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Dando un generale sguardo ai cambiamenti macro-strutturali del contesto italiano nel corso degli anni, è evidente quanto il sistema di protezione dei bisogni e rischi dei cittadini si stia modificando. In questo senso desta interesse la connessione tra lo sviluppo del welfare pubblico e quello del welfare aziendale: il progresso dei due sistemi può essere considerato come contemporaneo, non limitato alle aree di carenza di uno o dell’altro e inserito in una dinamica di potenziamento delle risorse a disposizione.

L’attenzione al lavoratore, in quanto portatore di bisogni e aspirazioni, ha assunto una rilevanza strategica all’interno dei contesti aziendali a partire dall’assunto che un alto livello di benessere intra-lavorativo è direttamente proporzionale a una produttività qualitativamente superiore. Un limite di questo approccio, tuttavia, è rappresentato dal fatto che la costruzione di un piano di welfare aziendale implica l’investimento di una serie di risorse umane ed economiche (derivanti anche da vantaggi fiscali a favore delle aziende) esclusivamente a favore della propria popolazione aziendale; il rischio, considerando la diversità del tessuto economico e produttivo italiano, è che il welfare aziendale contribuisca a incrementare le disuguaglianze in termini di opportunità delle quali le persone dispongono.

Una possibile soluzione è rintracciabile in un migliore “incastro” con il welfare pubblico. Le risorse pubbliche e private potrebbero così divenire parte di un sistema di collaborazione orientato a creare opportunità rivolte alle persone nella loro globalità, senza distinzione tra lavoratori e cittadini. Questa prospettiva diventa l’occasione per favorire un’unitarietà nell’offerta di servizi orientati al bisogno e per creare risposte che includono nuovi attori e risorse al fine di superare la frequente frammentarietà delle prestazioni predisposte.

Questo tipo di collaborazione, ancora poco diffuso, consiste nel coinvolgimento di soggetti privati in alleanze che nascono da una spinta solidaristica di matrice pubblica. Di recente questo fenomeno ha assunto maggiore rilevanza grazie ad alcune esperienze significative di predisposizione di piani di welfare condivisi e integrati. Il progetto “Alleanza Territoriale per le Famiglie”, realizzato nel territorio vicentino, ne rappresenta un esempio concreto: grazie a un’Alleanza Territoriale che ha coinvolto soggetti pubblici e privati è stato creato un piano di welfare condiviso. L’iniziativa si è contraddistinta per l’impiego di un assistente sociale (nel caso specifico, la presidente della cooperativa sociale che ha coordinato il percorso di progettazione). Tale figura professionale, attraverso le sue competenze di ascolto e rilevazione dei bisogni, rappresenta una risorsa essenziale per lo sviluppo di progetti di questo genere. Per questo motivo la presenza degli assistenti sociali in azienda, sebbene sia poco diffusa, rappresenta una frontiera professionale innovativa e percorribile (ne avevamo parlato anche qui).

Assistenti sociali: ripensare e ripensarsi

L’esperienza realizzata nel territorio vicentino ha rappresentato uno stimolo a riflettere sul ruolo dell’assistente sociale nell’attuale sistema di welfare e, in particolare, in contesti di co-progettazione di interventi tra soggetti pubblici e privati.

Dal punto di vista pratico-operativo, è possibile pensare a nuove strategie di risposta ai bisogni attraverso la co-programmazione tra diversi stakeholder, in una prospettiva di rete che si organizza fin dalla fase di rilevazione dei bisogni. Questo approccio consente di incontrare una pluralità di soggetti che, per la prima volta, hanno modo di parlare delle proprie esigenze; in questo modo è possibile raccogliere elementi che orientino interventi maggiormente rispondenti alle necessità del territorio. Rispetto al ruolo classico dell’assistente sociale, solitamente impegnato nei servizi pubblici o del Terzo Settore, questa dimensione a cavallo tra pubblico e privato rappresenta un’occasione di osservare la realtà circostante da un diverso punto di vista. Nel momento in cui vengono presi in considerazione cittadini/lavoratori con profili differenti rispetto agli utenti che solitamente frequentano i servizi pubblici, è possibile allargare lo sguardo sui bisogni della popolazione in senso più generale, includendo anche una fascia di “bisogni silenziosi” che vengono affrontati quotidianamente all’interno della rete famigliare o prossimale (per esempio la conciliazione tra vita personale e lavorativa, la cura dei figli e dei congiunti anziani).

Dal punto di vista relazionale, rimangono gli elementi propri della relazione professionale tra assistente sociale e utente ma, al contempo, è possibile svincolarsi dai rigidi canoni della presa in carico tipica dei servizi pubblici. L’operatore può così utilizzare con maggiore autonomia gli strumenti professionali acquisiti e sperimentati nel corso degli anni, adattandoli alle specificità di questo contesto innovativo. Le modalità di coinvolgimento dei diversi stakeholder, inoltre, rispondono a un approccio promozionale che ciascuno può declinare secondo le proprie competenze e i propri obiettivi di sviluppo. Stimolare l’attivazione dei diversi soggetti del territorio significa rendere esplicite le potenzialità di ciascuno per creare una relazionalità utile a costruire dei servizi migliori, appunto perché condivisi. Questa prospettiva ha inoltre il pregio di limitare la frammentazione degli interventi e di promuovere servizi non focalizzati sulla soluzione al singolo bisogno ma sulla promozione del benessere e dell’inclusione sociale, attraverso la realizzazione di una rete integrata di risorse.

La figura dell’assistente sociale risponde dunque alla necessità di stimolare apertura e interesse al dialogo, rendendo i singoli – lavoratori, cittadini e attori del territorio – protagonisti e co-progettatori del proprio welfare. Tutti gli attori possibili di una comunità sono quindi responsabilizzati rispetto alle loro potenzialità e all’importanza di partecipare e non delegare ad altri il ruolo di definizione del proprio benessere.

Secondo questa prospettiva il welfare nella sua declinazione aziendale – all’interno di un più ampio contesto di welfare territoriale e comunitario – rappresenta un luogo strategico per ripensare i concetti di libertà e responsabilità dei singoli individui. In questo particolare contesto la figura dell’assistente sociale ha la possibilità di incoraggiare un percorso di empowerment anche dal punto di vista organizzativo e comunitario: crea (o mantiene aperti) spazi di ascolto a supporto delle esigenze del singolo e, al contempo, raccoglie suggerimenti e spunti provenienti dai singoli lavoratori indipendentemente dalle proprie esigenze specifiche, rendendo il contesto aziendale un ambiente promozionale. L’ultimo passaggio è infine l’elaborazione di proposte e soluzioni che vadano al di là del contesto aziendale, coinvolgendo tutti i possibili attori del territorio.

In questo percorso vi è allora la necessità di identificare una spinta iniziale, un “animatore” di processi che, proattivamente, amplia il raggio di visione degli attori di riferimento dei vari territori, considerando la comunità in senso più allargato e dinamico nel quale ogni ambiente di vita delle persone ha la propria rilevanza per lo sviluppo del benessere dei singoli e della comunità nel suo insieme. In questo senso l’assistente sociale potrebbe attingere alle proprie competenze di ri-lettura dei bisogni per riportarli in una dimensione comunitaria di rete, svolgendo un ruolo di “regia” grazie alle competenze comunicative e relazionali proprie della professione.

Quindi, perché non un assistente sociale?