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Sul numero 2/2019 di Welfare Oggi Chiara Agostini ricostruisce il percorso che ha portato all’introduzione del Reddito di Inclusione e del Reddito di Cittadinanza e propone alcune riflessioni sulle differenze fra le due misure e sulle prospettive che si aprono con l’avvio del Rdc. Il lavoro si articola in tre sezioni. La prima analizza le sperimentazioni che hanno preceduto l’introduzione del REI. La seconda sezione presenta il REI e alcuni dati relativi al primo anno di attuazione. La terza sezione si concentra sul RdC e in particolare sulla platea potenziale, sulle categorie che beneficeranno del passaggio dal REI al RdC e quelle che al contrario saranno penalizzate, sulle tipologie di beneficiari e sui percorsi di inclusione lavorativa.

Introduzione

Nel quadro del nostro sistema di protezione sociale, alcuni rischi sono tradizionalmente poco considerati e ricevono limitate risorse pubbliche attraverso programmi ancora rudimentali. Tradizionalmente, lo sviluppo di una solida politica di contrasto alla povertà è stato ostacolato dalla presenza di istituzioni di welfare in cui l’accesso alla protezione sociale è funzione della partecipazione al mercato del lavoro e i benefici sono quindi legati al possesso di un reddito. Inoltre, durante la Seconda Repubblica la lotta alla povertà non è mai stata una priorità politica.

Solo a partire dal 2018, con l’introduzione del Reddito di Inclusione (REI) prima e del Reddito di Cittadinanza (RdC) poi, l’Italia si è avvicinata agli altri Paesi europei che possiedono un “reddito minimo di inserimento”, ovvero una misura nazionale a sostegno di tutte le persone in povertà.

Il REI e il RdC hanno innovato le politiche di contrasto alla povertà sotto due principali aspetti. In primo luogo, in un contesto in cui la lotta alla povertà ha tradizionalmente giocato un ruolo residuale, l’introduzione di queste misure muove nella direzione di una ricalibratura del sistema di welfare intervenendo sulla distorsione funzionale (Ferrera 2012). Con quest’ultima espressione si intende la distribuzione diseguale di protezione dei diversi rischi sociali. Molte risorse sono tradizionalmente destinate ad alcuni rischi (in primis la vecchiaia, attraverso un sistema pensionistico ipertrofico), mentre altri rischi (tra cui la povertà) sono poco considerati e ricevono poche risorse pubbliche attraverso programmi ancora rudimentali.

In secondo luogo, il REI e il RdC hanno posto fine all’epoca delle sperimentazioni. In Italia, schemi di reddito minimo sono stati sperimentati in alcune città fin dalla fine degli anni settanta (Torino 1978, Ancona 1981, Catania 1983, Milano 1989). Successivamente, a partire dal 1998 e su impulso della normativa nazionale, il reddito minimo è stato sperimentato in alcune città (39 nel corso del primo biennio di sperimentazione e 306 nei due anni successivi) (Matsaganis et al 2003).

In questo quadro, il presente lavoro ricostruisce il percorso che ha portato all’introduzione del REI e del RdC e propone alcune riflessioni sulle differenze fra le due misure e sulle prospettive che si aprono con l’avvio del Rdc. Il lavoro si articola in tre sezioni segue. La prima analizza le sperimentazioni che hanno preceduto l’introduzione del REI e mostra la complessità del processo che ha portato all’introduzione della misura e la gradualità con cui i governi che si sono succeduti hanno via via incrementato le risorse disponibili e allargato la platea dei beneficiari. La seconda sezione presenta il REI e alcuni dati relativi al primo anno di attuazione. La terza sezione si concentra sul RdC e in particolare sulla platea potenziale, sulle categorie che beneficeranno del passaggio dal REI al RdC e quelle che al contrario saranno penalizzate, sulle tipologie di beneficiari e sui percorsi di inclusione lavorativa.

Prima del Reddito di Inclusione

La Carta acquisti ordinaria e la Nuova carta acquisti

Nel 2008, per combattere la povertà fu introdotta, dall’allora Governo Berlusconi, la Carta Acquisti: una carta di debito, dell’importo di 40 euro mensili, pensata principalmente per i pensionati e finalizzata all’acquisto di generi di prima necessità presso punti vendita convenzionati.

