L’insicurezza o povertà alimentare1 continua a rappresentare una questione grave e irrisolta: le ultime statistiche parlano di circa 673 milioni di persone nel mondo che soffrono di sottoalimentazione cronica, circa 2.3 miliardi di persone sono state esposte a qualche forma di insicurezza alimentare, e 2.6 miliardi di persone – più di un terzo dell’umanità – non può permettersi regolarmente una dieta sana2. Tuttavia, dato il riferimento a tanti numeri diversi, determinarne la reale entità rimane un compito complesso, nonostante lo sviluppo di molteplici strumenti di misurazione. Da un lato, occorre comprendere cosa si intenda per “povertà alimentare” nel contesto che si analizza, per poi poter affrontare, dall’altro, la sfida che risiede nell’adozione di metodi di misurazione che siano validi ed efficaci, in grado di restituire ciò che realmente si intende misurare.

In questo contesto, il progetto DisPARI affronta il fenomeno della povertà alimentare tra gli adolescenti in Italia, con l’obiettivo di definirne i contorni e misurarne l’entità. Con il supporto dell’Advisory Board, composto da esperti in materia, DisPARI si propone – tra l’altro – di mettere a punto uno strumento di misurazione capace di rilevare le specificità con cui il problema si manifesta tra gli adolescenti nei Paesi ad alto reddito, che possa essere efficacemente utilizzato in indagini statistiche.

In questa intervista, approfondiamo le sfide della misurazione dell’insicurezza alimentare con Carlo Cafiero, dal 2010 responsabile delle statistiche sulla sicurezza alimentare e sulla nutrizione presso la divisione statistica dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Agricoltura e l’Alimentazione (FAO) con sede a Roma.

Dottor Cafiero, secondo lei, perché è importante misurare quello che, genericamente, chiamiamo insicurezza o povertà alimentare?

L’insicurezza alimentare continua a essere un fenomeno grave e persistente, nonostante la sua eliminazione sia stata inserita a tempo tra gli obiettivi di sviluppo, dapprima tra gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (i cosiddetti MDG, definiti alle soglie del nuovo millennio) e poi tra quelli di Sviluppo Sostenibile (gli SDG, adottati dalla comunità internazionale nel 2015). Una parte delle difficoltà deriva dalla complessità intrinseca del fenomeno sociale – che sarebbe riduttivo presentare solo in termini materiali di disponibilità di cibo e fisici in termini di stato nutrizionale. Misurare l’entità del problema, però, resta un passaggio cruciale. In molti contesti politici, infatti, si tende a considerare che una quantificazione numerica, basata su solidi principi statistici, sia essenziale per valutarne la portata in maniera oggettiva. Per questo, considerata l’importanza dei dati e delle misure statistiche nell’informare e orientare le politiche, la sfida principale consiste nel riuscire a farlo con accuratezza e rigore.

Come è cambiato l’approccio della FAO alla concettualizzazione e alla misurazione dell’insicurezza alimentare? 

Fin dalla sua fondazione nel 1945, alla FAO è stata affidata la misurazione del cosiddetto “problema alimentare”, che è rimasto uno dei compiti fondamentali dell’Organizzazione, a cui ha provato a rispondere nel tempo in maniera adeguata, accompagnando i cambiamenti di interpretazione del fenomeno con nuovi strumenti di indagine.

Inizialmente, la questione alimentare era concepita come un problema di disponibilità di alimenti. Nel secondo dopoguerra, l’obiettivo primario era quello di riportare la produzione agricola mondiale a un livello tale da garantire una produzione sufficiente a soddisfare i bisogni alimentari di tutti. Con il tempo, tuttavia, è maturata la consapevolezza che accrescere la quantità di cibo prodotta non potesse bastare a garantire universalmente un’alimentazione adeguata, ma che fosse necessario anche assicurare un accesso equo e universale al cibo prodotto.

Fino agli anni Settanta, la soluzione fu cercata nel commercio internazionale e nel trasferimento delle derrate alimentari dai Paesi in cui esse erano prodotte in eccesso ai Paesi incapaci di produrne autonomamente. Sebbene tale approccio sembrasse indirizzare il mondo verso una soluzione del problema alimentare, l’avvento della crisi petrolifera degli anni Settanta, l’impennata dei prezzi delle commodities che ne derivò e gli alti tassi di inflazione fecero riemergere la questione, spingendo verso ulteriori tentativi di accrescere la produzione attraverso la diffusione di innovazione tecnologica in agricoltura (la cosiddetta Rivoluzione Verde), complice di che ha portato ad innegabili progressi in termini di disponibilità alimentari.

