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Il 10 luglio 2026 ricorrerà il 50esimo anniversario del disastro dell’Icmesa, insediamento produttivo chimico localizzato a Meda, di proprietà della multinazionale Givaudan-Hoffmann-la Roche. “La fabbrica dei profumi”, come la chiamavano allora gli abitanti del territorio, responsabile di aver sacrificato la città di Seveso, in particolare il suo ambiente e la sua popolazione, alla logica del profitto industriale.

Oggi i riflettori scaldano le loro lampade, senza sapere bene cosa illuminare. Si può far luce su una ricorrenza senza tracciarne la scia e l’origine? E cosa illuminerà quella luce se non l’esito di un processo che da un trauma porta all’orgoglio, mostrando il percorso, il dolore ma anche la capacità di viverlo, resistere e trasformarlo?

La nostra riflessione parte da qui e qui ritorna, raccontando qualcosa di questa storia, forse nota ai più, ma certo bisognosa ancora di narrazione e di “tradizione”.

Un Bosco per dare voce al disastro silenzioso

Seveso è la città della provincia di Monza e Brianza più nota in tutto il mondo. Una notorietà legata a un disastro industriale che ha determinato un disastro sociale. Per anni le e i sevesini hanno lottato contro lo stigma che si è attaccato alla comunità come un abito troppo stretto e che ancora oggi è presente. La comunità locale – costituita oggi da chi ha vissuto il disastro in prima persona, dai loro figli, figlie e discendenti e dai chi è arrivato sul territorio successivamente – è scissa, stretta nella morsa tra chi vorrebbe fare cadere nell’oblio le memorie e chi le ritiene da alimentare perché parte della storia e stimolo di crescita e consapevolezza comunitaria.

E se Seveso è conosciuta come vittima di un disastro, pochi sanno che questa città, antesignana delle lotte ambientali e ambientaliste, cinquant’anni fa pose le basi per la trasformazione dell’area maggiormente colpita dalla contaminazione da diossina in un bosco.

Una foto dei giorni successivi al disastro di Seveso, in cui parte del territorio interessato venne recintato e presidiato da esercito e forze dell’ordine. Fonte: Wikicommon

Il Bosco delle Querce di Seveso e Meda è il primo esempio di bonifica, di intervento d’ingegneria ambientale, di rinaturalizzazione e forestazione urbana a seguito di un disastro. Così ne scrive Massimiliano Fratter (2006): “la scelta di realizzare un bosco dopo l’asportazione del terreno si deve anche ai movimenti popolari che sorsero a Seveso dopo l’incidente e che si opposero con forza alla decisione iniziale della Regione Lombardia di costruire un forno inceneritore per bruciare tutto il materiale inquinato”.

Per la sua storia e ciò che ne è derivato, Seveso dovrebbe essere considerata a buon titolo un emblema. La capacità di resistenza e riparazione come possibilità. Un insegnamento per le generazioni future. Una testimonianza per quelle presenti. Un riconoscimento per le passate.

Ma la fuga dalle memorie in direzione della celebrazione di una straordinaria bellezza, svuotata dalle sue contraddizioni e fatiche così come dalle lotte collettive e dalle pratiche ambientaliste che ne hanno caratterizzato la storia, sembra offrire piuttosto un cono d’ombra incapace di restituire a Seveso e alla sua comunità quel ruolo emblematico e testimoniale che la potrebbe caratterizzare.

La contrapposizione tra i moti opposti memoria-oblio sembra così tracciare il segno di fratture che appaiono come un esito di stratificazioni. Di scelte o di non scelte. Di fatti. Di perdite. Di paure. Di incertezze. Di sfiducia. Di lotte. Di riappropriazione. Di significazione. E così come il Bosco delle Querce è stratificazione di memorie sepolte accanto alle macerie contaminate, di terra, radici e poi fusti e chiome, le memorie soggiacciono in una comunità che non ha avuto l’opportunità di celebrare il lutto attraverso una vera e propria cerimonia.

La divulgatrice scientifica Elena Accorsi Buttini introduce il suo Podcast “Silenzio” dedicato a Seveso con questa affermazione: “quando si pensa a un disastro la mente ricostruisce un boato o un forte scoppio, accompagnato dalla distruzione di cose o dall’annientamento di persone o animali. Perché i disastri quando avvengono si vedono e si sentono. Esistono però disastri che accadono nel silenzio, i più terribili forse, perché nel silenzio è impossibile individuarli, nel silenzio le conseguenze sono subdole e nel silenzio i danni sono peggiori. Quello di Seveso è stato un disastro incredibilmente silenzioso”.

