7 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Siamo di fronte ad uno stravolgimento del welfare aziendale per come lo conosciamo? Si tratta di una domanda legittima alla luce del recente intervento del Governo Meloni che ha aumentato la soglia dei fringe benefit a 3.000 euro per il 2022.

Questa misura che, come si legge dallo stesso Decreto Aiuti quater è vista dal Governo come una forma di sostegno per gli aumenti del costo dell’energia1, potrebbe infatti stravolgere le logiche alla base del funzionamento di quell’insieme di beni e servizi che le imprese possono destinare ai propri lavoratori come integrazione della normale retribuzione.

Il rischio che vediamo è che, con una quota così elevata di fringe benefit venga smarrita la finalità sociale del welfare aziendale, che potrebbe essere essere interpretato dalle aziende esclusivamente con una fuzione di sostegno al reddito. Per questo abbiamo cercato di capire cosa ne pensano alcuni esperti in materia.

Come funziona la normativa sul welfare aziendale

Come vi abbiamo spiegato nel corso degli anni, in primis attraverso i nostri Rapporti sul secondo welfare, la normativa che nel nostro Paese regola il welfare aziendale (cioè gli articoli 51 e 100 del TUIR, il Testo Unico delle Imposte e dei Redditi) prevede dei vantaggi fiscali per le imprese. Al contrario della normale retribuzione, se un’azienda vuole “premiare” i propri collaboratori con una quota da spendere in beni e servizi previsti dal TUIR, non è tenuta a versare allo Stato né la parte fiscale (ad esempio relativa all’Irpef) né quella contributiva (cioè inerente l’INPS).

La normativa, tuttavia, “giustifica” il favor fiscale in primo luogo per interventi che hanno una “finalità sociale” come, ad esempio, le spese per l’asilo nido o la scuola dei figli dei lavoratori, la baby-sitter, il dentista o visite mediche specialistiche, l’assistenza a familiari disabili o non autosufficienti, la previdenza complementare e così via. Si tratta di una serie di misure indicate dal comma 2 dell’articolo 51.

Accanto ad esse il Testo Unico prevede però anche altre possibilità di spesa per il tempo libero (palestra, viaggi, escursioni, abbonamenti a cinema, teatro, riviste, ecc). La ragione della presenza di queste possibilità ha delle fondamenta precise: in questo modo le cifre destinate al welfare sono spendibili anche da coloro che non hanno specifici carichi di cura (ad esempio i lavoratori più giovani che non hanno figli oppure familiari che necessitano di assistenza).

Ci sono poi i già menzionati fringe benefit che riguardano una vasta gamma di servizi e soluzioni che possono essere acquistati attraverso buoni acquisto o voucher 2. In linea di massima, questi strumenti consentono l’acquisto di qualsiasi bene o servizio: sono, in altri termini, un corrispettivo della retribuzione che viene però erogato esentasse e non in forma monetaria. Ed è proprio per questa ragione che la normativa prevede un limite annuo, pari a 258,23 euro. E proprio qui si insinua il problema.

Ora i fringe benefit mettono a rischio la natura sociale

La soglia di deducibilità dei fringe benefit è stata temporaneamente raddoppiata (sempre con scadenza entro l’anno di riferimento) nel 2020 e nel 2021 allo scopo di dare una spinta ai consumi, “stagnanti” a causa della pandemia. Anche nel 2022 questo limite è stato alzato prima a 600 euro e, pochi giorni fa, a 3.000 euro (fino al 31 dicembre).

Proprio quest’ultimo provvedimento sta sollevando non poche polemiche tra gli addetti ai lavori. L’accusa che gli viene fatta è quella di ribaltare la natura del welfare aziendale. In particolare rischierebbe di snaturare la sua finalità sociale che, come detto, ne giustifica la tassazione agevolata per le imprese. Ma cerchiamo di capire nel dettaglio le ragioni.

In primo luogo, una quota così alta di fringe benefit rischia di far “scomparire” le altre voci previste dalla normativa, a cominciare dal cosiddetto welfare “nobile”, cioè quello con chiari risvolti sociali di cui abbiamo parlato in precedenza (riguardanti educazione, cura, assistenza, ecc). Le imprese che fanno welfare sarebbero infatti scoraggiate a costruire dei piani di welfare incentrati sui bisogni sociali dei propri collaboratori. Sarebbe infatti molto più facile dare le stesse premialità attraverso buoni acquisto o carburante, che richiedono uno sforzo minore da un punto di vista organizzativo (e anche economico), ma che non vanno appunto a rispondere alle necessità sociali della popolazione aziendale.

