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La pandemia ha reso evidente quanto siano importanti ammortizzatori sociali e sussidi contro la povertà, perché consentono non solo di contrastare le disuguaglianze, ma anche di stabilizzare il ciclo economico, tanto più in periodi di crisi. Alcuni dati lo testimoniano chiaramente. In Italia, il calo del reddito nel 2020, nel pieno della pandemia, è stato molto forte e pari al -2,8% in termini nominali (-2,6% in termini reali1). Questa diminuzione è stata, però, significativamente inferiore a quella del PIL, contrattosi nello stesso periodo dell’8,9%, raggiungendo un livello pari a quello del 1998 (Istat, 2021).

A tutti gli effetti la relativa tenuta dei redditi è stata possibile grazie all’aumento dei trasferimenti e delle misure di salvaguardia del reddito, soprattutto nelle aree del Paese più a rischio marginalità già prima della pandemia. Ciò non di meno, un altro insegnamento che si può trarre da questa come da altre crisi è che se l’assistenza – nel breve periodo – consente di dare respiro alle emergenze sociali, da sola non risolve il problema della mancanza del lavoro. Specialmente nei territori più fragili o che hanno un problema di strutturale debolezza, quando non una vera a e propria assenza di domanda di lavoro.

Le politiche attive del lavoro sono spesso richiamate come la soluzione a questi problemi. Ma come promuovere l’attivazione dei disoccupati e delle fasce di popolazione attiva più deboli, quando l’occupazione non c’è? Non sempre e non in ogni condizione le politiche attive da sole sono sufficienti a creare lavoro.

Esperienze pilota di Job Guarantee

In risposta a questi problemi diversi Paesi hanno di recente lanciato programmi sperimentali che puntano ad agire non sul mismatch tra domanda e offerta di lavoro, ma sulla creazione diretta di nuova occupazione. Sotto l’etichetta di Job guarantee questi programmi ribaltano le assunzioni degli approcci correnti, mettendo al centro degli interventi la domanda di lavoro territoriale e la creazione di lavoro “dignitoso”, anche prevedendo forme di compartecipazione al costo del lavoro, in alcuni casi alternative ai sussidi, in altri potendo invece cumulare reddito da lavoro e integrazioni salariali.

In Francia il programma Territoires Zéro Chômeur de Longue Durée (TZCLD) – attualmente attivo in più di 60 territori – finanzia progetti nell’economia sociale territoriale in cui le istituzioni coprono una frazione del costo del lavoro, purché i posti di lavoro creati (e pagati almeno al livello del salario minimo legale) non siano concorrenziali né con l’occupazione pubblica, né con quella privata di mercato. In sostanza devono essere nuovi posti di lavoro che non vanno a sovrapporsi con occupazioni già esistenti nel territorio.

Diversamente in Austria, il programma MAGMA (Modellprojekt Arbeitsplatzgarantie Marienthal) – sperimentato in un quartiere di Vienna, Marienthal2 – prevede finanziamenti per le imprese che assumono i disoccupati sulla base di una analisi preliminare dei bisogni territoriali insoddisfatti e dei posti di lavoro vacanti.

Il panorama di queste sperimentazioni è ancora molto vario quanto a filosofie di intervento e rapporti tra gli attori pubblici, privati e del Terzo Settore che sono chiamati a collaborare – si veda su questo il recente rapporto della Commissione Europea: Towards zero long-term unemployment in the EU: Job guarantees and other innovative approaches (2024). Tutte condividono, tuttavia, due aspetti di fondo. Il primo è che l’attivazione e la promozione dell’occupabilità da sole non bastano se slegate (come è oggi in genere) da interventi sulla domanda di lavoro territoriale. Il secondo, che la creazione diretta di lavoro sia finalizzata non solo a offrire un lavoro “dignitoso”, che manca laddove il Mercato non ne crea abbastanza, ma anche a garantire quello che serve ed è utile a rispondere ai bisogni insoddisfatti dei territori.