Nel 2011, fu prevista una riforma di questa carta e una sperimentazione (del valore di 50 milioni di euro) da realizzare in 12 Comuni con più di 250.000 abitanti. La caduta del Governo Berlusconi nel novembre 2011 portò al rinvio del provvedimento, che fu però “ereditato” dal Governo Monti che, con il DL 5/2012, diede vita alla Nuova Carta Acquisti (NCA) rivolta alle famiglie in povertà con almeno un minore e condizionata alla sottoscrizione, da parte del beneficiario, di un percorso di inclusione sociale di competenza dei servizi sociali comunali.

La sperimentazione (della durata di 12 mesi) partì nell’estate del 2013 con una dotazione finanziaria (i citati 50 milioni) che consentiva di raggiungere meno del 10% dei nuclei familiari in possesso dei requisiti d’idoneità. In questa fase, i requisiti erano particolarmente stringenti. Il nucleo, nel quale doveva essere presente un figlio minorenne, doveva avere un Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE) – strumento che permette di valutare la situazione economica delle famiglie considerando congiuntamente il redito, il patrimonio e la composizione del nucleo – complessivo inferiore o uguale a 3.000 euro, non possedere una casa di proprietà del valore (calcolato ai fini ICI) superiore a 30.000 euro, né un patrimonio mobiliare e immobiliare superiore a 8.000 euro. Il valore dei trattamenti assistenziali, delle indennità o delle pensioni non doveva superare i 600 euro mensili. Infine, con riferimento alla condizione lavorativa, i componenti in età attiva dovevano essere inattivi, ma almeno uno di essi doveva aver cessato un’attività lavorativa nei 36 mesi precedenti la richiesta.

A settembre del 2014, quando la misura era stata attivata in 11 delle 12 città oggetto della sperimentazione, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali fece un primo bilancio (Ministero del Lavoro 2014). Le esigue risorse stanziate non furono esaurite. Le amministrazioni comunali impiegarono una quota che, a seconda delle città, andava dalla metà ai due terzi del totale delle risorse. Complessivamente solo il 30% dei fondi disponibili furono assegnati (Agostini 2014). I nuclei beneficiari erano comunque stati oltre 6500, pari complessivamente a quasi 27 mila personeche avevano percepito in media 334 euro al mese.

Il Sostegno all’Inclusione Attiva

A giugno del 2013, il Governo Letta istituì un “gruppo di lavoro sul reddito minimo”. A settembre dello stesso anno, il gruppo presentò la proposta per l’introduzione del Sostegno all’Inclusione Attiva – SIA, una misura universalistica (ovvero che non condiziona l’intervento alla presenza di una qualche caratteristica individuale o familiare ma tiene conto solo dell’insufficienza delle risorse economiche). Anche in questo caso, l’erogazione del sussidio avrebbe dovuto accompagnarsi alla sottoscrizione di un percorso di inclusione.

Nonostante l’intenso lavoro svolto dal gruppo di esperti, nel settembre del 2013, il disegno di legge di stabilità per il 2014 non stanziò il miliardo e mezzo che il gruppo di lavoro considerava quale “limite minimo di impegno finanziario” (Ministero del Lavoro 2013; 19) necessario per avviare la misura. Un complicato lavoro di recupero di risorse provenienti da fonti diverse (anche comunitarie) permise tuttavia di prevedere l’estensione della NCA che da ora in avanti prenderà il nome di Sostegno all’Inclusione Attiva (SIA). In particolare, la Legge di Stabilità 2014 estese la sperimentazione alle regioni del Centro Nord, mentre pochi mesi prima la misura era già stata estesa alle regioni del Sud (Decreto lavoro 76/2013).

La Legge di Stabilità 2016

Nel 2015, il Governo Renzi intervenne in maniera incisiva sul fronte del contrasto alla povertà. In particolare, gli ultimi mesi dell’anno rappresentarono uno snodo centrale per via dell’inserimento, nella Legge di Stabilità 2016, di provvedimenti che gettarono le basi per la nascita di una misura nazionale di lotta all’indigenza.