Negli anni Ottanta però, anche grazie alle teorie di Amartya Sen, l’attenzione si spostò sulla distribuzione degli alimenti e sulla capacità delle persone di accedervi. Si consolidò l’idea che la fame e la povertà non derivassero esclusivamente da una scarsità di risorse, bensì da una diseguale distribuzione e accessibilità al cibo. A partire da quel momento, il modo di guardare al problema e i metodi di misurazione fino ad allora utilizzati subirono un’evoluzione. Oltre ai “Bilanci alimentari” – strumenti statistici che registrano i dati sulla produzione e il commercio dei maggiori prodotti agricoli e derrate alimentari per stimare la disponibilità calorica complessiva in un Paese – nel 1974 la FAO introdusse l’indicatore della “Prevalenza di sottoalimentazione” (PoU, dall’inglese Prevalence of Undernourishment), utilizzato ancora oggi per stimare la percentuale di popolazione con un apporto energetico alimentare insufficiente per condurre una vita attiva e sana. A questo dato fa riferimento l’ultima cifra pubblicata di 673 milioni di persone che rappresenta l’headline, ossia il numero che la FAO pubblica quando riporta sulla “fame” nel mondo.

Più recentemente, con l’avvento dell’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile, adottata dai Paesi membri delle Nazioni Unite nel 2015, è emersa un’ulteriore esigenza. L’agenda ha permesso di superare la tradizionale distinzione tra Paesi “sviluppati” e Paesi “in via di sviluppo”, promuovendo una prospettiva più ampia all’accesso al cibo. Non si guarda più esclusivamente alla “fame” intesa come sottoalimentazione cronica in termini di calorie, ma anche a quelle situazioni in cui le persone si trovano a non potersi permettere il consumo di diete sane, sostenibili, senza dipendere da aiuti esterni. Dunque, è sorta la necessità di costruire un nuovo indicatore, ottenuto con strumenti in grado di misurare la capacità di accesso al cibo da un punto di vista più ampio, includendo situazioni di difficoltà di accesso al cibo comuni in tutti i Paesi del mondo.

La “FIES” (Food Insecurity Experience Scale), una scala di misurazione della gravità della condizione di povertà alimentare basata sulla registrazione delle esperienze e condizioni tipiche di coloro che hanno difficoltà di accesso agli alimenti, si è rivelata lo strumento più adeguato con cui stimare la percentuale di insicurezza alimentare a livelli moderati o gravi. Basato su un’applicazione del modello di Rasch, un metodo statistico utile a trasformare un’evidenza qualitativa (come le risposte a un questionario) in dati quantitativi3, la FIES rende misurabile in maniera rigorosa l’entità di un fenomeno sociale come la povertà alimentare senza ridurlo a una questione semplicemente materiale.

Quali sono i principali punti di forza e quali gli aspetti critici delle misure attuali di povertà alimentare?

Nel tempo sono stati proposti numerosi metodi per misurare l’insicurezza alimentare, sviluppati in base a obiettivi specifici e al contesto di applicazione.

Abbiamo già accennato all’idea di legare la povertà alimentare a un consumo inadeguato di cibo, valutato in termini di apporto calorico, il che richiede dati sui consumi alimentari delle famiglie e individui, da contrapporre a quanto i nutrizionisti suggeriscono sia un consumo minimo sufficiente. Su questo concetto si basa la misura della sottoalimentazione usata dalla FAO per l’indicatore PoU, per il quale però c’è bisogno di dati che sono molto costosi da raccogliere, e che richiedono tempo.

Organismi come il Programma Alimentare Mondiale, a cui è affidato il compito di intervenire con aiuti alimentari per far fronte a emergenze e crisi umanitarie, non possono fare affidamento a questo tipo di dati, per cui si è cercato di sviluppare metodi più rapidi, capaci di fornire delle indicazioni di massima in base a cui orientare gli aiuti nel momento di crisi, ma non sufficientemente affidabili e precisi per poter essere considerati delle vere e proprie misure della gravità dell’insicurezza alimentare, specialmente in contesti che non sono emergenziali, come quelli dei Paesi ad alto reddito.

In questi ultimi contesti, vi sono poi metodi indiretti per valutare l’entità del problema, come ad esempio monitorando l’andamento dell’erogazione di aiuti da parte dei centri di assistenza alimentari, una realtà che sta diventando sempre più presente nel nostro Paese, anche per mancanza di risposte più strutturate. Pur utili a portare alla ribalta mediatica la presenza del problema, si tratta di indicatori che non riflettono fedelmente l’entità del fenomeno, il cui utilizzo può addirittura generare effetti perversi. Spesso, infatti, la disponibilità di alimenti da distribuire diventa più scarsa proprio quando il cibo è più caro e ci sarebbe più bisogno di aiuti. Questo implica che i volumi di aiuti alimentari che si registrano non seguono necessariamente l’andamento effettivo del fenomeno.

