

Attorno alle anticipazioni circolate nelle settimane scorse sulla Misura di Inclusione Attiva (MIA), e da pochi giorni sulle nuove misure di inclusione sociale e lavorativa, GIL – Garanzia per l’inclusione e GAL – Garanzia per l’attivazione lavorativa, che entro l’anno dovrebbero soppiantare il Reddito di Cittadinanza (RdC), stanno fiorendo, assieme al dibattito, proposte e indicazioni di revisione, come quella Caritas Italiana presentata il 30 marzo scorso.

Sebbene possa sembrare prematuro, non avendo nessuno ancora in mano il disegno definitivo della misura (o delle misure), è evidente che gli elementi cardine della proposta del Governo al momento resi pubblici sollevino non poche preoccupazioni circa il possibile taglio delle risorse destinate al contrasto della povertà e soprattutto il restringimento dei criteri di eleggibilità alla rete di protezione di ultima istanza. In sostanza si avrebbe una riduzione degli importi medi e della durata dei trasferimenti economici, oltre che una riduzione dei potenziali beneficiari, come mostrato recentemente da Andrea Ciarini.

Destano forti perplessità anche i nuovi criteri di occupabilità costruiti non sulla base di criteri che misurano la distanza dal mercato del lavoro ma sulle responsabilità di cura e la composizione familiare, ma anche la separazione ancora più netta tra i percorsi di inclusione sociale e quelli di inserimento lavorativo senza aver aggredito le difficoltà legate alla costruzione e alla governance della rete dei servizi territoriali (sociali e per l’impiego) e prima ancora le problematiche dello smistamento automatico tra i due percorsi effettuato dalla piattaforma digitale (Bruno et al. 2022).

Colpisce soprattutto che mentre presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali si insedia un nuovo Comitato scientifico per la valutazione delle misure di contrasto alla povertà e del Reddito di Cittadinanza, sembrano essere caduti nel vuoto gli studi di valutazione e le connesse proposte di revisione del RdC avanzate dal precedente Comitato scientifico presieduto da Chiara Saraceno, così come dall’Alleanza contro la povertà oppure dalla stessa Caritas. Un patrimonio di conoscenze e di proposte che rischia di andare disperso, mentre da questi apprendimenti si dovrebbe partire. Se solo si ricordasse che per disegnare politiche efficaci occorre un policy design che lega insieme, in modo circolare, le fasi di ideazione, definizione, implementazione, valutazione, ridefinizione delle politiche stesse.

I Progetti utili alla collettività

Prendiamo per esempio i Progetti utili alla collettività, i cosiddetti PUC. Si tratta di attività di servizio alla comunità che i beneficiari del RdC sono tenuti a svolgere nel proprio Comune di residenza, per almeno 8 ore settimanali, aumentabili fino a 16. L’attuale normativa sottolinea che i progetti devono avere uno scopo chiaro, concepito in base alle esigenze delle comunità, e tenere conto delle caratteristiche dei beneficiari coinvolti e delle opportunità offerte loro in termini di empowerment. Operativamente dovrebbero essere strutturati in modo coerente con le competenze professionali dei beneficiari e secondo gli interessi e le propensioni emerse durante le interviste ai beneficiari della RdC.

Come mostra la nostra analisi presentata nell’articolo “Minimum income, active inclusion, and work requirements in Europe: Insights from community service projects introduced by Italian Citizenship Income” uscito su Stato e Mercato 3/2022, i PUC rappresentano un requisito di attivazione simile a quelli che si sono diffusi negli ultimi anni nei programmi europei di reddito minimo, in particolare dopo il lancio della Strategia di Lisbona e la cosiddetta “svolta verso l’attivazione”. Coerentemente con questa impostazione, la normativa del RdC prevede che la mancata adesione ai progetti proposti comporti la decadenza dal RdC. Tuttavia, la stessa normativa specifica che i PUC non sono solo un obbligo ma anche “un’opportunità di inclusione e di crescita” sia per i beneficiari sia per i territori. In altri termini sono chiamati ad assolvere una duplice funzione: di controprestazione, da un lato; di capacitazione dei beneficiari in funzione della loro occupabilità e di sviluppo della comunità, dall’altro. Con un originale mix tra la dimensione dell’interesse individuale e di quello collettivo.

Per questa duplice valenza (controprestazione e capacitazione/occupabilità/sviluppo), i PUC sono particolarmente interessanti nel panorama europeo, dove simili esperienze di impegno obbligatorio in attività  non retribuite o fosse anche l’impiego in lavori pubblici per i beneficiari di schemi di reddito minimo sono sia piuttosto rari sia poco studiati. L’analisi effettuata sul disegno degli schemi di reddito minimo di 33 Paesi europei rileva che misure analoghe ai lavori pubblici e ai progetti utili alla collettività sono presenti e in 17 casi sono utilizzati come controprestazioni o come opportunità di empowerment più o meno efficaci, rivolte in modo mirato ai beneficiari più vulnerabili, ma non come leve di accesso al mercato del lavoro volte a promuovere l’occupabilità.

I PUC: un’implementazione complessa e sfidante

A rendere interessanti i PUC è anche un altro aspetto. La loro titolarità nei territori è in capo ai Comuni, a cui spetta anche la governance complessiva, ma alla loro progettazione e realizzazione possono concorrere altri enti locali e le realtà del Terzo Settore. Per tutti vale un vincolo: definire attività (“postazioni PUC”) che in nessun caso siano sostitutive di quelle ordinarie delle organizzazioni ospitanti, né possano essere assimilabili ad attività di lavoro subordinato, parasubordinato o autonomo. Ciò concorre a rendere l’implementazione dei PUC a livello locale particolarmente complessa e sfidante.  A renderlo evidente è l’analisi che abbiamo condotto prendendo in considerazione quattro aspetti: la governance territoriale dei PUC; l’identificazione dei beneficiari da coinvolgere e l’abbinamento tra questi e i servizi alla comunità forniti dai PUC; la definizione delle attività socialmente utili previste dai PUC; le finalità di attivazione alla base dei PUC. In estrema sintesi è emerso quanto segue.

