La mediazione culturale

La mediazione culturale è un’attività che, mettendo a frutto competenze linguistiche e/o interculturali, ha come obiettivo la facilitazione della comprensione tra persone o gruppi, appartenenti a culture e/o lingue diverse, per rendere possibile una comunicazione paritaria tra le parti, e garantire alla parte più debole l’esercizio di un diritto e l’accesso a opportunità, che altrimenti le sarebbero precluse.

Le competenze del mediatore

Se guardiamo alle molteplici sfumature della competenza interculturale, ci rendiamo conto della difficoltà di concettualizzare la competenza interculturale in sé e per sé, e della conseguente necessità di declinare tale competenza in specifici contesti, quali per esempio le risorse umane, il business, la formazione degli insegnanti, l’apprendimento delle lingue straniere, l’educazione internazionale, l’ingegneria, il servizio sociale, la religione, la sanità.

In tutti questi ambiti poi occorre tener presente gli elementi trasversali, che riguardano aspetti identitari, morali, e inerenti alla risoluzione di conflitti e alle discriminazioni. Da ciò deriva la complessità della mediazione culturale: un esercizio di competenze interculturali, finalizzato, in diversi contesti, al potenziamento di canali comunicativi tra singoli e gruppi connotati da elementi linguistici e culturali diversi; di qui la necessità di declinare il tema della mediazione interculturale a seconda dei contesti.

La mediazione tra advocacy e empowerment

Nel campo della mediazione si intende per advocacy (difesa, tutela, supporto) un’azione di affiancamento di un soggetto che, nello specifico, si esplica in difesa dei diritti dell’immigrato, quando non in sostituzione di un soggetto debole per rivendicare e far valere un diritto che alla persona nella pratica non viene riconosciuto, o del quale la persona non è pienamente consapevole. Si ritiene che la persona immigrata, scarsamente padrona della lingua, debba essere sostenuta e il mediatore debba intercedere in suo favore, fino, in qualche caso, ad agire al suo posto.

Per empowerment (potenziamento) si intende, invece, dare potere alla persona per renderla autonoma, riconoscendo la sua forza e restituendole un’immagine positiva delle sue potenzialità. La persona impara ad avanzare delle richieste, sapendo che sono appoggiate da qualcuno che la sostiene, così come viene incoraggiato il suo esercizio di potere. Il processo di empowerment diventa anche un processo di capacitazione/potenziamento (capability) (Nussbaum, 2011), un’azione educativa, che persegue l’emancipazione e la fioritura del soggetto, specialmente il più debole.

A eccezione del mero intervento di traduzione, ogni intervento di mediazione deve fare i conti con il delicato equilibrio tra advocacy ed empowerment e si configura a partire dall’analisi del contesto di mediazione e del potere delle parti. L’intervento di mediazione va continuamente rimodulato in corso d’opera, privilegiando un orientamento all’advocacy o all’empowerment, a seconda del feedback che l’interazione tra le parti restituisce al mediatore.

La tensione tra advocay ed empowerment evoca dal punto di vista pedagogico la tensione propria dell’Area di Sviluppo Prossimale (Vygotsky, 1934), una tensione dialettica tra l’atteggiamento di un educatore che si colloca troppo vicino al soggetto, e lo protegge quindi in modo eccessivo da qualsiasi nuovo stimolo, e di un educatore che pone sfide che il soggetto non può cogliere, perché troppo lontane dalla sua situazione reale e dalla sua possibilità di affrontarle.

Nella realtà concreta la tensione tra queste due posizioni deve caratterizzare ogni intervento educativo consapevole: la flessibilità e la rimodulazione del proprio agire devono essere assunti come elementi dinamici, imprescindibili nella professione.

Il dilemma della provenienza: il mediatore deve essere madrelingua?

Relativamente alla provenienza del mediatore, ovvero la sua appartenenza linguistico-culturale, va sottolineato che questa dimensione può essere letta in termini di posizionamento rispetto al potere. Ogni mediatore, straniero o italiano, è professionale e imparziale, se ha elaborato la sua personale storia di rapporto con la diversità, e se ha imparato a riconoscere una sua propensione dominante verso l’advocacy o verso l’empowerment.