In primo luogo, fu prevista l’adozione di una Legge Delega per la definizione di una “misura unica nazionale di contrasto alla povertà” (quindi, anche se ancora non era così definito, il Reddito di Inclusione). In secondo luogo, fu istituito il Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale e, per la prima volta, furono previsti finanziamenti strutturali (ovvero stabilmente iscritti nel registro di finanza pubblica) in materia di lotta alla povertà. In particolare, furono stanziati 380 milioni che, unitamente a risorse recuperate da precedenti stanziamenti, furono impegnati per estendere ulteriormente il SIA. Nei fatti, grazie a una dotazione complessiva di 750 milioni, il SIA divenne una “misura ponte” volta a sostenere, in tutto il territorio nazionale e in attesa del REI, le famiglie in povertà. La Legge di Stabilità approvò infine lo stanziamento, a decorrere dal 2017, di 1 miliardo l’anno a regime.

L’attuazione del “SIA ponte”, l’emanazione della Legge Delega e l’introduzione del REI

Nel corso del 2016 e del 2017 l’evoluzione della politica di contrasto alla povertà proseguì su due differenti binari. Da un lato, si procedette all’attuazione del “SIA ponte” realizzando anche una serie di estensioni che hanno ampliato la platea dei beneficiari; dall’altro presero il via i lavori che portarono prima all’emanazione della Legge Delega e poi all’introduzione di quello che sarebbe diventato il REI.Il SIA fu esteso a tutto il territorio nazionale con un decreto del 26 maggio 2016. Rispetto alla NCA, il “nuovo” SIA ridefinì, rendendoli più inclusivi, i requisiti del nucleo familiare richiedente (Agostini, Bandera 2018) e la misura divenne effettivamente operativa il 2 settembre 2016.

Pochi mesi dopo l’entrata in vigore del SIA, la Legge di Bilancio 2017 aumentò ulteriormente le risorse prevedendo, tra l’altro, un incremento a regime di 150 milioni del Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Complessivamente le risorse disponibili salirono a circa 1,2 miliardi per il 2017 e a 1,7 miliardi per il 2018. Tuttavia, il 17 gennaio 2017, nel corso di un’audizione parlamentare il Presidente dell’Inps dichiarò che, a pochi mesi dall’avvio della misura su scala nazionale, molte persone in stato di bisogno erano di fatto escluse dal SIA: su 208.350 domande presentate nel 2016, solo 58.865 (29%) erano state accolte, soprattutto a causa di vincoli troppo restrittivi nella valutazione multidimensionale del bisogno. Nel marzo 2017, uno specifico decreto ridusse da 45 a 25 il punteggio necessario per accedere al SIA, allargando inoltre i benefici per i casi più gravi.
Il Disegno di Legge Delega sulla povertà fu presentato dall’allora Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, l’8 febbraio 2016 alla Camera, che approvò il provvedimento il 14 luglio. A causa della caduta del Governo Renzi in dicembre il provvedimento conobbe una fase di stallo e solo dopo più di un anno (marzo 2017) dalla presentazione al Parlamento, la Legge Delega fu licenziata dal Senato.
Il Governo Gentiloni ricevette quindi il mandato di adottare decreti legislativi per introdurre una misura nazionale di contrasto alla povertà individuata dalla Legge Delega come Livello Essenziale delle Prestazioni (LEP): a fronte dell’autonomia di Regioni ed enti locali nel campo delle politiche sociali, la nascente misura avrebbe dovuto comunque essere garantita omogeneamente su tutto il territorio nazionale. Per la prima volta una misura di lotta all’indigenza era riconosciuta come un diritto soggettivo di quanti si trovano in povertà.
Il 15 settembre 2017, il Governo Gentiloni attuò la delega istituendo, a decorrere dal 1° gennaio 2018, il Reddito di Inclusione (REI).  In questa fase il REI, in linea con quanto previsto in precedenza dal SIA “ponte”, poteva ancora essere definito “categoriale” e non “universalistico”, dato che riconosceva precedenza alle famiglie con minori, con disabili gravi, e a persone con altri requisiti specifici.
Prima ancora di entrare in vigore, però, la Legge di Bilancio per il 2018 trasformò il REI in una misura (almeno sulla carta) universalistica. Fu infatti prevista la decadenza di tutti i requisiti di accesso riguardanti le caratteristiche del nucleo familiare e l’accesso fu vincolato esclusivamente al possesso di una serie di condizioni relative alla residenza e alla situazione economica. In particolare, a partire dal mese di gennaio 2018, tutti i disoccupati di età superiore ai 55 anni divennero possibili destinatari del beneficio; a partire da luglio 2018 fu prevista la decadenza di tutti i requisiti relativi alla composizione del nucleo familiare e un beneficio superiore del 10 per cento per i nuclei familiari con 5 o più componenti.

