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L’articolo che segue è tratto dal numero 2/2025 di Quaderni di Economia Sociale, la rivista promossa da SRM e Fondazione CON IL SUD in collaborazione con Intesa Sanpaolo per raccontare il mondo della solidarietà, del non profit e della partecipazione civica, mettendo in luce il ruolo crescente dell’economia sociale come infrastruttura strategica per il futuro del Paese. Si scarica qui.

L’agenda dell’Unione europea (Ue) è mutata profondamente negli ultimi due decenni. A seguito dell’eurocrisi, dopo un ripiego verso politiche di austerità e un irrigidimento della dimensione economica del progetto di integrazione, l’Ue ha riscoperto la propria dimensione sociale, enunciata nei 20 principi e diritti fondamentali inclusi nel Pilastro europeo dei diritti sociali del 2017.

In tempi più recenti, sono state invece le politiche ambientali a guadagnare un posto di primo piano nell’agenda europea. Nel 2019 il Consiglio europeo ha adottato il Green Deal, un pacchetto di iniziative che mira ad avviare l’Ue sulla strada di una transizione verde, con l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica (zero emissioni di gas serra) entro il 2050. Il Green Deal è finanziato da un terzo degli investimenti del piano per la ripresa Next Generation EU e del bilancio settennale dell’Ue. Include, fra gli altri programmi, il Fondo per la transizione giusta (JTF – Just Transition Fund), un piano di investimenti pubblici che mira a fornire sostegno ai territori alle prese con gravi sfide socio-economiche derivanti dalla transizione verde. Il fine del JTF, così come quello del più recente Social Climate Fund, è quello di rendere più equa ad inclusiva la transizione ecologica, mitigandone gli effetti collaterali in termini di diseguaglianze, perdita di posti di lavoro in settori produttivi altamente inquinanti ed esclusione delle fasce più vulnerabile della popolazione.

I policy maker europei sono infatti consci del fatto che le sfide più complesse legate al perseguimento della neutralità climatica rigardano il nesso tra crescita economica, coesione sociale e protezione ambientale, e le possibili difficoltà nel conciliare queste tre dimensioni (Mandelli et al. 2021).

A fronte dei recenti sviluppi dell’agenda Ue, questo contributo sonda gli atteggiamenti dei cittadini europei nei confronti delle priorità ‘eco-sociali’ dell’Unione. Nello specifico, ci siamo posti le seguenti domande: cosa pensano i cittadini europei degli obiettivi ambientali e sociali dell’Ue? L’opinione pubblica accoglie positivamente entrambe le priorità strategiche oppure emergono contrapposizioni e trade-off fra la dimensione ‘verde’ e quella sociale (o meglio, come si vedrà sotto, ‘quelle sociali’)?

Due ondate di rischi sociali

Il nesso tra rischi e politiche ambientali e sociali ha di recente richiamato l’attenzione di molti scienziati sociali e politologi. I sociologi si sono concentrati in particolare sull’analisi delle diseguaglianze generate dal cambiamento climatico e dalle politiche verdi (un tema che approfondiamo nel seguente paragrafo). Chi si occupa di politica economica e studi comparati sul welfare state ha invece evidenziato le tensioni socio- politiche che possono emergere fra le nuove priorità ‘verdi’ e diversi tipi di politiche sociali ormai consolidate.

A partire dal loro sviluppo, nel corso del secolo scorso, i sistemi di welfare europei hanno dovuto far fronte a due grandi ondate di rischi sociali. La prima ondata di rischi è quella che ha accompagnato il fiorire delle società industriali. In particolare nel secondo dopoguerra, nella cosiddetta ‘età dell’oro’ della crescita economica e dei welfare state nazionali, i governi europei hanno espanso in maniera considerevole una vasta gamma di politiche sociali il cui obiettivo era, ed è tutt’oggi, quello di offrire qualche forma di compensazione economica ai lavoratori e alle loro famiglie in caso di perdita o interruzione del lavoro dovuta a disoccupazione, malattia, infortuni, e anche alla necessità di un reddito da pensione in età avanzata. Nelle società industriali l’utente idealtipico su cui veniva tarato il nascente welfare state era quello del capofamiglia maschio—‘male breadwinner’ nella letteratura anglosassone. Su questa logica compensativa, di protezione sociale, vennero impostati i sistemi moderni di assicurazione sociale, presto seguiti da programmi di assistenza sociale per chi invece restava escluso dal mercato del lavoro, in situazioni di povertà. In concreto, si tratta di trasferimenti monetari quali sussidi di disoccupazione, pensioni, cassa integrazione, redditi minimi e aiuti per gli indigenti.