Il mediatore straniero o con background migratorio sarà infatti consapevole degli ostacoli e delle opportunità incontrate nel proprio percorso di integrazione e avrà analizzato criticamente la mediazione formalmente o informalmente ricevuta: sarà quindi in grado di valutare il livello di riconoscimento che l’istituzione autoctona gli riconosce in termini di potere professionale. Analogamente per quanto riguarda il mediatore autoctono, egli avrà conseguito la capacità di analizzare le sue esperienze interculturali, in termini di potere, e avrà appreso di doversi continuamente guardare dai propri pregiudizi nei confronti delle parti tra le quali media (Aluffi Pentini, 2004).

Si capisce quindi come in un orientamento all’advocacy, il sostituirsi all’altro senza ascoltarlo e il paternalismo sono atteggiamenti sempre in agguato, mentre la sopravvalutazione delle energie e delle possibilità dell’altro, ovvero l’incredulità o addirittura insofferenza di fronte alle sue debolezze, sono i rischi che si corrono se si è troppo orientati all’empowerment.

Sia il mediatore italiano sia il mediatore straniero, alla luce delle diverse esperienze interculturali e del posizionamento linguistico, culturale e sociale, dovranno imparare nel loro percorso formativo specifico a distinguere tra advocacy e paternalismo da un lato, e tra empowerment e mancanza di empatia, dall’altro. Saranno quindi capaci di individuare in quali situazioni guardarsi dal cadere in atteggiamenti e pratiche non corrette; in quali situazioni potrebbero non tener conto delle esigenze della persona immigrata “qui e ora” (con la sua storia narrata o taciuta) e basarsi invece su proiezioni e pregiudizi propri.

Saranno quindi continuamente chiamati a calibrare le modalità di intervento e a un confronto interculturale in équipe o in supervisione. Per questo crediamo che non sia la provenienza del mediatore da un Paese straniero, o dallo stesso Paese della persona destinataria dell’intervento l’elemento che garantisce la libertà da pregiudizi e l’efficacia educativa.

Apprendimenti da una comunità per minori stranieri non accompagnati

A Trieste la cooperativa sociale la Quercia – per conto del Comune – gestisce una struttura destinata all’isolamento fiduciario di minori stranieri non accompagnati appena entrati in Italia. La struttura si trova nel territorio comunale, isolata dalla città ma immersa nella natura, a una manciata di chilometri dal confine italo-sloveno, l’ultimo che hanno attraversato. La maggior parte dei giovani ospitati è stata fermata e identificata dalla polizia italiana proprio a quel confine.

Il tempo previsto dalle normative per la quarantena è di 14 giorni. Questo breve lasso di tempo è un tempo prezioso: l’Italia rappresenta, sia per chi ha intenzione di rimanere, sia per chi ha altri progetti migratori, un porto sicuro, e la struttura di isolamento, dopo i cosiddetti “game” della rotta balcanica, è il primo contatto che questi ragazzi hanno con l’Italia e con gli italiani. Qui possono ricevere una sorta di imprinting.

 “Queste persone attraversano cinque Paesi a piedi per arrivare in Italia, chi perché ha visto uccidere qualche parente per problemi legati a tradizioni che noi ignoriamo. Arrivano qua ignari del loro futuro, con i piedi tagliati, con la pelle rovinata, alcuni con lividi fatti dalla polizia dei Paesi che attraversano nelle varie tappe del viaggio. Alcuni in pochi mesi, alcuni in diversi anni, hanno raggiunto (forse) il loro futuro migliore”

 Questa è la testimonianza di un’operatrice della struttura. Vale la pena precisare che si tratta di una operatrice perché per molti ragazzi stranieri già questo è un inizio di integrazione, il non fare di un centro di accoglienza un piccolo Pakistan, un piccolo Afghanistan, ma dare loro la possibilità di vedere che nel paese in cui si trovano, le donne hanno un ruolo diverso rispetto a quello a cui loro, che provengono da realtà rurali del medio-oriente, sono abituati.

Come capire il reale bisogno senza dare la risposta che la nostra mente e la nostra cultura ritengono corretta ma che non è quella di chi ci sta davanti? Come andare oltre i riferimenti che hanno accompagnato e dato sicurezza alla nostra vita e farsi operatori che si mettono in ascolto e cercano di capire e accogliere per negoziare significati altri?

È nella vita di ogni giorno, in ogni situazione, in ogni difficoltà che l’operatore deve studiare, interrogarsi, guardare con gli occhi dell’altro per ricercare il senso di quello che sta accadendo. È nelle relazioni che si costruisce un percorso di condivisione di significati altri.

Incontri, spaesamenti e spiazzamenti

Che cosa succede quando persone di tutto il mondo si trovano assieme in uno spazio condiviso, per di più in isolamento? I primi giorni, appena arrivati in Italia, sono dedicati quasi esclusivamente al riposo. Poi ci si ritrova a vivere insieme. Questo è il momento in cui ci si scontra con la lontananza linguistica, culturale ed esperienziale di vita che cozza con la nostra e ti costringe a riflettere su aspetti che hai sempre dato per scontato.

Noi diamo per scontato che le persone abbiano un nome e un cognome. Invece Miah Md Ahamed, ragazzo bengalese di 17 anni, ha imparato solo nella nostra struttura che in Italia si usa anche una cosa chiamata cognome. Purtroppo, quando è stato fermato e identificato dalla polizia di frontiera non lo sapeva ancora, quindi abbiamo dovuto recarci con una mediatrice culturale in commissariato per sistemare la sua anagrafica. Nell’ufficio del commissariato c’erano quattro persone: un poliziotto, una mediatrice, un ragazzo straniero e un educatore. Al poliziotto premeva che le dichiarazioni sul verbale fossero veritiere, e voleva delle giustificazioni sul perché non avesse dato subito i dati corretti.

La mediatrice ha spiegato, dopo aver parlato con Ahamed, che non “aveva ancora familiarizzato con il concetto di cognome”. Per il poliziotto questo era poco rilevante, per noi, come per gli altri era molto rilevante. Ora sappiamo che i Bengalesi non ragionano in termini di “nome di famiglia”, che Md può essere un nome ma che si può anche omettere quando si parla, come nella stessa maniera abbiamo imparato che quando chiedi a un ragazzo afghano la città di nascita ti dirà la città dove sono nati suo padre e suo nonno, anche se lui è nato da tutt’altra parte.

Noi diamo per scontato che quando si va in bagno ci si pulisce con la carta igienica e poi ci si fa il bidet. Nei Paesi asiatici (ma non solo) le tubature degli scarichi non sono abbastanza larghe per tollerare la carta. Questa è una cosa abbastanza nota anche a chi è stato in alcuni Paesi come turista. Ma non è bastato né spiegare che qui le tubature sono migliori né lasciare comunque un cesto per la spazzatura a fianco ai wc. I ragazzi continuavano a portare delle bottiglie di plastica nei bagni con cui si lavavano, lasciando ogni volta un lago in tutti i servizi igienici.

Abbiamo chiamato una mediatrice per parlare con loro anche di questo (lei stessa era un po’ imbarazzata dall’argomento) e abbiamo aggiunto un tassello rispetto a questo comportamento per noi inspiegabile. L’acqua era necessaria, senza acqua non sarebbero stati puri per le preghiere. Per quanto possa suonare assurdo non usavano la carta igienica per motivi religiosi. E il bagnato. Come mai ai ragazzi bengalesi non dava fastidio lasciare un centimetro d’acqua nel gabinetto? Menefreghismo? Forse, ma guardando le foto dal satellite della loro città/regione di origine, Syleth, che è letteralmente immersa in un fiume che scende dalle montagne più alte del pianeta, possiamo pensare che abbiano una differente percezione dell’umidità. Oppure questo può essere solo un pregiudizio, l’importante è tenere aperta la possibilità che l’altro possa avere una prospettiva diversa dalla nostra.

Del resto ci eravamo arrabbiati tante volte perché lasciavano le luci accese tutta la notte. Era menefreghismo? Un po’. Era paura del buio? A volte sì. Era anche e soprattutto, per molti di loro, un’esperienza nuova, mai fatta.

Un ragazzo col mal di denti o un poeta?

Asad Shahidullah è arrivato da noi dall’Afghanistan con un forte mal di denti, probabilmente dovuto a un ascesso, che si stava gonfiando. A noi l’unica cosa che chiedeva erano fogli di carta. È stato dimesso dalla struttura pochi giorni dopo l’operazione in cui gli hanno estratto il dente malato. Svuotando la sua stanza abbiamo ritrovato tutti questi fogli coperti di scritte in persiano. Per fortuna sono state ritrovate da un operatore che conosce la lingua Dari e che è vissuto in Iran.

L’alfabeto persiano per noi è un insieme di macchie indistinguibili, invece lui ha riconosciuto subito che si trattava di poesie, alcune erano proprio di Shahidullah, altre erano di Jalal ad-din Rumi, un nome che alla maggior parte degli italiani non dice nulla, ma che se dovessimo fare un parallelo con la nostra letteratura corrisponderebbe a Petrarca o a Leopardi.

