3 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Il Reddito di Cittadinanza si appresta a celebrare il suo primo compleanno. È stata una riforma importante, che ha dotato il welfare italiano dell’ultimo tassello mancante: la garanzia di un reddito minimo a chi è privo di risorse sufficienti per far fronte ai bisogni della vita quotidiana.

L’Unione Europea aveva esortato i Paesi membri a dotarsi di questa misura già nel 1993. L’Italia è stata l’ultima a uniformarsi. Partire in ritardo aggrava i problemi, ma può anche fornire un’opportunità: quella di imparare dall’esperienza altrui. Purtroppo il governo giallo-verde non lo ha fatto. E, inspiegabilmente, ha deciso di ignorare anche la sperimentazione già in corso in Italia, quella del Reddito di inclusione (REI). La riforma è così nata con alcuni macroscopici vizi d’origine, che un minimo di preparazione e attenzione avrebbero potuto facilmente evitare.

Il Reddito di Cittadinanza (RdC) è stato innanzitutto sovraccaricato di funzioni. Il decreto istitutivo lo ha presentato come misura «fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro».

Troppi obiettivi, che negli altri Paesi sono, correttamente, assegnati a un più ampio ventaglio di politiche. Meglio sarebbe stato focalizzarsi sul contrasto alla povertà e all’emarginazione: una vera emergenza nel nostro Paese, perché riguarda soprattutto i bambini. Fra i nuclei che beneficiano del RdC, quelli con presenza di minori sono «solo» 368.000 su 890.000, ma i loro componenti rappresentano quasi il 60% del totale. Se tutti gli adulti «avviabili» trovassero un lavoro — ipotesi purtroppo poco plausibile, soprattutto al Sud — la sicurezza economica dei nuclei numerosi aumenterebbe, ma la sfida dell’inclusione sociale resterebbe pressoché inalterata (pensiamo all’evasione scolastica o alla povertà educativa). Come avviene negli altri Paesi, lo strumento da privilegiare su questo fronte è il welfare locale: un insieme capillare di servizi sociali volti a «capacitare» le persone e non solo a sussidiarle. Per fortuna, l’infrastruttura costruita dal REI non è stata cancellata. È da qui che bisogna ripartire.

Un secondo vizio d’origine del RdC è legato agli importi. Al di là dei vantaggi politico-comunicativi, non è chiaro perché il governo giallo-verde e in particolare l’ex Ministro del Lavoro Di Maio si siano impuntati sui famosi 780 euro mensili. Si tratta di una cifra che — espressa in percentuale del reddito mediano — è quasi il doppio degli importi che Francia o Germania prevedono per una persona singola priva di risorse. Una soglia così alta ha ristretto i margini di manovra per la cosiddetta «scala di equivalenza», in base alla quale calibrare l’ammontare della prestazione tenendo conto dei familiari. Così un nucleo di sei componenti finisce per ricevere, in media, solo 150 euro in più al mese rispetto a una coppia senza figli. Un paradosso, considerando appunto gli alti livelli di povertà minorile.

Il terzo difetto congenito del RdC riguarda l’inserimento lavorativo. Le esperienze internazionali segnalano che le difficoltà non provengono solo dall’offerta (scarse competenze e capacità dei disoccupati) ma anche da quello della domanda (disponibilità di posti e richieste da parte delle imprese). Le politiche attive — quelle affidate ai centri per l’impiego e ai famosi navigator — hanno un’elevata probabilità di fallire nei contesti privi di opportunità d’impiego. Nella maggior parte dei casi, gli «avviabili» rischiano di trasformarsi da poveri in cerca di lavoro a lavoratori poveri e precari. Per contrastare questa spirale, molti Paesi hanno agito in due direzioni. Innanzitutto introducendo incentivi selettivi alle assunzioni, per abbassare il costo del lavoro. In secondo luogo, hanno erogato sussidi pubblici alle basse retribuzioni. Il provvedimento istitutivo del RdC prevede alcuni passi almeno nella prima direzione. È urgente intensificare gli sforzi, sennò è ben difficile che i Patti di Servizio e quelli di Lavoro possano produrre risultati. E in particolare nel Mezzogiorno il RdC finirà per degenerare in un sussidio a perdere, bersaglio di quelle pratiche di cattura clientelare e di corruzione che sono state una costante storica del nostro welfare.

Sul Reddito di Cittadinanza si è aperto da qualche tempo uno sterile confronto fra attaccanti e difensori l’un contro l’altro armati. La cultura politica italiana è ben poco attrezzata per ragionare in modo empirico e pacato sulle politiche pubbliche. In questo caso, sarebbe bene però cambiare registro. La povertà è un problema serio e reale, soprattutto se colpisce i bambini: la civiltà di un Paese si misura anche in base alla capacità di occuparsi dei suoi cittadini più vulnerabili. Per evitare la palude delle recriminazioni e dell’inazione, è il governo che deve dare presto un segnale. Il provvedimento istitutivo prevede un Rapporto annuale sull’attuazione del RdC. Lo aspettiamo e ci aspettiamo che sia uno studio serio e valutativo, non una semplice collezione di tabelle. Se il Conte 2 vuole essere un Governo di legislatura, il Reddito di Cittadinanza deve restare ai primi posti dell’agenda: non per «abolire la povertà», ma per contrastarla nel modo più efficace.

 

Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera il 28 dicembre 2019 ed è stato qui riprodotto previo consenso dell’autore.