Come ha sottolineato Emmanuele Massagli, presidente di AIWA (Associazione Italiana Welfare Aziendale) e di ADAPT, in un articolo per Il Messaggero, “l’intento della nuova norma sui fringe benefit è certamente meritevole: innalzare la soglia degli ‘speciali’ (perché temporanei) fringe benefit da 600 a 3.000 euro, sempre comprendendo al loro interno il rimborso delle bollette. A fronte della intenzione positiva, sono però molteplici le ragioni che ci fanno temere una pericolosa eterogenesi dei fini di questa misura, che finirebbe per cannibalizzare il welfare aziendale, riducendolo a una mera ‘tredicesima aggiuntiva’. Per questo AIWA è senza esitazioni contraria alla formulazione della nuova norma”.

Massagli sottolinea inoltre il rischio di “fagocitazione di tutte le misure di cui al comma 2 dell’art. 51 del TUIR (tra cui previdenza complementare, assistenza sanitaria, buoni pasto, misure per la scuola etc…) nel nuovo comma 3 in ragione della maggiore fruibilità dello strumento”. Si andrebbe insomma ad alimentare una deriva consumistica del welfare aziendale, incentrata cioè solo sull’utilizzo di buoni e voucher per l’acquisto di beni mettendo in secondo piano tutti gli aspetti sociali.

Un disincentivo immediato ad investire nel “welfare nobile”

Ci sono poi altri dettagli che destano preoccupazione. Per Martina Tombari, CEO e Fondatrice di Walà, società benefit che si occupa di consulenza e accompagnamento sul welfare aziendale, “il fatto che ci sia così poco tempo per spendere una cifra che può arrivare fino a 3.000 euro in fringe benefit non consente agli operatori e ai provider del welfare aziendale di prepararsi”.

“Anche volendo” aggiunge Tombari non ci sono le tempistiche per accompagnare le imprese e i lavoratori nell’utilizzo dei fringe verso servizi che diano una risposta ai bisogni sociali”.

Per di più vi è il rischio che gran parte delle risorse che le aziende investiranno siano spese attraverso i colossi dell’e-commerce, come Amazon o e-Bay. “È risaputo che gran parte dei fringe benefit finiscono in buoni spendibili all’interno dei grandi operatori internazionali. In questo modo non si va neanche ad incentivare il commercio e il consumo locale e di prossimità. I fringe possono essere utilizzati per costruire una ‘filiera corta’ di fornitori, esercenti e attività commerciali (come mostrano i casi di TreCuori e OlliPay, ndr), ma in questo modo i tempi sono troppo stretti”, ci ha detto Tombari.

Il welfare aziendale non ha una funzione di sostegno al reddito

Va poi ricordato un altro tema importante: il welfare aziendale non è una forma di sostegno al reddito. Alcuni ritengono che lo sia, ma si tratta di una interpretazione scorretta che nasce con il Decreto Aiuti Bis, che prevede la possibilità di utilizzare dei fringe benefit per il rimborso delle utenze domestiche di acqua, luce e gas 3. L’incremento della soglia a 3.000 euro nel Decreto Aiuti Quater, sempre legato all’emergenza energetica, ha poi estremizzato il tutto.

Ma perché il welfare aziendale non può essere considerato come uno strumento per il sostegno al reddito? Innanzitutto perché, come detto sopra, la normativa definisce una una natura sociale e non economica. Poi perché si tratta di una serie di interventi che riguardano solamente una categoria: quella dei lavoratori dipendenti.

Come ci ha detto Jorge Torre, Responsabile Contrattazione sociale e rapporto con il welfare contrattuale di CGIL Nazionale, “questa misura non arriva a tutti. Se la scelta era quella di aiutare una fetta ampia di popolazione nel pagare i consumi delle utenze domestiche, si sarebbero dovuto privilegiare misure rivolte sia a chi lavora in aziende che ne hanno le condizioni economiche, sia a chi lavora in organizzazioni in difficoltà, sia a coloro che non hanno un reddito e anche alle persone con una posizione lavorativa precaria. Avevamo proposto al Governo di avviare un confronto per un intervento strutturale di ampio respiro e di fare un ragionamento complesso in materia di cuneo fiscale e tassazione“.

