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L’Agenzia ONU per i Rifugiati, ha recentemente premiato con il riconoscimento “Working for Refugee Integration” 121 aziende che nel 2019 si sono contraddistinte per aver favorito l’inserimento professionale dei rifugiati e per aver sostenuto il loro processo d’integrazione in Italia.

Exar Social Value Solutions è una di queste realtà. Abbiamo intervistato Angelo Perez, responsabile Affari Istituzionali e del Team Strategy & Innovation di Exar e Deana Panzarino, responsabile dell’Area migrazione, per farci raccontare l’esperienza di chi lavora assieme alle PMI del territorio nel tentativo di costruire nuovi percorsi di vita e professionali per rifugiati e richiedenti asilo politico nel nostro Paese.


Angelo, ci puoi raccontare cos’è Exar Social Value Solutions, di cosa si occupa e su quale territorio lavora?

Exar è un’agenzia per il lavoro non-profit costituita in forma di impresa sociale che è impegnata nel sistema dei servizi per il lavoro e delle politiche attive sul territorio piemontese; principalmente operiamo nell’area metropolitana di Torino ma abbiamo anche una sede ad Alba, Saluzzo, Alpignago e Caluso.

Exar eredita l’esperienza ventennale di settore del Consorzio Kairos e del Consorzio Mestieri per l’orientamento nel mondo del lavoro di fasce deboli e di persone disoccupate, sia giovani che adulte. Nello specifico lavoriamo su progetti di inserimento e reinserimento lavorativo di diverse tipologie di persone che hanno difficoltà a trovare spazio nel mercato del lavoro. Parliamo dunque di persone con disabilità, disoccupati di lungo periodo, NEET, migranti e persone che arrivano da esperienze di detenzione o dipendenza.


Exar è attiva anche su fronti legati al tema dell’innovazione sociale. Di cosa vi occupate su questo fronte?

Sì. Negli ultimi tre anni, oltre all’attività consolidata di politiche attive del lavoro (PAL), Exar sta sviluppando nuovi ambiti di intervento strettamente connessi al tema del lavoro. In particolare sviluppiamo nuovi processi e nuovi metodi per formare il capitale umano in un’ottica inclusiva nei territori e nelle comunità in cui operiamo.

Cerchiamo di applicare le opportunità che le nuove tecnologie – come le piattaforme digitali – mettono a disposizione per potenziare la capacità di intervento e per includere nel mercato del lavoro le persone. In particolare cerchiamo di utilizzare strumenti innovativi, come la Social Network Analysis o il riconoscimento di competenze attraverso i Digital Open Badge. Infine cerchiamo di integrare l’attività svolta per le istituzioni pubbliche e filantropiche che investono nel campo delle politiche al lavoro, con attività rivolte al mercato privato in una logica consulenziale. Nello specifico offriamo servizi codificati di Diversity Management.


Ciao Deana, Angelo ci ha appena raccontato cos’è Exar. Ci racconteresti invece del premio Welcome – Working for Refugee Integration e del perché vi è stato conferito questo riconoscimento? Cosa significa per voi questo?

Per noi il premio è stato sicuramente un riconoscimento molto importante. In primis perché arriva direttamente dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e poi perché alcune realtà del territorio ci hanno stimolato a presentare la candidatura al premio, tra cui Compagnia di San Paolo. Siamo felici perché l’inserimento lavorativo di rifugiati o richiedenti asilo è un tema delicato e posso dire che la percezione delle aziende italiane negli ultimi dieci anni è cambiata molto rispetto a questa tipologia di lavoratori. Ci sono segnali di miglioramento!


Cosa vuol dire favorire il processo di integrazione e come lo fa Exar?

Per noi significa fare cultura rispetto alla ricomposizione sociale. Non amo parlare di integrazione, per me bisogna parlare di ricostruzione della società rispetto a quelle che sono le nuove sfide e i nuovi cittadini. Per cui il tema è quello di cercare di fare camminare insieme nuove migrazioni e nuove necessità delle imprese. Credo che un elemento che caratterizzi Exar e che ci abbia permesso di vincere il premio, sia legato al fatto che cerchiamo di lavorare con le aziende profit. Questa è una sfida che personalmente seguo da molti anni, valorizzando le competenze delle persone e cercando di incentivare la loro produttività.

Per partecipare al bando del premio abbiamo dovuto presentare un resoconto del nostro operato, segnalando le varie aziende con la quale abbiamo collaborato. Quasi tutte sono organizzazioni for profit e il tentativo di promuovere eticità d’impresa in queste realtà, unita ad una corretta analisi dei bisogni delle aziende e di matching con i lavoratori, ha caratterizzato il nostro operato.


Ma come si crea un valido progetto di integrazione e inserimento professionale sul territorio? Quali sono gli elementi imprescindibili?

In un progetto di inserimento lavorativo è centrale il territorio. Lo sviluppo di attività territoriali è la cosa più importante perché se il mondo profit e della produzione fosse asfittico, noi non riusciremmo a inserire persone nelle aziende. Altrettanto importante è poi l’acquisizione e il miglioramento delle competenze da parte del beneficiario, soprattutto linguistiche. Infatti uno dei maggiori problemi rimane la lingua, molte persone non sanno parlare in italiano o non lo comprendono.

Un altro elemento importante è quella della ricostruzione biografica dei beneficiari: sia rispetto al loro percorso di vita che lavorativa. Questo processo ci permette di ridare dignità alle capacità delle persone, specialmente a quelle più emarginate e senza rapporto sociale con il territorio sulla quale nessuno avrebbe “scommesso”.


Quali sono le maggiori difficoltà riscontrate nel realizzare progetti di inserimento professionale di rifugiati nel nostro paese?

Sicuramente bisogna ancora sensibilizzare le imprese sul tema e combattere i pregiudizi, anche se la creazione di cultura sta portando ad un cambiamento tangibile. La più grande difficoltà che incontriamo è però con i beneficiari, soprattutto con le persone che sono da tanto tempo sul nostro territorio e sono rimaste all’interno delle maglie dell’accoglienza. Spesso queste persone hanno delle difficoltà oggettive a vedersi come persone produttive all’interno di un contesto lavorativo. Ci sono problemi con i documenti e il Decreto Salvini ha creato tensione: la paura era che le persone potessero essere espulse da un momento all’altro. C’è poi la precarietà delle persone che seguiamo; ricordiamoci che arrivano quasi tutti da zone di guerra e spesso per questo le loro famiglie vengono distrutte o perseguitate.