Nel dibattito pubblico e accademico recente, la questione abitativa ha assunto maggiore centralità, spesso inquadrata attraverso il concetto di housing affordability, ovvero l’“abbordabilità” della casa – così l’abbiamo tradotta nel lavoro dell’Osservatorio Casa Abbordabile (OCA). Sebbene l’Italia sia andato trasformandosi in un Paese di proprietari, l’affitto è ancora la forma di accesso all’abitazione privilegiata per chi cerca l’autonomia, specialmente nel momento dell’accesso al lavoro e in occasione della mobilità lavorativa. L’accesso a un’abitazione dignitosa in locazione è divenuto un percorso a ostacoli, tanto nei contesti urbani attrattivi come Milano – dove fenomeni paralleli di alta domanda, finanziarizzazione e altri usi fanno lievitare i canoni – quanto in quelli meno dinamici – dove un’offerta asfittica e frammentata limita le possibilità di accesso, e il turismo (nelle sue varie forme) taglia fuori l’uso abitativo degli alloggi.
A Milano, la narrazione di una città in crescita e attrattiva, luogo di opportunità lavorative, si scontra con una realtà fatta di prezzi e canoni di locazione in costante ascesa, a fronte di salari che rimangono sostanzialmente stagnanti. Non si tratta solo di una difficoltà di accesso al mercato immobiliare, ma di un fenomeno che rischia di esacerbare le disuguaglianze socioeconomiche, trasformando il costo della casa in un vettore di impoverimento anche per chi, sulla carta, dovrebbe essere ben lontano dalla definizione di “povero”.
La rilevanza di un’analisi di questo tipo su Milano è duplice. Da un lato, Milano rappresenta un caso studio paradigmatico: è la città con il mercato del lavoro più dinamico d’Italia, ma è anche il luogo dove la forbice tra salari e costi abitativi si sta allargando in modo particolarmente evidente e dove si può essere poveri con un lavoro a tempo indeterminato. Gli esiti di ricerca di OCA ci hanno fatto dire che Milano “non è una città per chi lavora” e chiedere “Milano per chi?”. Dall’altro, le politiche di contrasto alla povertà nel nostro Paese appaiono sempre più limitate e ancora oggi scarsamente integrate con le politiche abitative – mentre il target dell’edilizia sociale si sposta progressivamente verso il ceto medio – alto, lasciando scoperte ampie fasce di popolazione vulnerabile. Comprendere come le spese abitative impattino sui redditi (nella prospettiva dell’abbordabilità) è dunque il primo passo per identificare meglio il problema e, potenzialmente, disegnare strumenti di policy capaci di risolverlo.
Misurare l’abbordabilità: perché la “regola del 30%” non basta più
Come evidenziato più diffusamente nell’articolo pubblicato su Politiche Sociali/Social Policies, a cui rimando per una trattazione completa dei dati e delle analisi, ho inteso indagare in che misura il costo dell’abitazione rischi di allargare la povertà tra i lavoratori del settore privato a Milano, utilizzando un approccio metodologico che supera le metriche tradizionali del rapporto tra affitto e reddito (focalizzato sul 30%) e adotta la lente del “reddito residuo” dopo le spese abitative, per restituire una fotografia più nitida della vulnerabilità economica indotta dall’abitare e dal rischio di povertà creato da un mercato dell’affitto troppo esigente.
Per comprendere la reale portata del disagio abitativo, è fondamentale infatti interrogarsi sugli strumenti di misurazione adottati. Tradizionalmente, l’abbordabilità viene valutata attraverso l’approccio cost-to-income, che fissa una soglia percentuale di incidenza del costo della casa sul reddito (tipicamente il 30%) oltre la quale si presume una condizione di disagio economico. Sebbene ampiamente utilizzato per la sua semplicità, questo metodo presenta un limite sostanziale: tende a sottostimare il problema per i redditi bassi e a sovrastimarlo per i redditi alti, replicando le disuguaglianze esistenti senza svelare il reale tenore di vita risultante per persone e famiglie.