L’estensione della platea dei beneficiari e l’incremento del beneficio sono stati resi possibili dal maggiore impegno finanziario da parte del Governo nella già citata Legge di Bilancio 2018. Infatti, Il Fondo Povertà è stato incrementato di 300 milioni nel 2018, 700 milioni nel 2019 e 900 milioni nel 2020.

L’attuazione del REI

Se da un lato l’introduzione del REI ha aperto la strada alla ricalibratura del welfare italiano, dall’altro, le cifre relative alla sua attuazione non sono certo stravolgenti. Nel 2018, sono stati erogati benefici economici a 462 mila nuclei familiari e le persone coinvolte sono state complessivamente 1,3 milioni. La maggior parte dei benefici (pari al 68% dell’importo complessivo erogato che ha riguardato il 71% delle persone coinvolte) sono stati erogati nelle regioni del Sud. In particolare, il 46% dei nuclei beneficiari di REI (50% delle persone coinvolte), risiedono in sole due regioniCampania e Sicilia. Seguono Puglia, Lazio, Lombardia e Calabria, che coprono un ulteriore 29% dei nuclei e il 27% delle persone coinvolte.

Il tasso di inclusione del REI – ovvero il numero di persone coinvolte ogni 10.000 abitanti – a livello nazionale è pari a 220. I valori più alti si registrano in Sicilia, Campania e Calabria, dove raggiunge rispettivamente 634, 603, 447; quelli più bassi riguardano Trentino Alto Adige e in Friuli Venezia Giulia, con valori di 28 e 37). Altro dato interessante riguarda la percentuale di nuclei extracomunitari che hanno beneficiato della misura: l’11%; al Nord questa incidenza sale tuttavia al 29%. Per il 2018, l’importo medio mensile del REI è stato pari a 296 euro, ma la variabilità territoriale è elevata. Si va, infatti, dai 237 euro in Valle d’Aosta ai 328 euro per la Campania. Nel complesso, nelle regioni del Sud sono erogati benefici con un importo mensile medio più alto di quelle del Nord (51 euro, +20%) e di quelle del Centro (34 euro, +12%) (Inps 2019a).

Il beneficio è stato erogato attraverso una carta di pagamento elettronica (Carta REI) ricaricata automaticamente dallo Stato da utilizzare per gli acquisti presso esercizi abilitati al circuito Mastercard, per pagare le utenze presso gli uffici postali e per prelevare contante. Il beneficio è concesso per un periodo massimo di 18 mesi ed era prevista la possibilità di rinnovo (non prima di sei mesi dall’erogazione dell’ultima mensilità) per ulteriori 12 mesi.

La parte attiva della misura consisteva in un “progetto personalizzato” volto a promuovere l’inclusione sociale e/o lavorativa della persona in povertà e che doveva essere definito in accordo con i servizi sociali comunali. Il progetto personalizzato coinvolgeva l’intero nucleo familiare e prevedeva specifici impegni da parte della famiglia e interventi erogati dai servizi competenti (es. svolgimento di un tirocinio formativo, supporto alla genitorialità). Gli interventi da includere nel progetto erano stabiliti sulla base di una complessa valutazione delle problematiche e dei bisogni del nucleo. Questa valutazione teneva conto ad esempio della situazione lavorativa, del profilo di occupabilità, dell’educazione, istruzione e formazione, della condizione abitativa e delle reti familiari, di prossimità e sociali di cui disponeva il richiedente. Nei casi in cui la condizione di povertà si legava esclusivamente alla mancanza di lavoro, la normativa sul REI prevedeva che il progetto personalizzato fosse sostituito da un “patto di servizio” stipulato fra il beneficiario disoccupato e il Centro per l’impiego su indicazione dei servizi comunali.

Il Reddito di Cittadinanza

La normativa definisce il RdC quale misura “di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale (…)”. Nel caso in cui i beneficiari siano persone di età pari o superiore a 67 anni, il Rdc è denominato Pensione di Cittadinanza (PdC). In linea con le precedenti misure, il RdC consiste in un beneficio economico erogato mensilmente attraverso una carta elettronica (Carta RdC). Il godimento del beneficio è vincolato all’adesione a un percorso personalizzato di accompagnamento al lavoro o di inclusione sociale. Come si vedrà più avanti, la normativa prevede anche la possibilità che i RdC sia erogato in assenza di condizionalità.

