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Era il 28 gennaio del 2019 quando il decreto legge n. 4 istituiva il Reddito di Cittadinanza come misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale. A quasi quattro anni dall’introduzione del sussidio e alla luce del numero di nuclei che ogni anno ne hanno beneficiato (dai dati dell’Osservatorio Inps da gennaio a settembre 2022 circa 1.640.000 ne hanno percepito almeno una mensilità) si può osservare il fenomeno riflettendo su cosa lo caratterizza e sul suo ruolo nel contrasto delle disuguaglianze economiche e sociali.

Per questo abbiamo coinvolto nella riflessione Sandro Busso, sociologo e professore associato presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino, la cui ricerca si dedica da anni alle politiche sociali e al risvolto di misure come il Reddito di Cittadinanza sugli enti e sui cittadini.

Attualmente, in particolare, prende parte al Progetto PRIN denominato Contrasting Poverty through Inclusive Governance, uno studio a stretto contatto con i servizi sul territorio e con i percettori del Reddito di Cittadinanza finalizzato all’analisi qualitativa delle misure nazionali di reddito minimo recentemente introdotte in Italia, tra cui il Reddito di Cittadinanza.

Come descriverebbe il Reddito di Cittadinanza in quanto misura di contrasto alla povertà?

La misura introdotta in Italia chiamata Reddito di Cittadinanza è in realtà una forma di reddito minimo. A livello teorico, un reddito di cittadinanza si basa sul principio di universal basic income che prevede il diritto di tutti i cittadini alla sussistenza senza obblighi e condizionalità (alcune politiche sperimentali di questo tipo esistono in Alaska e in Iran).

In Italia, invece, è attiva una misura di reddito minimo che si fonda da una parte sul sostegno al reddito e dall’altra sull’attivazione che è condizione per poter percepire il sussidio. In altre parole, la possibilità di avere un aiuto economico è condizionata alla frequentazione di corsi finalizzati a un ipotetico inserimento nel mercato del lavoro oltre agli altri vincoli imposti dal provvedimento. Il meccanismo centrale su cui si fonda il Reddito di Cittadinanza in Italia è quindi quello della condizionalità: per cui chi non fa quello che viene richiesto viene escluso dal beneficio, venendo meno il diritto di percepire un sostegno economico in quanto cittadino.

Un altro meccanismo sottostante è l’intenzionalità di educare, o meglio costruire, le persone che lo percepiscono ad essere dei più abili risparmiatori e compratori (ad esempio nei corsi obbligatori di educazione finanziaria) ed essere appetibili al mondo del lavoro. Tuttavia, malgrado questa manifesta intenzionalità la misura non è stata in grado di migliorare l’accesso al mondo del lavoro.

Come si è arrivati al Reddito di Cittadinanza

Rispetto, invece, al ruolo di contrasto alla povertà, il Reddito di Cittadinanza in molti casi è stato capace di tenere moltissime persone lontane dall’indigenza più severa. Grazie al solo trasferimento monetario, tra i più generosi in Europa, è cambiata la partita della lotta contro la povertà e si è ridotta la spesa degli enti locali permettendo di ritarare l’offerta. Ha permesso un’esistenza degna a chi ha potuto beneficiarne e prima era sulla soglia della povertà, in particolare durante la pandemia (ne avevamo parlato anche qui). Sempre mantenendo un’ottica di condizionalità perlopiù europea per cui “non è accettabile dare soldi e basta” e in qualche modo se si vuole uscire dalla povertà bisogna meritarselo. Per questo, nonostante l’impatto potentissimo che il Reddito di Cittadinanza ha avuto su moltissimi nuclei sulla soglia o in stato di grave povertà, si è rafforzata l’idea che il diritto a essere sostenuto economicamente è subordinato allo svolgere tutto quello che ti richiede chi ti dà il beneficio.

Si dimostra dunque una misura ambivalente, con una condizionalità molto forte e con un regime sanzionatorio eccessivo. Il mio punto di vista personale è che il Reddito di Cittadinanza ha sostenuto come mai era stato fatto prima il reddito delle famiglie, ma è una misura che ha fallito e non ha funzionato nel suo intento maggiormente promosso dagli slogan: rivoluzionare il mondo del lavoro.

