9 ' di lettura
Salva pagina in PDF
L’articolo che segue è parte di “Allargare lo sguardo sulla conciliazione”, dispensa che raccoglie approfondimenti tematici per i partecipanti del modulo formativo “Rinnovare le RTC: reti e nuove logiche per innovare i servizi locali” realizzato da WorkLife Community.

Quella dell’equilibrista è una metafora che molto facilmente è passata dal delineare all’interno del mondo circense la capacità di coloro che sono in grado di destreggiarsi in giochi di equilibrio – su di una fune sospesa nel vuoto, su di un monociclo e così via – a rappresentare coloro che nel dipanarsi della vita quotidiana devono destreggiarsi tra vari aspetti e impegni – da quelli lavorativi a quelli familiari, da quelli dedicati al tempo libero e alla cura di sé a quelli dedicati alla cura degli altri, spesso figli e figlie e genitori anziani.

Non sorprende, dunque, che questa metafora sia soprattutto declinata al femminile, visto lo squilibrio di genere che caratterizza la suddivisione del lavoro produttivo e riproduttivo all’interno della società contemporanea. Ed è proprio a questo che si richiama il report di Save the Children intitolato “Le equilibriste: la maternità in Italia nel 2023, curato da Alessandra Minnello e Maddalena Cannito, giunto ormai alla sua ottava edizione.

Natalità al minimo storico

Non è un mistero che la popolazione italiana sia in costante calo dal 2008 e neanche che nel 2022 si sia registrato il record minimo di nascite, scese per la prima volta dalla seconda metà del 1800 sotto la soglia delle 400.000 unità (Istat 2022). 

Come abbiamo raccontato anche nella serie Denatalitalia, l’abbassamento delle nascite, oggi, si presenta non solo nel dato rilevato dal divario tra fertilità reale e desiderata ma anche nel minore numero di primi/e figli/e. Se da un lato, infatti, i/le primogeniti/e nel 2021 sono diminuiti/e del 34,5% rispetto al 2008; dall’altro è interessante riflettere su come questo dato mal si concili – almeno a prima vista – non con il tasso di fecondità delle donne italiane (pari a 0,8 per la fascia 25-39 anni e, in media a 1,25), ma con il numero di figli desiderati, dato che per l’Italia si attesta in media a 2 figli/e, attestandosi tra i valori più alti nel contesto Europeo dal 2012 (Testa, 2012). In particolare, la Figura 1 mostra come dal 1995 la natalità abbia subito un progressivo rinvio: cresce infatti la fecondità nella fascia d’età superiore ai 30 anni e si “recupera” il posticipo della maternità dopo i 35 anni.

Figura 1, Tassi di fecondità specifici per età delle donne residenti in Italia. Anni 1995-2010 (solo italiane e totale) e 2021 (solo italiane e totale), valori per 1.000 donne.
Figura 1, Tassi di fecondità specifici per età delle donne residenti in Italia. Anni 1995-2010 (solo italiane e totale) e 2021 (solo italiane e totale), valori per 1.000 donne. Fonte: Istat, 2022, Natalità e fecondità della popolazione residente – anno 2021 (Minello e Cannito 2023, p. 4)

Inoltre, se negli anni precedenti la presenza della popolazione residente di origine straniera era stata in grado di controbilanciare il dato grazie a tassi di fecondità più elevati, con il passare del tempo i comportamenti delle donne straniere si sono avvicinati a quelli delle autoctone: anche tra le famiglie con almeno un genitore straniero sono dunque diminuite le nascite, passando da più di 107.000 nati nel 2012 a poco meno di 86.000 nel 2021. Altrettanto simile appare quindi la decrescita nei nuclei con entrambi i genitori stranieri, dove si passa da circa 80.000 figli/e nel 2012 ai quasi 57.000 del 2021.

Le cause della denatalità 

I fattori che incidono su questi trend sono molti e riguardano ogni aspetto della vita quotidiana, a partire dalla “sindorme del ritardo” (Hulder e Billari 2010; Livi-Bacci 2001) rispetto alla formazione della coppia e alla lunga permanenza dei giovani presso il nucleo di origine. 

I giovani tendono infatti a ritardare l’inizio della vita indipendente a causa, da un lato, dell’investimento nell’educazione e, dall’altro, delle difficoltà riscontrate nell’ingresso nel mondo del lavoro, in un mercato dove spesso si trovano ad affrontare incarichi precari e instabili. Entrambe queste dimensioni, della formazione e del lavoro, sono comunque sempre accompagnate da una crescente criticità legata alle condizioni abitative, con un mercato immobiliare aggravato anche dalla crisi pandemica e quindi estremamente sfavorevole nei confronti delle giovani coppie.