Un aumento della distribuzione di aiuti alimentari potrebbe dipendere da una condizione momentanea di surplus di alimenti sul mercato, e non riflettere un inasprimento della povertà alimentare. Allo stesso modo, l’aumento dei prezzi alimentari e l’associata diminuzione delle derrate alimentari disponibili per aiuti – dovuta alla maggiore difficoltà nel reperire cibo – rischierebbe di essere erroneamente interpretata come il segno di un miglioramento della situazione, quando invece si accompagna a un aggravarsi della condizione di povertà per molte famiglie. In ogni caso, queste statistiche sono capaci di rivelare solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che resta, per molti aspetti, invisibile.

Un ulteriore approccio alla misurazione dell’insicurezza alimentare, molto comune a partire dalla fine del secolo scorso, si basa sull’osservazione di alcune delle possibili conseguenze in termini di stato nutrizionale. Alcuni di questi metodi prevedono l’utilizzo di indici antropometrici, basati sullo sviluppo fisico dei bambini di età inferiore ai 5 anni.  Tra questi, lo stunting, che indica un ritardo nella crescita in altezza, e il wasting, che si riferisce a una condizione di estrema magrezza (rispetto all’altezza), hanno ricevuto enorme visibilità specialmente nella professione medica e da parte delle organizzazioni internazionali come UNICEF e OMS, focalizzate sulla salute e sullo sviluppo dei bambini. Sebbene si tratti di strumenti significativi, presentano alcune criticità.

In primo luogo, le forme della malnutrizione che si manifestano con ritardo di crescita o emaciazione soprattutto in contesti degradati possono essere conseguenza di condizioni igieniche inappropriate e di morbidità infantile e non necessariamente derivare da una situazione di limitata capacità di accesso al cibo. Inoltre, trattandosi di indicatori applicabili ai bambini, sono utili laddove la popolazione è giovane e ci sono alti tassi di fertilità, ma non consentono di determinare i problemi alimentari specifici della popolazione adulta o anziana. Quello che poi, personalmente, mi rende un po’ scettico rispetto alla effettiva utilità di questi indicatori come guida per gli interventi, è che rischiano di dare segnali di un problema quando è troppo tardi per provi rimedio: rilevare un ritardo di crescita all’età di cinque anni significa infatti trovarsi con un danno ormai in gran parte irreversibile.

L’innovazione più recente in questo ambito riguarda l’estensione su scala mondiale dell’uso di scale di misurazione basate sulla registrazione delle esperienze tipicamente associate a una condizione di povertà alimentare, uso che fino al 2015 era limitato ad alcuni Paesi (USA, Canada, Brasile, Messico) o a studi per lo più accademici di portata limitata in termini di popolazione analizzata. Tale espansione, che è tuttora in corso, è stata resa possibile dall’innovazione introdotta con la scala FIES, ovvero la possibilità di calibrare le misure di severità dell’insicurezza alimentare su una scala globale di riferimento. Ad oggi, sono più di settanta i Paesi in cui la FIES, o una scala simile, viene usata per indagini a cadenza periodica sullo stato della sicurezza alimentare nel Paese. Anche se esistono ancora margini di miglioramento, con questi metodi sembra essere stato finalmente raggiunto un compromesso accettabile tra semplicità di raccolta dei dati (che quindi diventa sostenibile anche in situazioni dove si investono poche risorse per il monitoraggio) e rigore metodologico a garanzia dell’affidabilità dei risultati.

Cosa implica la misurazione della povertà alimentare intesa come esperienza che coinvolge molte dimensioni, oltre a quella “materiale” della deprivazione di cibo?

Il fatto che fenomeni sociali a cui vengono associate etichette semplici come “povertà” o “insicurezza alimentare” siano, in realtà, fenomeni complessi, è noto da tempo. Questi concetti, che noi usiamo comunemente nella scienza sociale, si riferiscono a condizioni che coinvolgono tante dimensioni e ad essi può essere associata una pluralità di significati. Questa complessità si manifesta in alcuni dei metodi che vengono utilizzati per quantificare il fenomeno. Spesso, la strada seguita è quella di scegliere alcune dimensioni (spesso solo quelle che è possibile misurare direttamente) e costruire indici dati dalla somma di sottoindici associati ad ognuna delle dimensioni considerate. Ad esempio, in Europa, il sistema di monitoraggio SILC (Statistics on Income and Living Conditions) raccoglie i dati annuali sui redditi e le condizioni di vita nel continente, fornendo alcuni indicatori, tra cui l’indice di deprivazione materiale e sociale, basato sulla somma di nove elementi.