Governance

In primo luogo, la definizione dei meccanismi di coordinamento e collaborazione tra gli attori coinvolti nell’attuazione dei PUC è lasciata nelle mani dei servizi sociali. Se da un lato questo permette di trovare soluzioni in linea con le culture e le pratiche amministrative del welfare locale, dall’altro tende a riprodurre i punti di forza e di debolezza preesistenti dei servizi sociali territoriali con esiti differenti da contesto e contesto, rendendo difficile superare vincoli e ostacoli dove sono presenti.

Identificazione beneficiari

In secondo luogo, l’adesione ai PUC è richiesta a tutti i beneficiari non esenti da condizionalità. Quando sulle piattaforme appare la disponibilità di posti PUC, la scelta di quali beneficiari coinvolgere non riguarda tuttavia l’intera platea di coloro che sono considerati aventi diritto, ma di fatto è per lo più limitata ai beneficiari già noti ai servizi sociali o che hanno già incontrato gli operatori dei Centri per l’impiego. È questo spesso l’esito di una strategia per ottimizzare i tempi e l’efficacia dell’incontro tra le postazioni aperte e le caratteristiche dei beneficiari. Questo comporta un effetto di scrematura che porta a selezionare i beneficiari più attivi per il coinvolgimento nei PUC, come evidenziato anche da altre ricerche sull’inclusione attiva dei soggetti vulnerabili.

Definizione attività

In terzo luogo, la normativa definisce i PUC come attività che non possono essere ricondotte a incarichi di lavoro in senso stretto. Tuttavia, devono essere utili alla comunità e coerenti con le competenze dei beneficiari. Se le ragioni di queste scelte sono comprensibili e condivisibili a livello di principio, i riscontri empirici mostrano quanto sia difficile da applicare. La gestione dei PUC richiede un notevole sforzo organizzativo da parte dei Comuni e degli enti che aprono le postazioni, uno sforzo che viene sprecato quando il match con i beneficiari fallisce e che spinge gli uni e gli altri a scelte di efficienza che non sempre collimano con le aspettative di empowerment della misura. Gli stessi attori locali invocano una più precisa finalizzazione dei PUC ai più fragili tra i percettori del reddito minimo, orientata al recupero delle competenze di base, in una prospettiva di intervento che si mantiene lontana dall’assistenzialismo e punta alla capacitazione.

Finalità

Infine, per come descritti dalla normativa, i PUC si prestano a diverse interpretazioni e così di fatto accade nei territori. Quando il valore della controprestazione prevale, la percezione della misura come mero adempimento o, peggio, come richiesta punitiva è “dietro l’angolo”, insieme alla demotivazione non solo dei beneficiari ma anche degli operatori. Le finalità di inclusione e crescita, sia per i territori che per i beneficiari, perdono di rilevanza e sullo sfondo traspare una visione dei poveri colpevolizzante. Intesi in questo modo, le potenzialità dei PUC vengono derubricate a leva di controllo sociale o di mero adempimento burocratico, si perde la capacità di contemperare le finalità di capacitazione individuale e di sviluppo locale. Ma non è una strada obbligata.

Quale futuro per i PUC tra approccio workfarista e logica capacitante

Il confronto internazionale da un lato e l’analisi dell’implementazione dei PUC nei territori mostra che i PUC sono uno strumento efficace quando messi in pratica con il coinvolgimento dei beneficiari nella definizione di percorsi personalizzati di reinserimento lavorativo e di inclusione sociale entro la comunità locale.

Le evidenze raccolte suggeriscono tuttavia che i PUC andrebbero riformati, per superare le ambiguità di una definizione che li carica di molteplici e contrastanti aspettative, in favore di una logica basata più chiaramente sull’empowerment dei soggetti più fragili. La strada potrebbe essere quella di renderli volontari e rivolti prioritariamente ai beneficiari più vulnerabili – in carico ai servizi sociali – in linea con quanto succede negli altri paesi che hanno previsto strumenti simili.

Nel complesso dall’analisi emergono sia gli elementi di interesse e originalità dei PUC sia gli aspetti di criticità e le vie per un loro rilancio. Ma qual è il loro destino nel quadro della riforma in atto? Dalle prime indicazioni emerse sembra che il MIA (ma anche le misure previste dallo schema di decreto-legge che ha iniziato a circolare dal 16 marzo) ne preveda una più diretta finalizzazione all’occupazione, considerandoli anzitutto come strumento di politica attiva del lavoro per i beneficiari considerati occupabili. Se così fosse, per dirlo con i termini del dibattito internazionale, l’approccio workfarista prevarrebbe su quello enabling. Certo sappiamo ancora troppo poco per valutare in modo compiuto la proposta, ma possiamo almeno invitare a considerare le “lezioni” sino ad oggi apprese.


Per approfondire

Bruno F., Lodigiani R., Maino F. (2022), L’implementazione del RdC tra il dire e il fare: le sfide per una governance integrata, in “Sinappsi”, Anno XII, n. 2, pp. 6-19.

Lodigiani R., Maino F. (2022), Minimum income, active inclusion, and work requirements in Europe: Insights from community service projects introduced by Italian Citizenship Income, in “Stato e Mercato”, n. 126 dicembre, pp. 369-407, doi: 10.1425/106572.