Negli ultimi trent’anni, le pubbliche amministrazioni (PA), specialmente a livello locale, sono diventate sempre meno capaci e avvezze a gestire con risorse proprie il welfare pubblico e, abbandonando via via la gestione diretta di sempre più servizi, hanno perso molte competenze professionali (anche per via dei pensionamenti e del mancato turn over) necessarie per mantenere aperti servizi quali ospedali, nidi, case di riposo, come anche musei e teatri. Al contempo, alcuni enti del Terzo Settore hanno maturato esperienza nella gestione di servizi anche al di fuori delle gare di appalto pubbliche e, quindi, hanno sviluppato competenze organizzative e di visione emancipate dalla pubblica amministrazione.
Tutto questo è avvenuto in un contesto in cui le esigenze di welfare della popolazione sono aumentate e si sono complessificate, mentre la coperta delle risorse è diventata sempre più corta dal punto di vista economico e degli spazi. Si aggiunga a questo il fatto che molte delle attività istituzionali classiche sono passate, più che da stanziamenti economici strutturali alle PA competenti, al mercato competitivo della bandistica pubblica (ministeriale, regionale, comunitaria) e privata (fondazioni di origine bancaria ed enti filantropici). Ci ritroviamo così, oggi, con una pubblica amministrazione in sofferenza di personale, competenze e risorse economiche, da una parte, e con un Terzo Settore con scarso accesso alle scelte strategiche e difficoltà a far tornare i conti, dall’altra. In questo contesto c’è bisogno di ricostruire un rapporto tra queste due parti, senza ignorare pregiudizialmente il settore del privato profit che sta, seppur timidamente, direzionando (a volte per interessi di posizionamento e di moda) parte della sua attenzione agli aspetti più legati al sociale e ai territori (corporate social responsability, welfare aziendale, etc.).
In questo contesto diventa essenziale immaginare nuovi modi in cui pubbliche amministrazioni e Terzo Settore possano parlarsi e lavorare insieme. In questo articolo proviamo a raccontare quanto sta avvenendo ad Alessandria con il Patto Generale di Collaborazione. Ma andiamo con ordine.
Possibili alleanze per ripensare il rapporto tra PA e Terzo Settore
Nella situazione sopra descritta, alla domanda “cosa si può fare?” si risponde “innovazione”: mettiamo insieme due problemi per provare a costruire una forza. Creiamo alleanze tra una PA un po’ svuotata ma autorevole e depositaria delle responsabilità formali, e gli ETS, a cui viene certamente riconosciuta poca autorevolezza su “certi tavoli” ma che hanno indubbiamente incamerato molte competenze negli ultimi decenni (educative, sanitarie, socio-assistenziali, ma anche di progettazione e gestione progetti). Bisogna metterli insieme e pensarli sullo stesso piano, abbandonando almeno un po’ l’idea che il soggetto pubblico sia, come succedeva decenni fa, il decisore, l’attuatore e l’unico responsabile del funzionamento dei servizi sul territorio.
Prima di procedere, una nota: chi scrive è convinto fin nelle viscere che il ruolo del Pubblico, in un mondo ideale, dovrebbe essere quello di referente primo ed ultimo di ogni azione costruita per la collettività ma è altrettanto convinto, tesi sostenuta dalle mille attività che il Terzo Settore sviluppa sui territori (in molti casi come e meglio del servizio pubblico stesso), che agli ETS debba essere dato riconoscimento come settore senza il quale i livelli base di assistenza, socialità e cura non potrebbero esprimersi.
Detto questo, il tema probabilmente più importante di tutti per affrontare questa situazione è quello legato alla fiducia da creare all’interno di queste nuove alleanze territoriali. Solo l’orizzontalità e la trasparenza dei rapporti è quella che può sperare di produrre risultati ad impatto positivo.