I cambiamenti economici, demografici e sociali che hanno accompagnato il passaggio a società post-industriali a partire dagli anni ‘70 hanno originato una seconda ondata di rischi sociali—i ‘nuovi rischi sociali’, come sono stati chiamati dagli studiosi del welfare (si veda per esempio Taylor-Gooby [2004]). I processi di deindustrializzazione, di terziarizzazione (passaggio all’economia dei servizi), l’apertura dei mercati legata al processo di globalizzazione (e, all’interno dei confini Ue, al processo di integrazione europea), il rapido avanzamento tecnologico hanno ridisegnato i confini del mondo del lavoro. Se il sociologo americano Jeremy Rifkin parlava di ‘fine del lavoro’ ormai quasi trent’anni fa, la recente diffusione delle intelligenze artificiali (IA) generative come ChatGPT fornisce un esempio lampante di come le sicurezze dell’operaio specializzato e dell’impiegato-tipo degli anni ‘70 siano sfumate rispetto al timore che hanno oggi molti lavoratori (non necessariamente poco istruiti) di essere sostituiti da processi automatizzati o dall’IA.

Sfide e scenari delle transizioni eco-sociali: un sistema di welfare sostenibile è possibile?

A tutto ciò si aggiungono mutamenti ancor più profondi dello stesso tessuto sociale che negli anni d’oro del dopo-guerra aveva tenuto assieme le società dell’era industriale. Il massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro, l’aumento delle separazioni e, in generale, il cambiamento dei modelli familiari tradizionali hanno contributo ad ingrossare l’ondata di ‘nuovi’ rischi e bisogni sociali a cui i welfare state devono rivolgersi (in molti casi, faticando tutt’oggi a farlo). Obiettivi per cui i tradizionali schemi di protezione sociali non bastano, laddove occorrono servizi, e non solo trasferimenti monetari, per dare una risposta ai nuovi rischi sociali.

É questo il caso dell’istruzione e della formazione continua, delle politiche attive del lavoro, dei servizi di cura per anziani e disabili, e di tutto l’insieme di politiche di conciliazione lavoro- famiglia (asili nido, congedi parentali, e così via). Insomma, un blocco di nuovi ‘investimenti sociali’ il cui fine non è la mera compensazione del reddito dopo il concretizzarsi di un rischio (per esempio la disoccupazione), ma piuttosto quello di creare, mobilitare e preservare capitale umano, così da offrire più opportunità ai cittadini di conseguire non solo un buon lavoro, ma anche un maggiore benessere in società sempre più dinamiche e complesse (sul paradigma e le politiche di ‘investimento sociale’ si vedano Garritzmann et al. [2022], Hemerijck [2013], Ciarini [2020]).

Le politiche di protezione e quelle di investimento sociale perseguono dunque obiettivi diversi, benchè complementari, all’interno dei moderni sistemi di welfare. Di conseguenza, sono tipicamente apprezzate da differenti gruppi sociali. Una serie di ricerche empiriche sull’opinione pubblica ha dimostrato che, in sostanza, i lavoratori manuali con livelli d’istruzione medio-bassi tendono a preferire gli interventi di protezione sociale, mentre le politiche di investimento sociale trovano maggiore supporto tra le cosiddette ‘nuove classi medie’ (Iversen e Soskice 2019), ovvero cittadini in media più giovani, con livello di istruzione alto (laureati), lavoratori della ‘conoscenza’, o, più in generale, occupati nei servizi del terziario avanzato che fioriscono nelle grandi città (Busemeyer e Neimanns 2017). I lavoratori i cui posti sono più esposti al rischio di delocalizzazione o automazione preferiscono le politiche di protezione sociali, essendo logicamente potenziali beneficiari di sussidi in caso di disoccupazione (Rommel e Walter 2018).