Una foto attuale del Bosco dell Querce, costruito sopra le “vasche” che contengono quanto bonificato nella cosiddetta zona A (resti degli edifici, oggetti personali, animali morti o soppressi, attrezzature utilizzate per la bonifica stessa). Fonte: Massimiliano Mariani, Wikicommon

Il silenzio fu una strategia adottata trasversalmente. Dai responsabili del disastro – Icmesa-Givaudan-Hoffmann-La Roche – che non dichiararono subito quanto avvenuto nello stabilimento di Meda. Dalle istituzioni alle prese con un evento di gravità incalcolabile che ritardarono scelte, indirizzi e provvedimenti. Da una scienza che ancora non aveva precisi strumenti di rilevazione né rilevanti studi sulle casistiche, che permettessero di prospettare un quadro su cui poggiarsi con probabilità statistiche. Dalla popolazione che fu travolta non solo dalle paure e dalle preoccupazioni, ma anche e soprattutto dallo stigma: perché in un territorio più estesamente contaminato, che comprendeva anche i comuni di Meda, Cesano Maderno, Bovisio Masciago e Desio, Seveso restò l’unico nome associato al disastro.

Così l’oblio è sembrato a molti una via di fuga. La strategia per cancellare il trauma e tornare alla normalità.

A distanza di cinquanta anni l’oblio è ancora una strada radicata in una parte della comunità. Lo si nota quando ci si addentra nei commenti delle piattaforme social, sotto ai contenuti che sfiorano le memorie. La comunità è ancora divisa tra chi considera quelle memorie dannose all’immagine della città e chi è invece convinto che queste siano una parte preziosa del riscatto e simbolo di una comunità resistente.

Le barriere al ricordo sono opposte su più direttrici. Una interna tracciata da questa divisione tra memoria e oblio e una esterna, che sembra essere l’unica che unisce tutti. Sospetto e prudenza sono le reazioni primarie che si osservano quando persone che non appartengono a questa collettività si approcciano al territorio con l’intento di raccontarne la storia. La paura che si possa farlo nel modo e con l’intento sbagliato. Il timore della predazione, il prezzo di uno scoop, di un titolo altisonante che possa ledere da una parte l’immagine della città e dall’altra il senso della storia.

Storicamente possiamo definire Seveso come un nodo tra un vecchio mondo e quello più contemporaneo. Laura Conti, a distanza di pochi giorni dal disastro scrisse: “la storia della nuvola in Brianza è una storia esemplare. Vi si intrecciano tutte le caratteristiche del nostro tradizionale malgoverno, tutta la patologia delle istituzioni, del costume, della cultura, dell’economia. Chi raccoglierà le testimonianze, ormai non facili, e terrà un diario scrupoloso, si troverà tra le mani uno spaccato molto significativo dell’Italia del 1976” (Conti, 1977).

Le radici delle lacerazioni sociali

Gli anni ’70 hanno segnato in tutto un mondo un passaggio politico, sociale, economico, ambientale che riversò in questi luoghi tutte le questioni. La popolazione, avvezza a un dibattito che sembrava essere lontano dal territorio, meno concreto, meno tangibile, si trovò con la pelle letteralmente bruciata. La cloracne sul volto dei suoi figli. La questione dell’aborto in assenza di normative nazionali. Le scelte e le autorizzazioni a produzioni pericolose in paesi con normative scarsamente stringenti. La salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Gli effetti dell’inquinamento ambientale provocato dall’industria che approfittava dell’assenza di regolamentazione. La consapevolezza, la condivisione del sapere, la protesta, il desiderio di essere attivi e protagonisti. Gli anni di piombo e il terrorismo.

Tutte questioni che lacerarono la comunità locale spaccandola in visioni contrapposte. Veleni ancora così presenti nel sottosuolo che basta scavare di poco per lasciarli riaffiorare.

Un particolare del muro dell’Icmesa, unico manufatto rimasto ancora oggi della vecchia fabbrica. Sui mattoni si possono ancora vedere le firme dei militari di stanza a Seveso nelle settimane seguenti il disastro con compiti di sorveglianza. Questa foto in particolare riprende una scritta: “200 all’alba”, riferito forse ai giorni mancanti a finire il servizio di leva. Fonte: Emanuela Macelloni.

Anche la questione economica e risarcitoria entrò a buon titolo nelle fratture che si determinarono a quel tempo. A confermarlo è la gestione dei risarcimenti dopo il disastro avvenuta tanto in assenza di una intermediazione dell’attore pubblico in favore della definizione di ragioni collettive, quanto in assenza di fattispecie giuridiche civili e penali. Un vuoto normativo che riguardava la legislazione sui rischi industriali, sui danni ambientali e sulle responsabilità delle multinazionali rispetto alle condotte delle società controllate (Centemeri, pp. 135-158, 2006).

Fu così che i risarcimenti divennero una questione privata, una individualizzazione del momento risarcitorio in cui la Givaudan, anticipando la fase processuale, risarcì individualmente coloro i quali potevano comprovare un danno materiale. Prassi che produsse nuove fratture nel tessuto sociale.

Vi fu poi un “risarcimento collettivo” riconosciuto da Givaudan a Regione Lombardia, destinato alle operazioni di bonifica e monitoraggio sanitario. Tuttavia “questo fu impiegato senza che vi fosse alcuna discussione pubblica con i diretti interessati in merito ai modi in cui queste azioni riparatorie dovevano essere condotte” (ibidem).