Requisiti per l’accesso e platea potenziale

Con riferimento alla platea dei potenziali beneficiari, il RdC fissa requisiti stringenti rispetto alla residenza e al soggiorno; il richiedente se straniero deve infatti essere titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Inoltre, tutti i richiedenti devono risiedere in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo.

Con riferimento ai limiti reddituali e patrimoniali, il RdC si mostra invece più generoso rispetto al REI, la soglia Isee di accesso sale infatti da 6.000 a 9.360 euro e il valore massimo del patrimonio immobiliare da 20.000 a 30.000 euro . Il RdC è anche più generoso rispetto all’ammontare del beneficio che può arrivare (per un individuo singolo) a 750 euro mensili. Le risorse disponibili per l’attuazione della misura salgono invece a 7.100 milioni di euro per il 2019, a 8.055 milioni di euro per il 2020 e 8.317 milioni di euro per il 2021. Inoltre, la Legge di Bilancio per il 2019 ha preservato le somme che erano state destinate al rafforzamento dei servizi territoriali nel quadro del REI. Si tratta complessivamente di 347 milioni per il 2019, 587 milioni per il 2020 e 615 per il 2021.

Se guardiamo alla platea potenziale del Reddito di Cittadinanza, ovvero alla quota di popolazione che la misura potrà effettivamente raggiungere; gli annunci circolati all’inizio del 2019 riferivano una platea di 1,7 milioni di nuclei familiari corrispondenti a quasi 5 milioni di persone. In realtà già con l’approvazione del decreto, il Governo ha corretto il tiro, la relazione tecnica che lo accompagna stima infatti una platea di poco più 1 milione 335 mila nuclei beneficiari calcolati al lordo degli stranieri e che quindi scenderanno a 1 milione e 200 mila circa. La relazione non fornisce invece una stima relativa al numero di persone.

Ulteriori stime sono poi state realizzate da Inps (2019b), Istat (2019)e Inapp (2019). Ne emerge un quadro abbastanza complesso in cui la platea, calcolata ipotizzando il caso in cui l’85-90% degli aventi diritto facciano domanda (take-up), oscilla dai 2 milioni 400 mila destinatari ai 3 milioni 400 mila. Una certa incertezza riguarda anche i costi della misura, sulla base della platea stimata la spesa oscilla infatti fra i 6,6 e gli 8,5 miliardi.

Tabella 1. La platea potenziale del Reddito di Cittadinanza, Relazione Tecnica Governo


RdC: chi perde e chi vince

I grandi penalizzati dal Reddito di Cittadinanza sono in primo luogo gli stranieri, come abbiamo visto rispetto al REI il requisito della residenza è stato infatti portato da due a dieci anni. In secondo luogo, con il RdC vincono i nuclei singoli e perdono quelli con i minori, in particolare quando si tratta di famiglie numerose. I nuclei monocomponente, che nel 2018 hanno costituito appena ¼ delle famiglie beneficiarie del REI  costituiranno il 55% della platea complessiva (Inps 2019b). Se guardiamo invece all’allocazione delle risorse (Istat 2019), vediamo inoltre che i nuclei singoli riceveranno il 42,5% degli stanziamenti complessivi, mentre le famiglie con minori (comprese quelle monogenitoriali) riceveranno il 32,9% delle risorse disponibili (tabella 2).

Tabella 2. Famiglie beneficiarie del RdC per tipologia

 

L’Inps (2019c) ha stimato inoltre gli importi dei benefici per tipologia di nucleo. E il quadro per i minori purtroppo peggiora. Infatti, se un singolopercepisce 780 euro, un genitore solo con un minore riceve appena 100 euro in più; e questo importo è inferiore a quello previsto per due adulti (980). In sostanza, due adulti ricevono un beneficio più generoso rispetto a quello che riceve un genitore solo con un minore a carico. Il problema nasce dal fatto che il RdC fissa un livello di protezione molto elevato per i nuclei monocomponenti e per esigenze di contenimento di spesa ha poi adottato una scala di equivalenza estremamente restrittiva  (Inps 2019b).

