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Il reddito minimo (che noi chiamiamo «di cittadinanza») esiste in tutti i Paesi europei, e non solo. L’assunto di base è che la mancanza di risorse economiche sufficienti non dipenda da comportamenti individuali, ma da eventi accidentali e/o da circostanze avverse del contesto in cui si vive. La povertà è dunque un rischio sociale, che merita solidarietà collettiva.

Questa idea ha fatto molta fatica ad affermarsi in Italia: una difficoltà paradossale vista la centralità che gli «ultimi» hanno nel pensiero cattolico e in quello socialista. Forse non è un caso che il reddito di cittadinanza sia stato voluto dai Cinque Stelle, un movimento che (allora) si definiva «né di destra né di sinistra».

Le modifiche previste dal Governo Meloni

La legge istitutiva del 2019 prevedeva un processo di monitoraggio in base a cui apportare eventuali modifiche. Come era naturale aspettarsi, l’attuazione del reddito ha messo in luce vari problemi. Si sarebbe potuta avviare una discussione pragmatica sulle cose da cambiare. Invece durante la campagna elettorale è emersa una contrapposizione manichea fra destra e sinistra: la prima schierata per l’eliminazione tout court, la seconda per la conservazione senza se e senza ma.

Con la legge di Bilancio, il governo Meloni ha introdotto un insieme di modifiche, annunciando una riforma organica delle politiche contro la povertà. Sono diventati più stringenti i requisiti di accesso e si è (opportunamente) stabilito che i percettori fra i 18 e i 29 anni senza diploma completino l’obbligo scolastico. Inoltre, le persone «occupabili» potranno fruire del sussidio per soli 7 mesi nel 2023, invece di 12.

Questo taglio ha suscitato aspre critiche. Va infatti a toccare i nervi scoperti di ogni sistema di reddito minimo: perché sussidiare una persona che potrebbe mantenersi lavorando?

Gli interventi necessari

Per secoli, la cultura protestante del Nord Europa ha considerato i poveri come «peccatori». Solo gradualmente è arrivata a riconoscere che la mancanza di lavoro ha radici strutturali e che la garanzia di un reddito minimo è un diritto fondamentale del cittadino.

La cosa importante è disegnare con cura gli incentivi e investire nelle politiche del lavoro. Da noi, più che come un peccatore, chi non lavora è visto come uno scroccone, quasi sempre protetto da qualche consorteria locale. La metafora del «divano» (sul quale poltrirebbero molti sussidiati) segnala che l’idea della povertà come «scelta» è ancora molto radicata. La tradizione clientelare del welfare italiano ha sicuramente alimentato nel tempo questa concezione.

La soluzione però non è quella di eliminare i sussidi, ma di disegnarli meglio. La riforma promessa da Meloni dovrà affrontare molti aspetti, come suggerito dal Rapporto 2023 della Caritas sulle politiche contro la povertà. La questione del lavoro andrà gestita con particolare attenzione. Innanzitutto, si dovranno valutare gli effetti del «giro di vite» appena varato, nonché l’effettiva attuazione dell’obbligo educativo. Non sarà un’operazione da poco. Su 364.000 beneficiari tra i 18 e i 29 anni, 11.000 possiedono unicamente la licenza elementare o addirittura nessun titolo e altri 129.000 soltanto il titolo di licenza media: cifre impressionanti, visto che parliamo di giovani.

La scarsità di lavori congrui alla platea dei beneficiari

Un altro fronte delicato riguarda le capacità dei centri per l’impiego. Grazie ai fondi Pnrr c’è stato un potenziamento delle strutture e un aumento dei disoccupati presi in carico. Metà delle nuove assunzioni previste non si sono ancora perfezionate: manca personale qualificato. Teniamo presente che, anche quando teoricamente occupabili, i beneficiari del reddito di cittadinanza hanno grandi difficoltà di inserimento: su 850.000 individui, solo il 30% ha istruzione superiore alla scuola dell’obbligo, il 60% ha più di 40 anni, il 65% vive nel meridione. Senza adeguata assistenza da parte dei servizi pubblici, come pretendere che in sette mesi queste persone trovino un’occupazione?

E qui arriviamo al punto più dolente. Soprattutto al Sud, mancano i posti di lavoro. È vero che c’è una quota di imprese che non riesce a trovare personale. Ma i dati di Eurostat ci dicono che il problema vero è un altro. La quantità di «occupazioni elementari» offerte dal mercato italiano è molto più bassa che negli altri Paesi sud-europei compresa la Francia. Il divario si riscontra in settori come il commercio, il turismo, le costruzioni, la sanità e l’assistenza. Data questa carenza, come si fa ad assorbire il nostro elevato surplus di disoccupati con basse qualifiche?

La scarsità di lavori congrui è il fattore che rende così intrattabile la questione povertà in Italia. Ed è anche quello che smentisce — al di là di una limitata casistica — la teoria del «divano». L’unica soluzione rapida, anche se parziale, per fronteggiare questa emergenza sarebbe quella di creare il massimo raccordo fra i progetti del Pnrr e i servizi per l’impiego (ad esempio mancano migliaia di semplici operai per completare la banda larga). Un uovo di Colombo, verrebbe da dire, che richiede tuttavia molta prontezza e capacità d’azione. Merce rara, purtroppo, nella nostra pubblica amministrazione.

 

Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera il 19 gennaio 2023 ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore.

 

 

Foto di copertina: StockSnap da Pixabay.