Emerge quindi il tema dei costi, non solo di affitti e abitazioni, ma anche della cura dei figli e delle figlie che, insieme alla carenza di politiche a sostegno delle famiglie, incidono direttamente sul calo della propensione ad avere figli/e da parte delle coppie italiane. Se consideriamo, in questo senso, la situazione esperita dalle donne straniere, anche l’assenza di una rete di supporto familiare sul territorio italiano va chiaramente annoverata tra le cause di una ridotta fertilità. 

In termini di occupazione, interessante è la relazione presentata dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) sulla convalida delle dimissioni e delle risoluzioni contrattuali di madri lavoratrici e padri lavoratori, poiché rivela che, nel 2021, il 6% degli uomini si è dimesso dal proprio impiego in occasione della nascita di un/a figlio/a a causa di difficoltà riscontrate nella conciliazione tra vita lavorativa e responsabilità di cura.

Il dato per le donne si è attestato invece al 65,5%. Di queste, il 44% riporta difficoltà connesse alla scarsità di servizi e il 22% problemi che riguardano l’azienda e l’organizzazione del lavoro. Inoltre, dalla relazione emerge anche che tra coloro che si dimettono per passare a un’altra azienda (e mantengono quindi l’impiego nonostante la maternità/paternità) si registrano il 22% di risposte femminili contro il 78% di quelle maschili. In un Paese in cui più di 6 donne su 10 rinunciano al proprio lavoro per adempiere alle responsabilità di cura della prole, cosa si può fare per favorire il raggiungimento di un nuovo equilibrio? 

Quando nasce un figlio/a, nasce un padre?

I più recenti dati Istat parlano chiaro: in generale, i padri sono maggiormente occupati rispetto agli uomini e alle donne senza figli/e, ma soprattutto rispetto alle madri, indipendentemente dall’area geografica considerata (Figura 2) o dal titolo di studio conseguito (Figura 3).

Figura 2, Tasso di occupazione (25-54enni) per sesso, area geografica, presenza di figli/e minori. Anno 2022 (valori percentuali).
Figura 2. Tasso di occupazione (25-54enni) per sesso, area geografica, presenza di figli/e minori. Anno 2022 (valori percentuali). Fonte: Minello e Cannito (2023, p.14)
Figura 3, Tasso di occupazione (25-54enni) per sesso, titolo di studio, presenza di figli/e minori. Anno 2022 (valori percentuali).
Figura 3. Tasso di occupazione (25-54enni) per sesso, titolo di studio, presenza di figli/e minori. Anno 2022 (valori percentuali). Fonte: Minello e Cannito (2023, p.15)

Eppure è innegabile che negli ultimi anni, insieme all’aumento della consapevolezza e del dibattito concernente le questioni di genere e il divario nella cura, la paternità abbia subito ingenti cambiamenti e si sia rimessa in gioco anche grazie all’introduzione di normative quali i congedi parentali e di paternità (ve ne parlavamo anche qui). 

Da un lato, sottolineano Minello e Cannito nel quarto capitolo del report “Le equilibriste”, le aspettative delle madri rispetto a una maggiore condivisione dei compiti di cura sono aumentate. Dall’altro sono mutati anche i modelli di paternità, che si fondano molto più che in precedenza sulla presenza e sul coinvolgimento nella crescita dei/delle figli/e – nonostante il coinvolgimento è  ancora più emotivo che materiale, soprattutto per quanto riguarda le attività routinarie della cura.

Inoltre, a controbilanciare lo sconfortante dato rilevato dall’INL sulle dimissioni, il Rapporto State of Europe’s Father (2020) evidenzia come circa il 40% dei padri italiani riporti di avere difficoltà a conciliare il proprio impegno lavorativo con i compiti di cura. Questi dati, dunque, segnalano un cambiamento in atto che viene promosso dalle fasce più giovani della popolazione, poiché le differenze di genere si attenuano nei giovani tra i 25 e i 29 anni (dove 7 padri su 10 si prendono cura e giocano abitualmente con i/le figli/e) e tra i 30 e i 39 anni (anche se le percentuali si riducono ad 1 padre su 2).

