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Il 23 luglio su Corriere Buone Notizie, inserto settimanale del Corriere della Sera, è stata pubblicata un’inchiesta curata da Percorsi di secondo welfare sulla conciliazione famiglia-lavoro. Di seguito trovate la riflessione del nostro ricercatore Federico Razetti; qui invece potete leggere l’articolo di contesto scritto da Paolo Riva e consultare al relativa infografica.

Secondo la fortunata formulazione del politologo statunitense Thomas Dye, le politiche pubbliche sono tutto quello che le amministrazioni decidono di fare o di non fare. Pensando alle politiche italiane per la famiglia e per la conciliazione vita-lavoro, il pensiero corre al poco che le amministrazioni fanno (e che potrebbero fare meglio) e al molto che invece non fanno (e sarebbe auspicabile cominciassero a fare). Se i 28 Paesi dell’UE destinano in media il 2,4% del proprio PIL a questi interventi, l’Italia si limita all’1,8%. Il sottosviluppo cronicizzato degli strumenti a sostegno dei nuclei familiari e, in particolare, delle donne, ha prodotto e continua a produrre effetti devastanti sul tessuto economico, sulla struttura demografica e sulla sostenibilità del sistema di welfare del Paese.

A un’occupazione femminile in crescita ma ancora contenuta (non raggiunge il 50%), corrisponde il più basso numero medio di figli per donna in Europa (appena 1,32). Le donne con figli incontrano infatti più ostacoli di quelle senza prole a entrare o restare nel mondo del lavoro. Anche su questo fronte il quadro italiano non è omogeneo: le differenze fra i territori aiutano a riflettere sugli effetti prodotti dalle decisioni (e dalle non-decisioni) di policy. Mentre nelle regioni del Centro-Nord si osserva una relazione positiva fra tasso di occupazione femminile e natalità (più donne occupate e più bambini per donna), nel Mezzogiorno si nota la persistenza della relazione opposta, a segnalare che le due scelte – lavorare o avere figli – sono spesso alternative. Le scelte sono ovviamente influenzate dalla diversa forza degli stereotipi di genere, ma anche dalla maggiore o minore disponibilità di servizi che permettano alle donne di conciliare efficacemente gli impegni lavorativi con quelli familiari. L’esempio degli asili nido è forse quello più noto. Ma la gamma di interventi per de-familizzare la cura, ovvero attribuirla, in parte, a soggetti esterni alla famiglia e liberare così forza lavoro femminile, è molto vasta: dal pre e post-scuola ai campi estivi e invernali fino all’assistenza domiciliare per le persone non autosufficienti.

Se dal Governo non arrivano segnali incoraggianti in questa direzione (dai tentennamenti sul congedo di paternità al discutibile “bonus terreni”), alcune tendenze positive si registrano guardando alle iniziative assunte a livello territoriale dalle parti sociali, spesso insieme alle amministrazioni locali. Gli strumenti della contrattazione, in particolare attraverso il welfare aziendale, possono certamente aiutare a creare un ambiente produttivo più favorevole alla conciliazione. Una recente ricerca realizzata da Percorsi di secondo welfare per analizzare le esigenze di conciliazione famiglia-lavoro fra le imprenditrici di Confcommercio Varese segnala la crescente attenzione di parte del mondo imprenditoriale verso questi temi. Allo stesso tempo, evidenzia quanto sia lungo il percorso da fare sulla strada della conciliazione, se anche in un contesto “privilegiato” come quello delle piccole imprenditrici di una ricca provincia lombarda, le soluzioni disponibili si basano su un mix di servizi pubblici e “welfare fai da te”, che non lascia tempo per la vita privata e appare poco sostenibile sul medio-lungo periodo.


Questo articolo è stato pubblicato su Buone Notizie del 20 luglio 2019 ed è stato realizzato nell’ambito della collaborazione tra Percorsi di secondo welfare e il settimanale del Corriere della Sera.