La terza ondata: rischi e divisioni eco-sociali

Il cambiamento climatico e le sfide poste dalla transizione verde portano con sé una terza ‘ondata’ di rischi sociali o, più precisamente, eco-sociali. Questi ultimi possono avere effetti distributivi diretti o indiretti. L’inquinamento, i disastri naturali dovuti al cambiamento climatico (alluvioni, siccità, ondate di calore, ecc.) hanno conseguenze dirette sulla qualità di vita di chi vive in zone più esposte, sia in termini di salute che in termini di lavoro e sicurezza economica (si pensi, per esempio, ad agricoltura e turismo in regioni sempre più colpite da carenza d’acqua e incendi). D’altra parte, le politiche per contrastare il cambiamento climatico possono generare effetti perversi indiretti. Come sottolineano Gugushvili and Otto (2021), i rischi indiretti associati alla transizione verde possono materilizzarsi su tre piani.

In primo luogo, dati gli esigui margini fiscali in cui si muovono i governi in fase di stesura delle leggi di bilancio, l’espansione degli investimenti pubblici in nuove politiche ambientali potrebbe avvenire al costo di tagli alle politiche sociali. Secondo, la transizione verde potrebbe rallentare la crescita economica, sulla quale, in ultima istanza, si appoggia lo stesso equilibrio del bilancio statale. Terzo, le politiche ambientali possono avere (e spesso hanno) effetti regressivi, ed aumentare diseguaglianze già esistenti (Zachmann et al., 2018). Due esempi di ciò sono le tasse o i divieti sui combustibili fossili e i bonus per l’ammodernamento energetico delle abitazioni private, come il Superbonus 110% introdotto nel 2020 dal governo Conte II. Norme restrittive sull’impiego, per esempio, di veicoli altamente inquinanti tendono a penalizzare gli individui con redditi bassi, che difficilmente si possono permettere altri tipi di auto. Il Superbonus, come d’altra parte tutti gli altri bonus edilizi, ha avvantaggiato in maniera sproporzionata, in termini di risparmio energetico, i ceti più abbienti (Pisauro 2022).

Politiche energetiche e sviluppo: una transizione “giusta” è ancora possibile?

In questo contesto recenti studi sull’opinione pubblica si sono dedicati all’analisi delle cosiddette ‘divisioni eco-sociali’, ovvero alle tensioni che emergono rispetto alle preferenze per le politiche ambientali o sociali da parte di cittadini di diversa estrazione sociale. Alcuni studi hanno evidenziato che il supporto per le politiche ambientali si contrappone spesso a quello per le politiche sociali: chi valuta positivamente le prime non vede così di buon occhio le seconde e vice versa (Armingeon and Bürgisser 2021; Otto and Gugushvili 2020). Come visto sopra, le politiche sociali—o meglio di protezione sociale—sono preferite da fascie di popolazione con redditi e livello d’istruzione relativamente bassi; le politiche verdi, invece, sono generalmente apprezzate da cittadini con maggiore sicurezza economica, più alto livello di istruzione, e dalle generazioni più giovani. Insomma, qualche affinità potrebbe emergere fra chi sostiene le politiche verdi e di investimento sociale (le nuove classi medie); lo stesso non si può dire per le misure ‘classiche’ di protezione sociale, preferite dalle fasce più vulnerabili della popolazione, che rimangono al contempo scettiche nei confronti delle politiche ambientali.

Opinione pubblica e politiche eco-sociali

Come anticipato nell’introduzione, l’Ue ha posto la transizione verde al centro della propria agenda. Questi nuovi obiettivi vanno a congiungersi all’agenda sociale europea, che contiene sia elementi di investimento sociale, che di rafforzamento dei programmi di protezione sociale dei Paesi membri.