Per superare queste criticità, lo studio ha affiancato al metodo tradizionale l’approccio del residual income (reddito residuo). Questa metodologia inverte la prospettiva: non si chiede quanto pesa l’affitto in percentuale, ma “quanto rimane in tasca” dopo aver pagato la casa, per far fronte alle altre spese essenziali (cibo, trasporti, salute), oltre che per il risparmio e lo svago. La differenza è sostanziale. Un nucleo benestante potrebbe spendere il 45% del proprio reddito per un’abitazione di lusso e avere comunque risorse sufficienti per vivere agiatamente; al contrario, per una famiglia a basso reddito, anche una spesa abitativa del 20% potrebbe erodere le risorse necessarie alla sussistenza minima (è il caso di molti inquilini che vivono nell’edilizia residenziale pubblica).
L’applicazione di questo metodo al contesto milanese, basata su dati amministrativi del 2023 (INPS per i salari, OMI per i canoni di locazione e soglie di povertà ISTAT), permette di svelare una “povertà nascosta”. Praticamente, ho confrontato i salari netti medi per profili a tempo indeterminato nelle principali qualifiche professionali del settore privato (operai, impiegati, quadri, dirigenti) con i canoni di mercato per tre zone della città (centro, semicentro, periferia), calcolando il reddito residuo per diverse tipologie familiari. I risultati mostrano come l’utilizzo del solo indicatore percentuale mascheri la gravità della situazione per i profili lavorativi con redditi minori, per i quali il costo dell’affitto non è solo alto, ma diventa (in assenza di altre fonti di reddito, supporto familiare, o condivisione dell’alloggio) la causa diretta dello scivolamento sotto la soglia di povertà assoluta.
L’applicazione congiunta dei due indicatori di abbordabilità ha evidenziato diverse dinamiche di esclusione per i diversi profili lavorativi nel settore privato:
- per gli operai (37,8% dei lavoratori dipendenti privati): i quartieri centrali e semicentrali sono totalmente inaccessibili, ma il dato più preoccupante emerge dall’approccio del reddito residuo: anche nelle zone periferiche (“resto della città”), un operaio single che vive in un monolocale vede il proprio reddito disponibile ridursi drasticamente. Se il nucleo familiare comprende altri membri (ad esempio una coppia monoreddito con o senza figli), il pagamento di un affitto di mercato, anche per metrature minime, trascina sistematicamente la famiglia sotto la soglia di povertà, con redditi residui spesso negativi o insufficienti per il paniere minimo di beni e servizi;
- per gli impiegati (47,8% dei lavoratori dipendenti privati): la situazione è articolata ma critica. Un impiegato single rischia la povertà se vive in centro o semicentro. Se ha una famiglia a carico, è escluso dalle zone centrali e si trova in una condizione di forte rischio anche in periferia, dove l’incidenza dell’affitto supera il 30% e il reddito residuo si avvicina pericolosamente alla soglia di povertà;
- per quadri e dirigenti: al contrario, queste categorie mantengono livelli di reddito residuo elevati anche a fronte di costi abitativi importanti, confermando come il mercato sia accessibile senza rischi di deprivazione materiale solo per i redditi medio-alti e alti.
Lavorare non basta: salari, affitti e il rischio povertà a Milano
L’analisi dei dati restituisce un quadro allarmante della sostenibilità sociale del modello economico milanese. Nel 2023, lo stipendio netto medio di un operaio nel settore privato a Milano superava di soli 147 euro la soglia di povertà assoluta calcolata dall’ISTAT per un single. Quando si inserisce la variabile del costo dell’affitto di mercato, lo scivolamento sotto la soglia di povertà è netto. Emerge dunque con chiarezza che i canoni di locazione a Milano stanno allargando la povertà assoluta ben oltre quanto rilevato dalle statistiche ufficiali ISTAT. Molti lavoratori che non rientrano nelle categorie tradizionalmente considerate a rischio si trovano di fatto impoveriti dai costi abitativi.