In che misura il Reddito di Cittadinanza, per come è stato proposto e realizzato, si è costituito come una misura inefficace nel favorire l’inserimento lavorativo?

Il Reddito di Cittadinanza, complice la pandemia, la scarsa domanda del mercato e l’impossibilità di inventare nuovi posti di lavoro, si è dimostrato deficitario nel suo aspetto maggiormente auspicato, quello dell’attivazione e dell’offrire lavoro ai disoccupati.

Anche chi poteva e voleva lavorare non ha quasi mai ricevuto offerte adeguate al sostentamento e sufficienti per non avere più bisogno del sussidio. Ci sarebbe da fare una riflessione su cosa significhi essere una persona abile al lavoro. Cosa vuol dire non poter lavorare? Significa avere un’invalidità conclamata che ti impedisce di lavorare? O magari questi impedimenti derivano anche dal contesto in cui manca la domanda stessa di lavoro? Ho intervistato un gran numero di cinquantenni e sessantenni che hanno perso il lavoro dopo aver fatto per trent’anni gli operai in fabbrica e che sono stati messi da parte; tutti quanti preferirebbero la condizione di lavoratore alla condizione di beneficiario di Reddito di Cittadinanza.

Dieci domande (e risposte) sul Reddito di Cittadinanza

La misura di per sé non ha avuto nessuna ripercussione sul contesto del lavoro, ma si è concentrata solamente sul singolo individuo seguendo un principio di responsabilizzazione per cui la possibilità di trovare un lavoro dipende dall’essere responsabilizzato a tirarsi fuori dal proprio stato di povertà. In sostanza, se non trovi un lavoro “è un problema tuo”, in accordo con un modello di welfare di tipo neoliberale che dagli anni ’80 è dominante in Europa e non prevede forme di attivazione sistemiche. Questa retorica meritocratica sfocia nella colpevolizzazione del povero che può uscire dal suo status e ricevere aiuti solamente se si responsabilizza.

In questo modello spariscono i diritti: perché infatti una sussistenza economica non è da considerare un diritto al pari della salute? Rappresenta un grande paradosso il fatto che in una società in cui manca il lavoro e che tende ad impoverire, chi vorrebbe lavorare non solo è penalizzato dal contesto, ma anche viene considerato responsabile del suo stato di disoccupato.

Si può fare un confronto, in particolare rispetto al livello della povertà, tra il prima e il dopo Reddito di Cittadinanza?

Per poter effettivamente rispondere a questa domanda bisognerebbe osservare la situazione controfattuale: ovvero, si dovrebbe conoscere lo scenario che si sarebbe verificato senza il Reddito di Cittadinanza alla luce della pandemia e del periodo storico.

I dati Istat riscontrano una crescita continua della povertà. Tuttavia, osservando i grafici si evince una crescita più graduale senza un’impennata, forse più prevedibile in un contesto di crisi economica post pandemia. C’è inoltre da constatare che il reddito minimo non porta fuori dalla povertà.

Prendiamo, ad esempio, il massimo erogabile dalla misura corrispondente alla cifra di circa € 790 e riservato a chi ha reddito zero. Chi ne ha diritto rimane comunque sulla soglia della povertà, considerato il costo della vita, tuttavia in una condizione economica nettamente più favorevole. Inoltre, dal confronto con i servizi sociali, l’impressione è che con la pandemia la povertà sarebbe stata molto più estrema e che da quando c’è il Reddito di Cittadinanza le richieste di sussidi economici per la sola sussistenza siano diminuite.

Fare un confronto sul prima e il dopo pone davanti il problema di capire che lente si usa per giudicare la misura. Se ci si basa sul principio di efficacia, si osservano i numeri e si possono fare delle riflessioni su quanto sia servita o meno la misura. Se ci si allontana dai singoli dati e ci si chiede se il Reddito di Cittadinanza è stata una misura giusta, la riflessione verte su come ha contrastato le disuguaglianze, per esempio permettendo a molte persone, anche se con dei significativi distinguo, di uscire dalla condizione di non avere alcun reddito, situazione di per sé ingiusta.