Prima di questo episodio ci eravamo fermati alla gestione pratica del “problema”, perché la complicazione della sua situazione sanitaria stava rallentando il suo trasferimento in comunità. La traduzione di quanto scriveva quasi ossessivamente ha permesso di fermarsi, scoprendo la persona dimenticata dietro al problema. Troppo spesso il nostro agire quotidiano è rivolto alle emergenze, che raramente permettono la condivisione. Il ruolo dell’operatore si fa complesso, deve gettare tutti i propri riferimenti per poter vedere dove si situano i significati di chi gli sta davanti, o di quanti non riescono a comunicare tra loro.

Mediazionando

Il mediatore è una figura che dovrebbe sempre di più specializzarsi in interventi puntuali di traduzione linguistica, perché nei vari settori della società la multiculturalità si traduce in una presenza sempre più numerosa di professionisti con background migratorio e con competenze interculturali. Se la società non evolve in questa direzione, significa che qualcosa è fallito nei processi di integrazione, e significa che un concetto generale di mediazione non ha funzionato. Delegando al mediatore le competenze interculturali, si rischia infatti di continuare ad avere professionisti «collaterali» ai quali viene affidata la presa in carico di cittadini di seconda classe.

Lavorare in una prospettiva di accoglienza per i minori immigrati significa offrire loro l’opportunità di ricostruire i fili di una continuità vitale, tenendo conto che la discontinuità può essere stata vissuta, sia in modo problematico, sia in modo sereno quella della migrazione. Ciò non è scontato in una situazione nella quale è facile che il nuovo Paese in cui si vive appaia alla famiglia in modo ambivalente; talvolta sotto una luce molto positiva (“Qui tutto è meglio rispetto al mio Paese”), talvolta in una luce troppo negativa (“Qui tutto è peggio rispetto al mio Paese”). Mediare significa quindi anche lasciare tempo e spazio a questo tipo di conflitti interiori.

Per tutti coloro che hanno vissuto l’esperienza di discontinuità della migrazione, ripristinare una continuità significa imparare a vivere nel presente, integrando i ricordi e progettando il futuro. Guardando al minore è fondamentale considerare il rapporto tra partenza dal Paese di origine, e arrivo nel Paese di immigrazione, come una nuova nascita e su questa immagine approntare i dispositivi di cura educativa propri del nucleo familiare. I dispositivi di accoglienza che rientrano nel modello dell’educazione interculturale traggono vantaggio dal sintonizzarsi sulla metafora di una nuova nascita, come rappresentazione della ri-socializzazione in Italia.

La mediazione culturale è un apprendimento condiviso

Inserire la mediazione attiva nella comunicazione potenzia l’azione dell’educatore nel suo agire quotidiano con i ragazzi. Se, dopo un intervento di mediazione, ci apriamo alla possibilità di prendere in considerazione il mondo dell’altro, spesso così distante nelle relazioni quotidiane, possiamo diventare degli educatori maggiormente in grado di portare avanti relazioni d’aiuto più efficaci.

Una delle competenze fondamentali dell’educatore che lavora con i ragazzi stranieri è la capacità di trasferire il concetto di empowerment, inteso come il potenziamento della persona, un’azione educativa attiva e partecipativa in cui l’operatore non semplicemente trasferisce, ma condivide conoscenza, cultura, regole, diritti e doveri empaticamente con il giovane che ha fatto ingresso in un nuovo paese.

A differenza del mero intervento di traduzione, l’educatore che opera con un approccio di mediazione culturale entra nei vissuti, nella storia, nel percorso della persona per condividere un cammino di inserimento in un nuovo contesto di vita. La difficoltà è comprendere il senso delle situazioni e delle azioni, che non corrispondono ai significati presupposti, ma devono essere rilette da entrambe le parti con gli occhi dell’altro, per riuscire a raggiungere quella conoscenza condivisa che permette una ri-significazione dell’esperienza per una integrazione effettiva.


Bibliografia

 


Questo contributo è parte del Focus tematico Collaborare e partecipare, che presenta idee, esperienze e proposte per riflettere sui temi della collaborazione e della partecipazione per facilitare cooperazione e coinvolgimento. Curato da Pares, il Focus è aperto a policy maker, community maker, agenti di sviluppo, imprenditori, attivisti e consulenti che vogliono condividere strumenti e apprendimenti, a partire da casi concreti. Qui sono consultabili tutti i contenuti del Focus.