È per questo che in una recente ricerca ci siamo dedicati a mappare gli atteggiamenti dei cittadini europei nei confronti di tre priorità strategiche dell’Ue—le politiche ‘verdi’, e di ‘investimento’ e ‘protezione’ sociale (Ronchi, Natili e Molteni 2023). Le analisi sono state condotte su dati presi da un’indagine demoscopica condotta in 14 Paesi dell’Ue 2 fra il giugno e il luglio 2021, nel quadro del progetto di ricerca SOLID (‘Policy Crisis and Crisis Politics, Sovereignty, Solidarity and Identity in the EU Post-2008’), finanziato con fondi del Consiglio europeo di ricerca e di cui sono partner anche l’Università degli Studi di Milano e la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

La survey SOLID includeva la seguente domanda sulle priorità strategiche dell’Ue: ‘Si pensi al ruolo dell’Unione Europea nel coordinare e stabilire obiettivi comuni per le politiche di welfare degli Stati membri. Secondo lei, a quali due delle seguenti aree di politica sociale dovrebbe dare priorità l’UE?’ Gli intervistati potevano scegliere fra una pluralità di opzioni che, sulla base sia delle considerazione teoriche dei precedenti paragrafi che di tecniche statistiche (analisi dei cluster), abbiamo raggrupato nelle tre seguenti categorie:

  1. Politiche verdi: Transizione verso un’economia verde.
  2. Investimenti sociali: Programmi di istruzione e formazione; Creazione di posti di lavoro e opportunità di disoccupazione per i giovani.
  3. Protezione sociale: Protezione sociale per i disoccupati; Cassa integrazione; Assistenza sociale ai poveri.

Abbiamo poi proceduto ad esaminare quali caratteristiche sociodemografiche fossero associate alla preferenza di priorità ‘verdi’piuttosto che di investimento o protezione sociale, in modo da tratteggiare i profili ideal-tipici dei cittadini ed elettori europei che si rinocoscono in uno o più degli obiettivi strategici della nuova agenda Ue. Le tre variabili di interesse— preferenze per politiche verdi, di investimento, e di protezione sociale—sono state standardizzate, ovvero espresse su una scala standard la cui media è uguale a zero. Nelle figure qui sotto riportate, dunque, un valore vicino allo 0 indica che la categoria in questione non si discosta in modo significativo dalla media della popolazione. Un valore positivo (>0) indica invece che alla categoria in esame corrisponde una preferenza per quella policy superiore a quella media, e vice versa per le predizioni negative. Riportiamo a seguito i risultati principali della ricerca.

Gli italiani e il mutamento climatico: un barometro eco-sociale

La figura 1 si focalizza sull’effetto delle caratteristiche sociodemografiche. In primo luogo, ed in linea con precedenti ricerche empiriche, il livello d’istruzione è un predittore fondamentale delle preferenze dei cittadini nei confronti di politiche sia verdi che sociali. Più alto il livello d’istruzione, più alto tende ad essere il livello di supporto per politiche verdi o di investimento sociale. Il contrario vale invece per le politiche di protezione sociale, che tendono ad essere preferite da chi ha un livello d’istruzione più basso. Rispetto alle fasce d’età, è interessante notare come, al contrario di ciò che si potrebbe ipotizzare, gli over-55 mostrano un minore supporto per le politiche di protezione sociale rispetto alle coorti più giovani. Ciò potrebbe dipendere dalla situazione di maggiore sicurezza goduta da buona parte delle generazioni più anziane, inserite in maniera più stabile nel mercato del lavoro o già percettrici di pensione, e dunque potenzialmente più aperte ad accogliere positivamente investimenti dell’Ue su obiettivi nuovi (e che, d’altra parte, potrebbero giovare ai nipoti di molti di questi over-55, come nel caso sia delle politiche ambientali che di investimenti in formazione e inserimento lavorativo dei giovani). Coerentemente con quanto rilevato da altri autori, invece, i giovani (18- 24) prediligono obiettivi verdi e di investimento sociale. Non emergono differenze eclatanti rispetto all’area di
residenza e al genere degli intervistati.

Figura 1. Predizioni delle preferenze per le politiche verdi, di investimento e di protezione sociale al variare delle caratteristiche sociodemografiche. Fonte: Romchi, Natili e Molteni 2023.