Come dovrebbe evolvere la misura per rispondere meglio ai bisogni della popolazione?

In primo luogo non penso che la questione centrale su cui dovrebbe ritirarsi il Reddito di Cittadinanza sia il problema degli importi ma piuttosto la questione della platea. Cioè bisognerebbe rendere effettivo il principio di universalismo selettivo che in questo caso vorrebbe dire che tutti hanno il diritto al beneficio purché poveri.

Invece, il quadro attuale ci mostra che moltissimi stranieri in stato di grave povertà sono esclusi in quanto non italiani e non a lungo soggiornanti. Inoltre, si dovrebbe superare il modello della condizionalità, garantendo la possibilità e il diritto di avere un reddito a tutti coloro che si trovano nella condizione di bisogno.

Reddito di Cittadinanza: il tema centrale dell’occupabilità

Un altro aspetto su cui bisognerebbe riflettere è il mezzo ambivalente della carta, che lega i beneficiari a un certo tipo di merce. Dare i soldi alle persone senza la carta rappresenterebbe una garanzia di dignità e sarebbe un segnale importante in opposizione alla colpevolizzazione del povero. Di fatto, sarebbe da rivedere anche tutto l’impianto di quello che viene chiesto ai servizi e ai beneficiari per forzare un’attivazione che di fatto non potrà esserci a causa della mancanza di posti di lavoro pagati adeguatamente.

Consideriamo l’effetto che il Reddito di Cittadinanza ha avuto sul contesto: l’impossibilità di risparmiare e accumulare il contributo mensile ha fatto sì che i soldi versati per forza di cose sono stati messi in circolo, con la certezza assoluta che quei soldi sono stati pompati nell’economia. L’altra faccia della medaglia è che l’utilizzo della carta in luogo dei contanti ha rivoluzionato i luoghi d’acquisto. Ha tagliato una fetta di economia informale e del mercato in cui più tipicamente sono utilizzati i contanti e favorito la grande distribuzione. Ma questi ragionamenti sarebbero da approfondire con studi dedicati.

Un ultimo aspetto da considerare è che in una certa misura il Reddito di Cittadinanza ha permesso ai beneficiari di non accettare lavori sottopagati. Più il welfare è generoso più potere viene garantito ai lavoratori in particolare in un paese in cui non esiste il salario minimo: chi non ha niente, va a lavorare anche per un salario di pochi centesimi all’ora.

Cosa potrebbe fare il Reddito di Cittadinanza per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro?

Servirebbe il lavoro. I percorsi avviati di avvicinamento al lavoro (in molti casi necessari) non si sono arenati sulle competenze, ma sulla competizione e sulla mancanza di meccanismi per incentivare a tenere un lavoro. L’impianto di condizionalità obbliga i beneficiari a dedicare molte ore ai PUC (progetti utili alla collettività), che tra l’altro richiedono un gran numero di risorse messe in campo dai servizi. I PUC rispecchiano un modello di workfare per cui chi è sussidiato deve prestare un lavoro alla comunità, tuttavia con un rapporto sproporzionato di ore di lavoro rispetto alla cifra garantita dal sussidio. Bisognerebbe ribaltare la prospettiva, spostando il focus dai poveri ai processi di impoverimento.

Sono pochissime, infatti, le politiche che evitano l’impoverimento malgrado ci siano molti fenomeni sociali che mettono in luce come ci sia una spinta alla povertà. È il caso di chi ha perso il lavoro e non l’ha più trovato, di chi è stato licenziato perché non abbastanza produttivo, di chi si sente dire “Vai a lavorare!” ma che anche cercando un impiego non riesce a trovarlo. È il caso dei working poor: le numerosissime persone che, pur lavorando, versano in una condizione di povertà.

 

Questo articolo è uscito sul numero 3/2022 di Rivista Solidea, pubblicazione promossa dall’omonima Società di mutuo soccorso e parte del network del nostro Laboratorio.
Foto di copertina: Annete Fischer