Bisogna poi considerare che neanche tutti i dipendenti presenti in Italia possono godere della misura. Ad oggi il welfare aziendale è ancora diffuso a macchia di leopardo: è più presente nelle imprese del Nord e quasi per niente in quelle del Sud, in alcuni settori e nelle realtà di medie e grandi dimensioni (quasi per nulla nelle micro e piccole). E anche questo rischia di alimentare le disuguaglianze tra i lavoratori e le lavoratrici che possono accedere ai fringe.

Infine dobbiamo considerare anche il fatto che il welfare aziendale e i fringe benefit hanno un trattamento normativo differente. “A maggior ragione in una fase di crescita dei bisogni di welfare universale” continua Torre “ma occorre distinguere tra il welfare nobile, cioè quello che ha uno scopo sociale, educativo, assistenziale, pensionistico e tutto il resto, come i fringe benefit. Anche perché questi ultimi possono essere concessi anche indipendentemente da strumenti di welfare aziendale, che invece devono essere rivolti a categorie omogenee di lavoratori, posso essere definiti come atto totalmente unilaterale da parte dell’impresa senza passare dalla contrattazione e addirittura ad personam. E questo alimenta ulteriormente le differenze tra lavoratori e svilisce e limita il ruolo delle parti sociali in questo campo”, conclude Torre.

Torniamo a parlare di welfare

In sintesi, la scelta del Governo Meloni di arrivare ad un limiti di 3.000 euro per i fringe benefit appare avventata e poco lungimirante. Considerando l’inflazione può essere utile alzare l’attuale soglia in maniera strutturale, dato che è ferma dal 1986 a 258,23 euro (le vecchie 500.000 lire), ma alla luce di quanto sopra riportato a nostro avviso non sarebbe saggio salire sopra il valore di 500 o 600 euro. Questo perché, come detto, si andrebbero a svilire le prestazioni sociali ricomprese nella normativa e farebbe divenire il welfare aziendale uno strumento puramente economico.

Occorre quindi tornare a porre con forza l’accento sul valore sociale del welfare aziendale. E a questo scopo, anche in vista della Legge di Bilancio 2023, possono essere fatte delle scelte importanti da parte del Legislatore.

In primo luogo, data la sempre maggiore centralità dei fringe benefit, si potrebbero valorizzare – anche dal punto di vista fiscale – delle formule che ne permettano l’utilizzo per l’acquisto esclusivo di servizi sanitari, sociali, di assistenza e quindi rivolti alla cura della famiglia o di familiari anziani e non autosufficienti. Si tratterebbe dunque di prevedere voucher e card acquisto per servizi e beni che hanno un impatto sociale (e volendo anche ambientale) positivo. Si continuerebbe così a garantire la semplicità di utilizzo, tutelando tuttavia la natura sociale propria del welfare aziendale.

Inoltre, se si vuole ampliare la normativa con altre misure e servizi, è necessario prestare attenzione ai loro fini. In questa direzione, crediamo che sarebbe utile inserire all’interno del comma 2 dell’articolo 51 del TUIR azioni orientate al sociale, come ad esempio: la previsione di professionalità e pratiche legate all’ascolto dei bisogni e all’orientamento (come il Welfare Manager o l’Assistente sociale di fabbrica); gli investimenti in formazione continua; le misure di flessibilità organizzativa (come lo smart working).

Infine potrebbe essere determinante prevedere sgravi fiscali e incentivi per quelle imprese che fanno welfare “in rete”, anche e soprattutto con il territorio 4. Si fa riferimento a quelle iniziative che – attraverso la contrattazione, la collaborazione tra le parti sociali e la costituzione di reti di impresa o multi-stakeholder – puntano a coinvolgere il tessuto economico locale, il Terzo Settore e l’attore pubblico, allo scopo di creare servizi per i lavoratori, le loro famiglie e, in alcuni casi, anche per il territorio.

 

 

Note

  1. Come vi abbiamo spiegato qui, le risorse dei fringe potranno essere utilizzate dai lavoratori, nel 2022, anche per il pagamento o il rimborso delle utenze domestiche di acqua, luce e gas.
  2. Tra le formule più comuni ci sono: card acquisto da spendere presso catene commerciali o negozi (anche della grande distribuzione online), buoni benzina, beni e servizi connessi allo sviluppo della mobilità sostenibile, polizze assicurative.
  3. Prima di questo intervento normativo, i fringe benefit non potevano essere utilizzati per nessun tipo di rimborso, ma solo per l’acquisto diretto (solitamente tramite voucher o card acquisto) 
  4. In questo articolo abbiamo raccontato un’esperienza nata sul territorio di Parma che va proprio in questa direzione