Uno dei problemi legati a un simile approccio risiede nella difficoltà di assegnare a ognuna delle dimensioni considerate il giusto peso che ne rifletta l’effettiva rilevanza nel contesto in esame. La soluzione, spesso adottata, di dare a ogni sottoindice la stessa valenza ha la conseguenza di non poter considerare l’indicatore equivalente in tutti i contesti di applicazione. Per esempio, se una delle componenti di un indice di deprivazione materiale riguarda la difficoltà nel riscaldare la propria abitazione, è chiaro che essa dovrebbe assumere un peso diverso in Sicilia rispetto alla Svezia. Di conseguenza, anche se questi indici danno una qualche misura della disponibilità di beni e servizi, non sempre riflette l’effettiva capacità di soddisfare i bisogni materiali che copre, e quindi non costituiscono necessaria una misura valida del costrutto che intenderebbero rappresentare.

È proprio per questi aspetti che, ritengo, la strada intrapresa con la creazione della FIES rappresenti un notevole progresso, in quanto risolve in maniera rigorosa il problema di quantificare la gravità un fenomeno multidimensionale complesso, come l’insicurezza alimentare – ma l’approccio potrebbe e forse dovrebbe estendersi anche ad altre misure di “povertà” –, in maniera obiettiva e comparabile.  La scala FIES è costruita utilizzando una metodologia statistica– il già citato modello di Rasch –, che consente di determinare il peso relativo di ciascuna dimensione e calibrare le misure ottenute in contesti differenti, assicurando una maggiore comparabilità dei dati. Un altro importante vantaggio di questo approccio è che – contrariamente a molti altri indici di povertà multidimensionale – lo strumento di misura è flessibile abbastanza da poter essere adattato al contesto senza compromettere la comparabilità delle misure ottenute.

Secondo lei è importante analizzare la povertà alimentare tra gli adolescenti, come categoria distinta?

Assolutamente sì! L’adolescenza rappresenta una fase cruciale della vita, durante la quale si modellano non solo i corpi, ma anche le menti degli esseri umani. Durante il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, i rapporti sociali consapevoli assumono un ruolo cardine, così come la capacità di riconoscersi come individui in relazione agli altri. Mai come adesso abbiamo il dovere di porre l’attenzione sugli adolescenti, confidando nella loro capacità di conquistare il potere e prendere decisioni politiche future migliori di quelle attuali. Prendersi cura degli adolescenti oggi è un modo di curare il mondo e il suo futuro.

Analizzare l’insicurezza alimentare tra gli adolescenti richiede alcuni sforzi di ricerca. Giunti alla fase adolescenziale, il rapporto con il cibo si trasforma: cessa di essere mediato dal rapporto con gli adulti e diviene condizionato da altre variabili. Attraverso il cibo i ragazzi cementano i propri rapporti sociali: uscire con gli amici a mangiare diventa un’esperienza cruciale per gli adolescenti. Per questo motivo, è indispensabile provare a migliorare il modo in cui descriviamo il problema alimentare dal punto di vista di un adolescente e come lo rappresentiamo attraverso misure che riflettano anche le dimensioni emozionali e sociali, al fine di guidare l’adozione di politiche appropriate.

 

Note

  1. In questo contesto il termine “insicurezza alimentare” viene utilizzato per indicare la difficoltà di accesso al cibo, in maniera analoga alla terminologia inglese “Food poverty” (UK) e “Food security” (USA). Tuttavia, si consideri che il termine “sicurezza alimentare” può riferirsi anche alla salubrità degli alimenti, tradotta in inglese come “Food safety”.
  2. Cfr. FAO, IFAD, UNICEFUNICEF, WFP and WHO. 2025. The State of Food Security and Nutrition in the World 2025 – Addressing high food price inflation for food security and nutrition. Rome.
  3. Le evidenze qualitative vengono raccolte attraverso un questionario, in cui viene chiesto alle persone se hanno vissuto determinate situazioni (“è successo/non è successo”) oppure con quale frequenza (mai/raramente/qualche volta/ spesso). Il modello si basa sull’idea che, maggiore è la gravità della povertà alimentare sperimentata da una persona, più alta sarà la probabilità che risponda in modo affermativo a un numero maggiore di domande.
Foto di copertina: ©FAO/GIULIO NAPOLITANO