Due possibili strumenti: coprogrammazione e coprogettazione
La Riforma del Terzo Settore apre alle pratiche della coprogrammazione e coprogettazione: si chiede agli enti pubblici di aprire i tavoli in cui si definiscono i bisogni, si analizzano i problemi e si trovano strategie (programmazione) e di poter partecipare a percorsi flessibili e a medio/lungo termine per rispondere a quei bisogni (progettazione).
Sono termini sulla bocca di molti da qualche anno ma spesso si viene a conoscenza di casi in cui questi percorsi potenzialmente virtuosi vengono attivati solo per camuffare e velocizzare procedure di classico affidamento dei servizi in cui, comunque, rimane chiaro il subordine al quale il Terzo Settore è obbligato.
Se si lavora per costruire alleanze territoriali sane, quello diventa il terreno (fatto di attori e di metodo) sul quale gli strumenti introdotti dall’art. 55 del D.Lgs. 117/2017 possono proliferare ed innescare cambiamento positivo.
Una pratica di alleanza: il Patto di collaborazione di Alessandria
Ma come si creano concretamente queste alleanze? Ogni territorio ha le sue dinamiche. Proviamo a ripercorrere schematicamente quello che è successo e sta succedendo da noi, nell’alessandrino, per trarre qualche riflessione generale.
Alessandria è una realtà media di provincia. Molte persone e molti enti si conoscono e cercano di collaborare da diversi anni. Altre persone e altri enti si conoscono e cercano di non collaborare da diversi anni. Bellezza e disgrazia della provincia italiana.
Alcuni ETS locali hanno pensato che sarebbe stato importante creare uno spazio riconosciuto da PA e Terzo Settore, in cui incontrarsi e ragionare di come sviluppare “meglio” il territorio. Abbiamo quindi proposto l’utilizzo di uno strumento dell’amministrazione condivisa di solito utile per co-gestire – tra amministrazione, ETS e privati cittadini – elementi più circoscritti della realtà (giardini, edifici, eventi): il patto di collaborazione.
Il Comune di Alessandria aveva adottato, nel 2015, un regolamento per la cura e la gestione condivisa dei beni comuni (elemento obbligatorio per procedere alla costruzione di un qualsiasi patto di collaborazione). Dopo qualche incontro preliminare con il Comune, attraverso l’Associazione Cultura e Sviluppo (ente strumentale di Fondazione SociAL), abbiamo deciso di costruire un Patto tra 23 realtà iniziali, Comune e Provincia. L’obiettivo? Occuparsi del bene comune per eccellenza: lo sviluppo e il futuro del territorio, in particolare in ambito culturale, sociale ed educativo. Un doppio salto mortale per la logica classica dei patti: è stato, infatti, nominato Patto Generale di Collaborazione “Rete di Co-Programmazione e Co-Gestione di iniziative di sviluppo e valorizzazione del territorio” e prevede la possibilità che da esso gemmino patti più classici e circoscritti su tematiche e/o spazi più definiti1.
Dopo due anni di sperimentazione, contiamo 41 enti (tra ETS, PA, CSV, consorzi dei servizi sociali) aderenti al Patto e rimaniamo aperti pur con la cautela di non alterare gli equilibri che si creano ogni qual volta si introducano modifiche nella composizione di un gruppo.
Gli obiettivi del Patto possono essere così sintetizzati:
- obiettivi relazionali: imparare a comunicare e a fidarsi gli uni degli altri. Conoscersi meglio, soprattutto attraverso i difetti e le mancanze che inevitabilmente ci caratterizzano come persone e come enti;
- obiettivi informativi: i “pattisti” si impegnano ad aggiornare gli altri su cosa sta succedendo “a casa loro”, per ridurre le sovrapposizioni inefficienti tra ETS e la duplicazione di attività tra gli uffici interni alle stesse PA;
- obiettivi economici: portare sul territorio risorse economiche grazie a strategie definite insieme. Quest’aspetto attrattivo – il vantaggio immediato che alcuni, inutile nascondersi, intravedono subito nella collaborazione – è interessante. Insieme si fa massa critica e si dimostra la solidità di un territorio di fronte a qualsiasi ente erogatore; ci si aiuta a progettare mettendo insieme idee e risorse umane; si possono moltiplicare le progettualità, intercettando bandi diretti al Terzo Settore e bandi rivolti alla PA (spesso appannaggio solo delle realtà più grandi e con uffici di progettazione sviluppati, come le Città Metropolitane);
- obiettivi tecnico/formativi: il Patto è cresciuto in termini identitari e organizzativi grazie ad un progetto sostenuto da Compagnia di San Paolo e animato dagli amici di cheFare (esperti, tra l’altro, di processi culturali di comunità). Inoltre, funge da laboratorio amministrativo per l’utilizzo di strumenti del nuovo codice degli appalti (nella realtà alessandrina ancora da rodare), per lo scambio di pratiche, consigli e apprendimenti.
Gli strumenti che il Patto impiega per funzionare sono duplici: strumenti di comunicazione interna (una riunione ogni 3 mesi, una mailing list interna, una folta e articolata community whatsapp e alcune cartelle su un Drive condiviso ove raccogliere dati, bandi e stimoli) e strumenti decisionali (un regolamento leggero che definisca chi, a turno, deve: tirare le fila delle attività, sia dei gruppi tematici che delle attività di organizzazione, di comunicazione interna ed esterna; rapportarsi con l’esterno del Patto; decidere in che direzione spendere le – ancora limitate – risorse).
Al netto di queste evoluzioni, è corretto e potenzialmente istruttivo evidenziare anche i problemi che stiamo incontrato nell’ambito del Patto:
- lato ETS, emerge la paura classica nelle fasi iniziali della condivisione: se metto a sistema un mio valore, la prima cosa che potrebbe succedere prima di vederlo crescere e germogliare (anche per me) è che qualcuno me ne porti via un pezzo. Ci vuole fiducia nel sistema e negli altri, e la pazienza per costruirla;
- lato PA, le strutture sono oberate di lavoro e chiedere loro di impegnarsi a collaborare in un contesto ulteriore è complicato. Utilizzare una parte del tempo (che non si ha) in nuove relazioni non sempre viene inteso come il migliore degli investimenti da parte di dirigenti e funzionari. Anche qui, queste novità bruciano sulle ferite prima di guarirle e dare frutti positivi;
- in generale, la scarsità di risorse (tempo, persone) è un problema: far funzionare le relazioni all’interno di gruppi così eterogenei è dispendioso, progettare è dispendioso, gestire i progetti che si vincono è dispendioso. Ci vorrebbero, in questo Paese, più risorse economiche per far funzionare ecosistemi come questo, perché hanno enormi potenzialità di generare impatto, a volte più dell’investimento diretto su un singolo bisogno.
Quali prospettive per il futuro?
Abbiamo ancora 3 anni di percorso davanti: il Patto, siglato volutamente con la parte dirigenziale della PA, andrà oltre l’attuale amministrazione cittadina. Sono processi che hanno bisogno di tempo per essere valutati in termini oggettivi ed è naturale che si debbano confrontare con cambi di colore politico dell’interlocutore.
Se funzionerà, continueremo? Magari si. Magari affiancheremo (o sostituiremo) il Patto (che ha il limite – ma forse anche il vantaggio della leggerezza – di non essere un soggetto giuridico) con un consorzio, un’associazione di secondo livello, una Fondazione di comunità che possa anche attirare il dono della comunità alessandrina?
Non lo sappiamo ancora ma certamente lo scopriremo e lo decideremo tutti insieme.
Note
- Gli amici di Labsus, che i Patti li hanno inventati e li stanno manutenendo in giro per l’Italia, aggiungerebbero “e meglio misurabili”.