La disoccupazione zero non esiste. Esistono però molti bisogni insoddisfatti (sociali, ambientali, culturali, produttivi) sulla cui risposta può essere attivata nuova domanda di lavoro e di conseguenza nuova occupazione, in un lavoro di analisi e animazione territoriale che coinvolge tutte le componenti di un territorio.

E in Italia? L’esperienza romana di Territori a Disoccupazione Zero

In Italia, in questo ambito, è stata avviata da poco la sperimentazione di un progetto pilota nella città di Roma: Territori a Disoccupazione Zero. Il progetto, coordinato dalla Sapienza-Università di Roma, rientra nelle azioni “immateriali” dei Piani Urbani Integrati (PUI) di Corviale e Tor Bella Monaca finanziati dal PNRR (nell’ambito di una serie di azioni finalizzate alla rigenerazione urbana). Le fasi del progetto sono 3:

  • la conoscenza dei bisogni dei territori in oggetto e relativa mappatura dei bisogni, attraverso strumenti di analisi misti (quantitativi e qualitativi);
  • l’animazione territoriale partecipata (ovvero aperta al coinvolgimento di tutti gli attori del territorio) per la costruzione di una strategia volta alla creazione/emersione di nuova domanda di lavoro;
  • la promozione di percorsi di inserimento lavorativo che rispondano ai bisogni analizzati e mappati con il coinvolgimento del tessuto sociale e produttivo del territorio.

Il progetto, ispirato al progetto Territoires Zéro Chômeur de Longue Durée, punta come in Francia a promuovere la creazione di nuova occupazione a partire da processi di mappatura dei bisogni insoddisfatti realizzati in partenariato con gli attori sociali del territorio, utilizzando (tra le altre cose) gli strumenti della coprogrammazione e coprogettazione previsti dalla nuova normativa sul Terzo Settore. Si tratta di una sperimentazione senza un fondo di investimento nazionale che – come invece accade in Francia – copra una frazione del costo del lavoro dei posti di lavoro creati.

Vi sono tuttavia alcuni elementi che possono contribuire a definire uno schema di intervento replicabile in altri contesti.

In primo luogo, l’idea di rigenerazione urbana non solo come interventi materiali di riconversione e ristrutturazione di edifici e spazi urbani, ma anche come azioni immateriali che agiscono sulla coesione sociale, sulla creazione di lavoro e sul contrasto della povertà. In secondo luogo, l’utilizzo di una metodologia di intervento standard, ma flessibile, ovvero in grado di piegarsi alle specificità dei territori coinvolti, con l’obiettivo di mappare i bisogni insoddisfatti (sul piano sociale, ambientale, culturale, produttivo) come potenziali driver di nuova domanda di lavoro territoriale. Terzo, l’utilizzo della coprogrammazione e coprogettazione come strumenti di attivazione di interventi sociali che mettano a tema la creazione di nuovo lavoro a partire dagli investimenti, compresi quelli del PNRR, che atterrano sul territorio.

Infine, la forte spinta all’attivazione di processi partecipativi, coinvolgendo tutti gli attori locali (dalle parrocchie, alle reti del Terzo Settore, fino alle PMI) nella elaborazione di una strategia occupazionale realistica, perché attivata a partire da quello “c’è” per dare risposta a quello che “manca”.


Riferimenti bibliografici

 

Note

  1. Cioè considerando anche il peso dell’inflazione.
  2. La scelta di questa cittadina non è casuale. Marienthal è infatti celebre per essere stata oggetto negli anni Trenta della più importante (per l’epoca) ricerca sugli effetti sociali della disoccupazione da parte di Paul Lazersfeld e del suo gruppo di lavoro (Jahoda, Lazarsfeld, Zeisel 1986).
Foto di copertina: Scott Rodgerson, Unsplash.com