Un altro fattore che influenza le preferenze di policy è la situazione occupazionale.  Dalla figura 2 emerge chiaramente come i disoccupati siano la categoria che mostra il maggiore supporto per la protezione sociale (che include, infatti, i sussidi di disoccupazione) e, allo stesso tempo, minore supporto per gli obiettivi verdi e di investimento sociale rispetto alle altre categorie. Il contrario vale invece per pensionati e autonomi. Le differenze fra categorie occupazionali sono più sfumate. Si nota tuttavia come i lavoratori manuali (sia gli operai che chi lavora in servizi labor-intensivi come i servizi di cura, di pulizie, nella ristorazione, ecc.) tendano a preferire obiettivi sociali a quelli verdi. Nello specifico, i lavoratori dei servizi labor-intensivi sembrano apprezzare in particolare le politiche di investimento sociale, mentregli operai dell’industria quelle di protezione sociale. Al contrario, i professionisti che lavorano nei servizi del terziario avanzato mostrano un maggior supporto per le politiche verdi (e di investimento sociale) rispetto alle altre categorie.

Figura 2. Predizioni delle preferenze per le politiche verdi, di investimento e di protezione sociale al variare della situazione e della categoria occupazionale. Fonte: Romchi, Natili e Molteni 2023.

La figura 3 mostra infine le predizioni delle preferenze di policy Ue per gli intervistati che temono di perdere il proprio lavoro a causa dell’automazione o di dinamiche legate alla globalizzazione. L’immagine che emerge rispetto a queste due variabili è ancor più netta di quanto osservato sopra. In entrambi i casi, chi percepisce come ‘molto probabile’ la perdita del lavoro mostra chiare preferenze per obiettivi di protezione sociale piuttosto che verdi, e vice versa. Plausibilmente, infatti, chi si sente a rischio presta molta più attenzione a politiche che gli possano garantire una compensazione monetaria in caso di disoccupazione. Il trade-off eco- social è comunque meno marcato se si guarda alle politiche di investimento sociale, per le quali chi ritiene ‘molto probabile’ la perdita del lavoro mostra un livello di supporto simile a chi, invece, vede tale rischio come ‘altamente improbabile’.

Figura 3. Predizioni delle preferenze per le politiche verdi, di investimento e di protezione sociale al variare del timore degli intervistati di perdere il lavoro a causa dell’automazione o di dinamiche legate alla globalizzazione. Fonte: Romchi, Natili e Molteni 2023.

Riflessioni conclusive

Tirando le somme, questi risultati mostrano che le ‘nuove classi medie’, ovvero i gruppi sociali più istruiti e meglio
inseriti nei mercati del lavoro della knowledge-economy, formano il fulcro di ciò che potrebbe delinearsi come coalizione elettorale di supporto alla nuova agenda eco-sociale europea. Sono questi gruppi sociali, infatti, ad apprezzare sia obiettivi ‘verdi’ che di ‘investimento sociale’. Gli individui meno istruiti e, in generale, più a rischio di disoccupazione sono meno favorevoli alla transizione verde, probabilmente temendone effetti distributivi sfavorevoli e, quasi sicuramente, preferendo anche da parte dell’Ue una maggiore attenzione alla protezione dai rischi sociali ‘vecchi’ e ‘nuovi’. La legittimità della nuova agenda Ue agli occhi dei cittadini europei dipende dunque in modo cruciale da come l’Unione riuscirà a tener conto delle necessità e dei timori delle fasce più vulnerabili della popolazione.

La realizzazione di una transizione verde ‘giusta ed equa’, per riprendere gli obiettivi dello stesso Just Transition Mechanism, dipenderà in gran parte da come verrà implementato, di concerto coi governi nazionali, il Social Climate Fund, che per la prima volta sposta il focus della compensazione degli ‘effetti collaterali’ della transizione direttamente su obiettivi di protezione sociale (‘direct income support for vulnerable households’), oltre a promuovere misure ed investimenti che riducano le emissioni nei settori del trasporto e dell’edilizia in modo da ridurre allo stesso tempo i costi per famiglie ed utenti più vulnerabili, e per le piccole imprese.

 

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Riferimenti bibliografici

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Foto di copertina: Noah Buscher, Unsplash.com