Le tre tipologie di beneficiari

Se consideriamo gli obblighi che accompagnano il godimento del RdC, la normativa prevede tre differenti categorie di utenti. In primo luogo, ci sono le famiglie che non sono soggette agli obblighi relativi alla sottoscrizione di un percorso lavorativo o di inclusione. Si tratta di nuclei formati da componenti già occupati oppure che si trovano in condizioni di non occupabilità (minorenni, studenti o comunque persone in formazione, anziani, disabili o persone con carichi di cura). Queste famiglie percepiscono il sussidio economico senza ulteriori vincoli.

In secondo luogo, ci sono le famiglie soggette all’obbligo di sottoscrivere un patto per il lavoro. Si tratta dei nuclei familiari in cui almeno un componente è immediatamente attivabile poiché presenta almeno una delle seguenti caratteristiche:

  • essere non occupato da non più di due anni;
  • essere maggiorenne e avere un’età inferiore a 26 anni;
  • essere beneficiario – attuale o fino a non più di un anno prima – della NASPI o di un altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria;
  • avere già sottoscritto un Patto di servizio (in corso di validità) presso i Centri per l’impiego, come previsto dalla normativa del Jobs Act (D.Lgs. 150/2015).

Tutte le altre famiglie con almeno un componente non escluso dagli obblighi e nessun componente occupabile sono inviate ai Comuni per la presa in carico dei servizi sociali con condizionalità meno gravose di quelle previste per il percorso lavorativo (Pesaresi 2019a).Rispetto al numero di persone che accederanno ai diversi percorsi sono disponibili alcune stime curate dall’INAPP e dall’Ufficio parlamentare di Bilancio (UPB 2019). Se facciamo una media fra le due stime vediamo che il 24% sarà inviato ai percorsi lavorativi (CPI), il 40,8% ai servizi sociali (Comuni) e il 35,2% riceverà solo il sussidio economico (tabella 3).

Tabella 3. Le tipologie di beneficiari, stima INAPP e Ufficio parlamentare di bilancio


I percorsi lavorativi e i Centri per l’Impiego

Mentre le persone inviate ai servizi sociali saranno gestite in continuità con quanto fatto fino a oggi con il REI, una grande incognita riguarda invece quel 24% di utenti che sarà indirizzato verso i percorsi lavorativi. Si tratta di oltre 300.000 famiglie ma potenzialmente le persone che potrebbero rivolgersi ai CPI sono potenzialmente molte di più. Questo in primo luogo perché all’interno di un medesimo nucleo familiare più persone possono aver bisogno di attivare un percorso lavorativo. In secondo luogo, va considerato che alla presa in carico da parte dei Servizi Sociali può seguire l’invio ai CPI. Le persone che potrebbero aver bisogno di un patto per il lavoro potrebbero arrivare a 800.000 (Pesaresi 2019a).

Con l’avvio del RdC le funzioni dei CPI si ampliano in maniera significativa (Pesaresi 2019b). L’attribuzione di queste nuove funzioni si scontra tuttavia con l’attuale debolezza delle strutture. Attualmente i CPI contano 7.934 unità di personale e nel complesso (prima ancora dell’introduzione del RdC) l’83,5% dei CPI considerava il proprio personale insufficiente; con una richiesta di personale pari a 11 unità per ciascun CPI (Anpal 2018). I dati Istat (2018a) mostrano inoltre lo scarso ruolo giocato dai CPI nell’intermediazione, ovvero al modo in cui contemporaneamente un lavoratore ottiene un posto di lavoro e un’impresa trova il lavoratore di cui necessita. Nel 2017, solo il 2,4% di chi ha trovato lavoro giudicato utile l’essersi rivolto a un CPI.

In questo contesto, la Legge di Bilancio 2019 ha previsto tre interventi volti a potenziare i CPI.  In particolare, attraverso: 1) lo stanziamento di un miliardo di euro (sia per il 2019 sia per il 2020). Questa somma è stata tuttavia ridotta a 480 milioni di euro per il 2019 e a 420 milioni per il 2020 dal Parlamento, nel corso della conversione in legge del Decreto; 2) l’autorizzazione per le regioni ad assumere fino a 4.000 unità di personale nei CPI; 3) l’autorizzazione ad “Anpal servizi spa” ad assumere (con contratti di collaborazione coordinata e continuativa) personale (i cosiddetti navigator) che avrà il compito di seguire il beneficiario nella ricerca del lavoro, nella formazione e nel reinserimento professionale. A questo scopo è stata prevista una spesa di 200 milioni di euro nel 2019 e di 250 milioni nel 2020. Tuttavia è chiaro che un potenziamento di questo tipo non può essere realizzato in tempi brevi; è quindi evidente che nei prossimi mesi saranno erogati i sussidi economici e i percorsi di accompagnamento al lavoro riguarderanno una quota molto esigua di beneficiari.