Il fermento per l’anniversario: alla ricerca di nuove prospettive

Il 10 Luglio 2026 ricorrerà il cinquantesimo anniversario dal disastro dell’Icmesa, dicevamo. In città si osserva un fermento. Le istituzioni, troppo spesso silenziose negli anni trascorsi, oggi appaiono ferventi nella volontà di fare emergere il Bosco in tutta la sua straordinarietà. Il Bosco delle Querce è stato candidato per un prezioso riconoscimento come sito di Patrimonio Europeo. Regione Lombardia dal 2022 e fino al 2026 ha stanziato fondi per la rinascita culturale di questo luogo.

Le attività sono state assegnate a diversi soggetti: Legambiente Lombardia per quanto attiene all’educazione ambientale; FARE Cultura Contemporanea con Circolo Legambiente Laura Conti di Seveso per i percorsi culturali e partecipativi nell’ambito del progetto “Insieme per il Bosco”; Sfelab per la costituzione di un museo nell’ambito del progetto “La mansarda della Memoria”. Il Politecnico di Milano per la comunicazione e l’elaborazione di nuovi pannelli informativi.

Ma proprio sul limitare di questa ricorrenza e sulla possibilità di ottenere un riconoscimento che attesti la particolarità di questo luogo e la sua significazione, un nuovo spettro scava nelle memorie riverberando non solo le paure, ma sradicandone lo spazio testimoniale.

A breve due ettari di bosco verranno sbancati e più di 3.200 alberi di diverse specie, cui si aggiungeranno senza stima numerica molteplici arbusti, i funghi, i microrganismi e la fauna selvatica, troveranno la loro fine tra le ruspe della ditta incaricata dell’esecuzione dei lavori di Pedemontana. Una nuova ferita e un nuovo sacrificio che porta con sé tutto l’irrisolto di questo territorio sversandolo sul suolo insieme al cemento.

Foto dei nuovi cantieri di bonifica di via dei Vignee a Seveso. Fonte: Emanuela Macelloni.

Riaffiorano così, insieme agli scavi contrapposizioni, preoccupazioni, contraddizioni e antiche paure. Le bianche recinzioni delle aree che saranno bonificate dalla diossina per consentire il transito dell’autostrada Pedemontana, rendono evidenza di quel veleno che si è cercato di sotterrare nel terreno come nella memoria, ma la cui tossicità irrisolta affiora ancora oggi sovrapponendo questioni trasversali. La prima sembra essere quella dell’affidabilità. Le istituzioni hanno qui raramente mostrato una capacità di ascolto e difesa del territorio e della sua popolazione verso gli interessi economici, confermando la prospettiva del territorio sacrificabile e attuando un’ampia delega verso l’esterno nella gestione dei momenti più critici (Centemeri, pp. 83 e ss, 2006).

Ma accanto a questo è lo spazio simbolico a mostrare più evidenti contraddizioni. Se il Bosco delle Querce rappresenta il simbolo della riparazione di un danno, emblema della resistenza di una comunità che si è resa capace di produrre significati e significanti per le future generazioni, ci si chiede come sia possibile accettare e anzi volere lo sfregio di questo bene: con il decreto legislativo n. 15 del 26 maggio 2008 Regione Lombardia, infatti, ha approvato la deroga alla non edificabilità dell’area del Bosco delle Querce mettendo le premesse per quanto sta accadendo oggi, ossia il passaggio di una autostrada nel perimetro del Parco.

Una convivenza temporale tra momenti contrastanti. La ricorrenza del cinquantesimo anniversario, la candidatura a sito di Patrimonio Europeo, il fermento culturale e partecipativo da un lato, e la predazione del bosco per la costruzione di una nuova autostrada dall’altro.

Quali riparazioni saranno possibili? Tra i percorsi partecipati che nutrono il pensiero e l’affezione verso questo luogo si cominciano a scorgere nuove prospettive: il Bosco delle Querce come catalizzatore di aree libere. Il suo ampliamento e le connessioni ecologiche. La costituzione di un Parco Fluviale e Territoriale del Seveso. Uno sconfinamento simbolico. Il Bosco oltre ai suoi confini. Moti che segnano il passo della sua testimonianza e della resistenza della sua comunità.

 

Bibliografia

  • Centemeri L., Ritorno a Seveso. Il danno ambientale, il suo riconoscimento, la sua riparazione Ed. Bruno Mondadori, 2006.
  • Conti L., Visto da Seveso: l’evento straordinario e l’ordinaria amministrazione, Ed. Feltrinelli, 1977.
  • Fratter M., Seveso. Memorie da sotto il bosco, Ed. Auditorium, 2006.
Questo contributo è parte del Focus tematico Collaborare e partecipare, che presenta idee, esperienze e proposte per riflettere sui temi della collaborazione e della partecipazione per facilitare cooperazione e coinvolgimento. Curato da Pares, il Focus è aperto a policy maker, community maker, agenti di sviluppo, imprenditori, attivisti e consulenti che vogliono condividere strumenti e apprendimenti, a partire da casi concreti. Qui sono consultabili tutti i contenuti del Focus.