Al fine di promuovere un sempre maggiore coinvolgimento dei padri nella vita e nella cura dei/delle figli/e, è fondamentale che le politiche di conciliazione smettano di essere pensate “per le donne” e promuovano sempre di più l’utilizzo dei congedi parentali e di paternità, oltre ad aumentarne la durata. Un dato molto positivo in chiave longitudinale, infatti, riguarda  l’aumento di 38 punti percentuali, verificatosi tra il 2013 e il 2021, del numero di uomini che hanno usufruito di queste misure (Figura 4) (De Paola e Moro 2023).

Figura 4. Fruitori di congedi di paternità facoltativo e obbligatorio. Anni 2013-2021.
Figura 4. Fruitori di congedi di paternità facoltativo e obbligatorio. Anni 2013-2021. Fonte: Istat, 2022. Fonte: Minello e Cannito (2023, p. 45)

È inoltre fondamentale investire affinché anche i lavoratori autonomi e parasubordinati possano beneficiare di queste misure – poiché ad oggi ne sono ancora esclusi. Una riflessione, in questo senso, può e deve essere fatta sull’obbligatorietà dell’utilizzo dei congedi di paternità che, sebbene prevista dal punto di vista formale, non prevede reali vincoli o sanzioni per il mancato utilizzo.

Due rischi da evitare

Essenziale per la promozione di politiche per la natalità è il coinvolgimento attivo dei padri nella cura dei/delle figli/e, ma altrettanto essenziale è anche ricordare che quella di avere figli/e è una possibilità, non un obbligo o un dovere (Minello, Meli e Tocchioni 2019). Concepire la maternità (ma anche la paternità) come una “libera scelta” – invece di un obbligo imposto dalla società – è un passo fondamentale nella definizione delle politiche per la natalità perché è anche attraverso la tutela di coloro che madri (e padri) non vogliono o non possono esserlo che si può costruire una migliore politica a sostegno di coloro che invece possono e vogliono avere figli/e. 

Promuovere la natalità, infatti, non significa che ogni persona (e soprattutto ogni donna) debba per forza procreare. Piuttosto, significa offrire gli strumenti necessari a fare in modo che coloro che vogliono e possono avere figli/e possano farlo in sicurezza, sia da un punto di vista socio-economico, sia da un punto di vista meramente medico e sanitario. In questo senso, ad esempio, sono molte le madri che nel report di Save the Children valutano positivamente l’assistenza ricevuta dal punto di vista medico (81%) durante il parto in ospedale; tuttavia, nel documento emerge anche che 1 donna su 2 non si è sentita accudita sul piano emotivo/psicologico.

Troppo spesso, infatti, uno dei temi principalmente sottaciuti e sminuiti è quello della violenza ostetrica subita durante il parto dal 21% delle madri, mentre il 41% di esse ha dichiarato di essere stata vittima di pratiche lesive per la propria dignità psicofisica (Figura 5) (Osservatorio sulla Violenza Ostetrica 2017; Zennaro 2023).

Figura 5, Le donne e il parto.
Figura 5, Le donne e il parto. Fonte: Doxa-OVOItalia (2017)

L’altro tema spesso dimenticato è quello delle donne childless e childfree. Il “mito della maternità” (Minello 2020), infatti, evoca questo percorso di vita come l’unico disponibile e perseguibile. Tuttavia, non possiamo dimenticare che percorsi di vita altrettanto validi sono rappresentati dalle esperienze di tutte quelle donne che per vari motivi (da quelli biologici a quelli lavorativi e di coppia) hanno dovuto rinunciare ad avere figli/e (i.e., childless) né quelle di coloro che hanno scelto consapevolmente di non essere madri  (i.e., childfree).

Anche in questi casi, se guardiamo all’ambito medico oltre che a quello socio-economico e culturale, è fondamentale riflettere su come provvedimenti che mirino a limitare o rimuovere il diritto all’autodeterminazione terapeutica nell’interruzione volontaria di gravidanza siano decisamente contraddittori, non solo perché dall’entrata in vigore della legge 194 il tasso di aborti è diminuito del 71,6%, ma anche perché esperienze come quella della Francia ci dimostrano che accesso gratuito alla contraccezione e  legalizzazione dell’aborto non incidono negativamente sul tasso di natalità (Fassari 2023). 

Abbiamo avuto modo di approfondire il caso francese in un contributo di Paolo Riva, dove non si può fare a meno di notare il ruolo centrale giocato dagli interventi strutturali e dalle politiche implementate a sostegno delle famiglie – che, coniugate con quelle per promuovere la parità di genere, restano l’unica vera soluzione al problema della denatalità così come a quello della ricerca di un equilibrio più stabile tra vita e lavoro. 

 

 

Bibliografia 

Foto di copertina: Niklas Ohlrogge, Unsplash