Considerazioni conclusive

Negli ultimi anni, l’impegno dei governi sul fronte del contrasto alla povertà è cresciuto notevolmente favorendo la ricalibratura di un sistema di welfare in cui la lotta alla povertà è stata tradizionalmente residuale.

Il percorso del REI è stato caratterizzato da una certa gradualità nell’incremento delle risorse e della platea dei beneficiari e il disegno della misura è stato lungamente sperimentato prima di diventare definitivo. Al contrario, l’introduzione del RdC è stata invece repentina e le scelte compiute in merito al disegno della misura sembrano scontare l’eccessiva fretta con cui il Governo ha voluto introdurlo.

Senza dubbio, molti aspetti del RdC sono stati migliorati nel corso del tempo. Questo è vero, in particolare, se pensiamo alla prima formulazione della misura (proposta di legge avanzata nel 2013 dal Movimento 5 Stelle) o al dibattito politico delle settimane immediatamente successive all’insediamento del Governo Conte. In quella fase, il RdC somigliava più a una politica del lavoro che a una politica di contrasto alla povertà. Il RdC infatti appiattiva il concetto di povertà esclusivamente sull’assenza di lavoro e, di conseguenza, attribuiva tutte le competenze ai CPI a scapito dei servizi sociali comunali che erano invece i protagonisti del REI.

Il lavoro è ancora al centro della campagna di comunicazione sostenuta dal Governo, in proposito si pensi che lo slogan del RdC è “una rivoluzione nel mondo del lavoro”. Tuttavia, l’attuale versione della misura, prevedendo sia i percorsi di inclusione lavorativa, sia i percorsi di inclusione sociale, si configura (di fatto) come un REI al quale si affianca un forte investimento per il rafforzamento dei Centri per l’Impiego (Gori 2019).

Nonostante questi miglioramenti, il RdC presenta ancora evidenti limiti. Due sono in particolare le criticità che emergono dalla riflessione fin qui condotta. La prima emerge se si considera la questione dei minori che sono i grandi perdenti del RdC. Come abbiamo visto, le risorse destinate ai nuclei singoli sono superiori rispetto a quelle destinate ai nuclei in cui sono presenti minori. Inoltre, i nuclei con minori riceveranno trasferimenti economici meno generosi rispetto a quelli destinati ai nuclei composti da soli adulti. Si tratta di un paradosso se consideriamo che la povertà per questa fascia d’età è letteralmente esplosa negli anni della crisi e che in Italia la povertà assoluta è inversamente proporzionale alle classi d’età .

La seconda criticità riguarda la debolezza propria dei CPI e il fatto che il rafforzamento di queste strutture (pur previsto dalla normativa) difficilmente potrà essere realizzato in tempi brevi. Ne consegue che per alcuni mesi i percorsi di inserimento lavorativo coinvolgeranno un numero esiguo di utenti e il RdC si concretizzerà di fatto in una misura passiva piuttosto che in una misura attiva.

In sostanza, da un lato, sembra che la misura sia stata disegnata senza tener conto delle caratteristiche che il fenomeno della povertà assume nel nostro paese. Dall’altro, il ritorno in termini di consenso elettorale (in vista delle elezioni europee del 26 maggio) derivante dalla messa in campo di una misura erogata in tempi brevi e che può vantare un trasferimento economico per singolo pari a 780 euro mensili ha assunto maggiore peso rispetto alle implicazioni in termini di equità ed efficacia della misura.

 

Bibliografia

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  • Agostini C., Bandera L., (2018), Vogliamo combattere seriamente la povertà? Lo strumento per farlo c’è già: si chiama Reddito di Inclusione
  • Anpal (2018), Monitoraggio sulla struttura e il funzionamento dei servizi per il lavoro 2017,
  • Ferrera M. (a cura di) 2012, Le politiche Sociali, Bologna, Il Mulino.
  • Gori C. (2019), Tirar fuori il meglio del Reddito di Cittadinanza: è questa la sfida che adesso attende il welfare locale, intervista di Sara de Carli a Cristiano Gori, 29 marzo 2019, www.vita.it.
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