Questo scenario suggerisce un processo di espulsione o di selezione all’ingresso: la città rischia di diventare accessibile solo a chi possiede già risorse (familiari o patrimoniali) o a chi ricopre posizioni apicali, mentre chi svolge professioni essenziali ma meno retribuite viene spinto verso l’hinterland o scoraggiato nella mobilità lavorativa.
In questo quadro, anche la rilocalizzazione fuori Comune presenta incognite: i costi di pendolarismo e la carenza di servizi rischiano di annullare il risparmio sull’affitto, spostando semplicemente il disagio sociale senza risolverlo come evidenziato dal lavoro di Osservatorio Casa Abbordabile.
Verso un nuovo welfare abitativo: indicazioni di policy
I risultati dell’analisi impongono una riflessione urgente sulle politiche pubbliche per la casa. La povertà dipendente dai costi abitativi è un fenomeno specifico che richiede risposte mirate: non si tratta solo di sostenere il reddito, ma di aggredire la componente di spesa che genera l’impoverimento, ovvero il costo della casa. L’area della povertà “indotta dalla casa” potrebbe essere efficacemente mitigata attraverso una riduzione dei costi degli affitti, liberando risorse per i consumi e il benessere delle famiglie. Per affrontare questa sfida, occorre un cambio di paradigma che parta dai dati e arrivi agli strumenti operativi:
- Adottare il reddito residuo come standard di valutazione: le amministrazioni potrebbero integrare sistematicamente questo approccio nelle analisi dei bisogni. Capire “quanto resta in tasca” alle persone permette di calibrare i sussidi e l’offerta abitativa in modo più equo – ad esempio nelle contrattazioni sul canone concordato –, direzionando il supporto dove è realmente necessario e non solo dove l’incidenza percentuale appare alta.
- Potenziare l’infrastruttura informativa: a livello locale, Milano potrebbe farsi capofila nella creazione di un osservatorio pubblico dedicato, investendo su sistemi informativi capaci di monitorare in tempo reale la relazione tra redditi e costi abitativi (inclusi i trasporti), superando la frammentarietà delle rilevazioni attuali.
- Rilanciare l’offerta in locazione accessibile: l’Edilizia Residenziale Pubblica (ERP) oggi non riesce neanche a coprire le fasce di estrema povertà (la “fascia nera”), mentre l’offerta sociale è troppo esigua, e l’housing sociale privato si focalizza su una “fascia grigia” sempre più di comodo e non riesce a garantire canoni compatibili con i salari di ingresso e i redditi medio-bassi. Serve una strategia di policy mix che combini il recupero del patrimonio pubblico esistente con la regolazione urbanistica. Le leve a disposizione dei Comuni sono diverse: dall’innalzamento degli oneri di urbanizzazione per finanziare l’affitto sociale, alla richiesta di quote di alloggi a canone calmierato nelle grandi trasformazioni urbane, fino a una gestione del patrimonio privato orientata più ai bisogni sociali che alla rendita. Tuttavia, un salto di scala è necessario per attivare le leve finanziarie che solo i livelli regionale e nazionale possono mettere in campo.
In conclusione, come argomentato nell’articolo completo su Politiche Sociali/Social Policies, ignorare il nesso tra costi abitativi e povertà significa accettare che la città diventi un meccanismo di esclusione e fragilizzazione, e in prospettiva di indebolire il sistema economico e lavorativo. Supportare i nuclei a reddito medio-basso con un’offerta calmierata e misure di sostegno al reddito basate sul residual income non è solo una questione di equità sociale, ma una necessità per garantire che le città rimangano abitabili per chi le fa funzionare ogni giorno.
| I Policy Highlights di Politiche Sociali/Social Policies
Questo articolo alcuni degli esiti del lavoro pubblicato sul numero 1/2025 di Politiche Sociali/Social Policies, rivista edita dal Mulino e promossa dalla rete ESPAnet-Italia. Per maggiori dettagli e citazioni: M. Peverini, Costi abitativi e povertà. Un’analisi dell’impatto degli affitti sui salari a Milano attraverso due misurazioni di abbordabilità, in «Politiche Sociali/Social Policies», 1/2025, pp. 145-166. |