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Ammettere più immigrati o incentivare il lavoro femminile? Per assicurare il finanziamento del welfare dovremo in realtà fare entrambe le cose. Intanto, Giorgia Meloni si è espressa a favore della seconda opzione. Si tratta di un obiettivo che i nostri governi perseguono ormai da vent’anni, senza molti risultati. Se vuole provarci anche il primo esecutivo guidato da una donna, prendiamola in parola e valutiamolo su ciò che concretamente saprà fare.

In Italia lavorano 55 donne su 100 nella fascia d’età 20-54. Altre 15 vorrebbero trovare occupazione, ma non riescono. In parte mancano posti di lavoro congrui rispetto alle competenze, nell’area di residenza (c’è la famiglia).

L’ostacolo principale è però la conciliazione. Se ci sono figli o anziani da assistere, le donne restano intrappolate a casa. E siccome le famiglie monoreddito fanno fatica a quadrare i conti, anche di figli se ne fanno pochi, uno o al massimo due. Come ha osservato il New York Times, di questo passo l’Italia rischia di sparire.

Il modello della Svezia

Superare l’ostacolo non è facile, ma altri Paesi ci sono riusciti. La Svezia è il caso di maggior successo. Per incentivare il lavoro femminile e insieme la natalità, ha messo in piedi un sistema pubblico di conciliazione che — visto dall’Italia — è davvero strabiliante. Vale la pena di ricordarne i principali strumenti. Tenendo presente che la loro generosità ha prodotto, sì, un’elevata occupazione femminile, ma non certo un aumento della popolazione. Più semplicemente, ha consentito di mantenere il tasso di natalità intorno al 2,1 figli per donna, il minimo indispensabile per non decrescere.

Congedi e part-time

Iniziamo dai congedi parentali. Fin dal 1974, i padri svedesi hanno gli stessi diritti delle madri; oggi quasi la metà di loro sceglie di stare a casa per accudire i neonati. Il congedo retribuito è previsto per tutti i cittadini (è a somma fissa per chi non ha un lavoro dipendente). Inizialmente pari a sei mesi, la durata è stata elevata prima a 9, poi a 12, 15 e oggi è di 16 mesi indennizzati. Esaurito il congedo, i neo-genitori hanno il diritto di chiedere il part-time, se lo desiderano. Fino a che un figlio compie 12 anni, ci si può assentare dal lavoro per 60 giorni all’anno, anche se si ammala la baby sitter.

Servizi, indennità e premi

Praticamente tutti i bambini (il 100% nel caso dei lavoratori dipendenti) trova posto al nido. Solo i più benestanti devono pagare un ticket. I giovani fino a 29 anni con almeno un figlio hanno poi diritto a una indennità che copre circa la metà dell’affitto. Ma non è tutto. Per incentivare le nascite dopo la prima, lo Stato paga un «premio velocità» per chi fa un altro figlio entro 24 mesi dal precedente: il genitore non deve tornare al lavoro nel periodo fra il primo e il secondo congedo. Ora l’intervallo è salito a 30 mesi. Si calcola che tali misure abbiano contribuito a far salire la doppia natalità (due figli entro 30 mesi) dal 30% al 45% delle madri.

L’impatto sull’occupazione femminile

Grazie a questo sistema, dagli anni Settanta a oggi l’occupazione femminile è salita dal 50% all’85% di oggi (sull’insieme di donne fra i 25 e i 54 anni), una quota appena al di sotto di quella degli uomini nella stessa fascia di età. Fra le donne con figli la percentuale scende, ma di poco: 78%. In Italia, i valori sono entrambi più bassi di venti punti. Si tenga presente che molte donne svedesi hanno trovato lavoro proprio nei servizi pubblici (e un po’ anche privati) che sono indispensabili per sostenere un modello di famiglia in cui entrambi i partner lavorano.

Il costo

Tutto questo ha ovviamente ha un costo. La Svezia spende quasi il 3% del Pil per infanzia e famiglia, l’Italia meno della metà. In compenso, noi spendiamo il 18,4% per la vecchiaia, la Svezia il 12,9. Il totale della spesa sociale sul Pil è ormai uguale fra i due Paesi. Qualcuno ricorderà uno slogan degli anni Novanta: più ai figli, meno ai padri. Avremmo fatto bene a seguire il consiglio. Oggi mancano figlie e figli, diminuiscono padri e madri e cresce il numero di anziane e anziani soli.

Il caso spagnolo, a cui può guardare Meloni

Il raffronto con la Svezia ci fa capire l’enormità della sfida che dobbiamo fronteggiare (nonché la irresponsabilità di tutti i governi succedutisi nel tempo). Il problema è che oggi sarebbe irrealistico proporsi di copiare il modello svedese, costerebbe troppo. Potremmo però almeno guardare alla Spagna.

Lì il governo ha recentemente approvato un Piano d’azione significativamente chiamato Corresponsables (la natalità e il lavoro sono responsabilità di tutti), il cui obiettivo è sostenere la conciliazione e creare nuova occupazione di qualità nei territori, anche coinvolgendo il Terzo Settore. In Spagna lavorano molte più donne che in Italia e la loro quota è cresciuta più rapidamente, anche fra le madri.

Al Governo Meloni è opportuno a questo punto chiedere tre cose. Primo, dare seguito alle dichiarazioni di intenti. Secondo, non fissarsi su una sola idea (come la detrazione di 10 mila euro per ogni figlio) senza averne prima approfondito le conseguenze e senza aver studiato bene l’esperienza degli altri Paesi. Terzo, non illudersi che immigrazione e occupazione femminile siano fra loro alternative, perché sono complementari. In presenza di un problema molto serio, prendere decisioni che non guardino al lungo periodo basate su presupposti sbagliati può essere peggio che non decidere affatto.

Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 22 aprile 2023 ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore.