Lo smart working ci consente di ripensare le idee di lavoro che tacitamente ci accompagnano da tempo, una struttura del nostro fare lavorativo quotidiano sedimentata a tal punto da essere diventata trasparente. Bene, quindi, la discussione che lo accompagna da qualche tempo, un’operazione di movimento che solleva la polvere e rende nuovamente visibili, e di conseguenza riconsiderabili, le coordinate dell’agire organizzativo.

Intanto, lo smart working non ha impatto solo sulle condizioni individuali di lavoro ma interviene sull’organizzazione e sui processi di lavoro inducendo trasformazioni più o meno percepite e di cui si ha una intermittente consapevolezza: la collaborazione interna tra le équipe professionali (uffici, gruppi, servizi), la collaborazione con altre organizzazioni, le modalità di relazione con chi fruisce dei servizi, fra settori e sedi di uno specifico sistema, nelle reti e nei progetti.

Dunque, lo smart working impatta sulla dimensione produttiva e sulla dimensione sociale e sull’interazione fra le due. Concentrare l’attenzione sui costi (apparentemente pochi) e i benefici (apparentemente molti) delle singole persone rischia di essere un’operazione semplificatoria e riduttiva, che cancella dal tavolo una rete ampia e stratificata di questioni interconnesse.

La rappresentazione dello smart working

Lo smart working si presta a polarizzanti celebrazioni e detrazioni. Si magnificano la libertà individuale e l’autodeterminazione e si lamentano sovraccarico e autosfruttamento. Si agogna un lavoro svincolato da convivenza professionale e controlli sociali e si rilevano solitudine e senso di esclusione.

Ma in questo dibattito viene spesso trascurata la complessità degli elementi che definiscono lo smart working. Tra questi è possibile individuarne otto:

  • la dislocazione delle sedi di lavoro, non necessariamente identificabili con l’abitazione, ma anche luoghi decentrati, spazi di coworking, abitazioni di familiari o di vacanza, biblioteche o altri spazi;
  • l’idea che sia possibile lavorare incuranti di vincoli temporali e in modalità esclusivamente desincronizzata rispetto ai tempi di lavoro della propria organizzazione;
  • l’ipotesi che gli strumenti e i programmi digitali siano qualcosa di dato, funzionante e rispondente alle esigenze produttive a condizione di conoscerne gli aspetti tecnici e indipendentemente da accordi operativi;
  • la dimensione socio-tecnica tendenzialmente poco considerata, anche riservando scarsa attenzione alle tecnologie meta-operative (ambienti digitali di lavoro, messaggistica aziendale, applicazioni per videoconferenze e piattaforme per il lavoro collaborativo), che consentono di mediare gli aspetti comunicativi e co-operativi;
  • la coordinazione e l’interfaccia operativa dei compiti del gruppo necessarie per assicurare gli esiti produttivi attesi;
  • la rilevanza della salute e della sicurezza, che con la ricollocazione in luoghi non organizzativi sembrano farsi ancora meno importanti per chi lavora e per chi organizza il lavoro, quasi che abitazioni o luoghi diversi non presentino elementi da considerare per prevenire rischi personali e garantire il benessere psicofisico;
  • il mutare delle regole operative, delle forme di supporto, delle dimensioni relazionali, a volte rimosse dal campo della discussione;
  • un aspetto, in alcuni casi trascurato, riguarda la variabilità delle condizioni personali: non sempre e non automaticamente la propria abitazione e il proprio contesto familiare si prestano al lavoro agile o, al contrario, a volte le condizioni del contesto lo richiederebbero. In altri casi la distanza o la prossimità rispetto al luogo di lavoro sono aspetti da considerare, così come la potenza o gli eventuali limiti nell’accesso a internet e anche le propensioni individuali determinate da interessi e condizioni. Insomma, non siamo tutti uguali (De Pisapia e Vignoli, 2021).

Se lo smart working suscita fantasie di allentamento delle dimensioni di controllo, salvo sottolineare l’incremento di lavoro, di intensità e di affaticamento (con effetti che sembrano indicare la necessità dell’introduzione di meccanismi di autodisciplina), possiamo pensare che insieme all’analisi delle soluzioni operative e all’impatto sulla produttività, anche le dimensioni soggettive e relazionali possano essere oggetto di indagine (Chevrier, 2012).

Allo stesso modo può venire presa in considerazione la trasformazione del senso del lavoro quale spazio personale di realizzazione identitaria (Lhuilier, 2005), anche attraverso la costruzione di capacità di adattamento creative, sostenibili e soddisfacenti. E, contrariamente a quanto sembra emergere dai discorsi sul lavoro agile, non si tratta (solo) di una scelta individuale. Il lavoro agile richiede autonomia, auto organizzazione, autogestione, ma non è un lavoro isolato (ed è bene che non sia isolante).

Otto spunti per lavorare in smart working

Proprio per tenere in considerazione tutte le complessità legate al lavoro agile, vogliamo fornirvi otto spunti per agevolare l’attuazione di questa modalità organizzativa. Ovviamente si tratta di spunti che devono poi tenere conto della varietà e della complessità delle situazioni operative, organizzative, personali.

1. Adottare un’agenda digitale condivisa

Una prima indicazione – piuttosto semplice nell’idea base, ma non sempre immediatamente facile da adottare – è la condivisione dell’agenda attraverso una piattaforma digitale. Per molti l’agenda è uno strumento esclusivamente personale: è il luogo della gestione del proprio tempo, delle disponibilità, delle ipotesi, degli incastri e delle alternative sovrapposte. È lo strumento che per eccellenza ci aiuta a governare la risorsa più preziosa, il tempo, ma cedere (un po’ di) sovranità non è facile.

L’agenda digitale fornisce un quadro di insieme. Ciascuno acquisisce elementi di valutazione sul carico di lavoro dei singoli e del gruppo e sulle normali evoluzioni e riconfigurazioni. In fondo l’agenda condivisa è un cruscotto dei tempi di lavoro che restituisce a chi la alimenta e la consulta lo stato operativo del gruppo. Si tratta di un modo per socializzare l’andamento delle attività. L’agenda condivisa porta con sé elementi di controllo sociale, è innegabile, ma anche aspetti di vantaggio: se ben tenuta facilita il rendiconto delle attività, consente di sapere se una persona è raggiungibile e può venire interpellata o se è occupata. Con alcune accortezze operative, e sulla base dell’accordo interno al gruppo di lavoro, facilita il raccordo fra le persone che fanno parte dello staff di un ufficio o gruppo di lavoro.

Se una delle parole chiave del lavoro agile è condividere, allora, grazie all’agenda digitale si possono condividere presenze, assenze, attività, disponibilità, cambiamenti in corsa e in corso. Come abbiamo detto l’agenda digitale consente di condividere la situazione complessiva del gruppo di lavoro. Usarla non è difficile e tuttavia richiede un minimo di accordi procedurali e una certa cura nel mantenerla via via aggiornata.

2. Stabilire confini temporali e rispettarli

Vale la pena considerare tre elementi relativi al tempo:

  1. è una risorsa preziosa;
  2. il controllo sul proprio tempo costituisce uno dei fattori che influenzano il benessere lavorativo (Avallone e Paplomatas 2005);
  3. nel lavoro da remoto, in particolare nel lavoro da casa, non è facile distinguere il tempo lavorativo da quello personale.

Nel considerare la variabile tempo, in gioco ci sono il proprio tempo, il tempo del gruppo e il tempo sociale di tutti gli interlocutori interessati e coinvolti. Si potrebbe obiettare che una caratteristica del lavoro agile è di poter lavorare quando si vuole, ma si tratta di un’espressione quanto meno iperbolica. Più prosaicamente si intende che è possibile determinare il proprio tempo lavoro – cioè quello cin cui si svolgono le attività produttive – e il tempo socio-organizzativo nel quale si è immersi. Ad esempio, nel lavoro amministrativo è logico immaginare una certa autonomia nell’organizzare i tempi del proprio lavoro, ma è anche necessario concordare dei tempi di disponibilità per interagire con i colleghi e le colleghe, e con i clienti interni o con interlocutori che hanno l’esigenza di entrare in contatto con la specifica area amministrativa.

Consideriamo una seconda situazione, ad esempio un servizio sociale. È plausibile che una o due giornate di lavoro possano essere svolte da remoto e con una certa elasticità nei tempi; ma è altrettanto plausibile che vi siano accordi operativi interni al servizio per assicurare una raggiungibilità nel corso delle giornate di lavoro così da rendere possibili i necessari scambi e raccordi lavorativi. Ma non sono solo i confini che determinano il tempo operativo accessibile (il tempo della co-connessione) ad interessarci: ci sono anche i tempi della disconnessione. E su questo punto non solo è fondamentale concordare i tempi che non possono venire invasi dal lavoro, ma anche concordare cosa ciò significhi, concretamente.

Nel piano organizzativo per il lavoro agile (Bertone et al., 2021) è fondamentale esplicitare l’estensione dei tempi di lavoro e dei tempi personali da rispettare. Parlare di disconnessione significa segnalare il tempo in cui non vi è disponibilità ad essere raggiunti (e se questo è anche un tempo non riservato al lavoro è bene esplicitarlo). In ogni caso il tempo della disconnessione è un tempo nel quale non si è reperibili o raggiungibili. Ciò significa che in quel tempo non ci si mandano e-mail, messaggi istantanei, vocali, colpi di telefono (salvo emergenze o accordi specifici tra le persone interessate. E qui torna in gioco l’agenda a cui abbiamo accennato al precedente punto). In queste occasioni sono utili i programmi di messaggistica aziendale che segnalano in tempo reale la disponibilità del contatto.

3. Rimanere connessi (ma non iperconnessi)

Rimanere in contatto, raggiungibili, nel corso del lavoro personale e del gruppo di cui si fa parte è fondamentale. Uno strumento efficace sono le applicazioni di messaggistica. La più diffusa è WhatsApp, ma non è detto sia la più efficace per assicurare il raccordo interno. WhatsApp, infatti, ha almeno tre svantaggi: è ad invio immediato (non è programmabile), viene usata sia per comunicazioni personali, sia per comunicazioni di lavoro (salvo avere due sim o due smartphone) e, inoltre, come accade in genere con i programmi di messaggistica, viene utilizzata con scarsa sorveglianza del testo scritto (Chirico e Maino, 2020).

4. Quando è possibile, fare ufficio virtuale

Una caratteristica in parte apprezzata, ma anche avvertita come faticosa, è la solitudine nel lavoro. Tuttavia non tutte le attività da remoto devono essere svolte individualmente. Si tratta di alternare momenti di lavoro sincroni (in ambienti virtuali) e asincroni (gestiti in autonomia nei contesti di lavoro individuali).

Esistono infatti uffici virtuali che consentono di lavorare in compresenza, su compiti coordinati o distinti, o di costituire, attraverso sessioni di lavoro distinte (stanze virtuali), sottogruppi di lavoro che possono discutere, ragionare, lavorare a specifici compiti che richiedono interazione fra le persone.

Si fa ufficio virtuale per non sentirsi soli, per dare un ritmo alla propria giornata, per poter iniziare scambiando due parole mentre si beve un caffè, per poter chiedere supporto, scambiare considerazioni, per poter fare pausa, per dare valore ad una delle componenti del lavoro: la sua dimensione sociale.

5. Allestire spazi dedicati

Nel lavoro agile ciascuno si colloca in contesti propri: luoghi geografici diversi, ambienti differenti, situazioni personali e familiari che sono il contesto, la dimensione concreta in cui il lavoro da remoto si svolge quotidianamente (si pensi alla presenza dei figli a casa, in didattica a distanza, nei periodi di emergenza acuta della pandemia).

Vi è la necessità di ricavare uno spazio di lavoro sufficientemente confortevole, che rispetti i criteri di salubrità e sicurezza richiesti dalla normativa e precisati dalle disposizioni operative della propria organizzazione, al riparo per quanto possibile da elementi di disturbo, in grado di comunicare che si è in una situazione di spazio e tempo dedicati al lavoro al proprio intorno relazionale (alle persone che condividono la casa o lo spazio di coworking).

Lo spazio di lavoro è uno dispositivo produttivo (Hess, 2003) tanto quanto le tecnologie digitali. Può essere uno spazio anche temporaneo che si allestisce e si smantella al termine dell’attività lavorativa, ma deve consentire di poter lavorare. Sono molti gli aspetti a cui prestare attenzione, a volte macroscopici, a volte piccoli dettagli capaci però di fare la differenza:

  • una connessione sufficientemente potente e stabile per il tipo di lavoro che si deve fare (bisogna scambiare grossi file? sono necessari frequenti incontri in videochiamata?);
  • prese elettriche in numero adeguato, comode da raggiungere e collegate a un impianto manutenuto e sicuro;
  • uno spazio di lavoro ampio quanto basta per avere a disposizione tutto ciò che serve e confortevole;
  • luce naturale o artificiale che non affatichi la vista, dunque con l’intensità giusta e la giusta angolazione (meglio non lavorare con il sole negli occhi o riflesso direttamente sul monitor);
  • aerazione adeguata agli spazi di lavoro e al tempo di permanenza;
  • temperatura confortevole e senza flussi d’aria che colpiscono direttamente il corpo;
  • un piano di lavoro spazioso per accogliere la strumentazione in uso robusto e dell’altezza giusta rispetto alla sedia;
  • una sedia comoda, con una seduta che affatichi il meno possibile e agevoli la corretta postura;
  • strumenti digitali adeguati al lavoro che si deve svolgere.

Questi aspetti, insieme a quelli che non hanno trovato spazio in questo elenco, riverberano direttamente sulla qualità delle condizioni di lavoro e sulle condizioni di sicurezza degli spazi nei quali si lavora in smart working. Sono dunque elementi da non sottovalutare, un rischio in cui si incappa piuttosto facilmente soprattutto quando si lavora da casa e ci si trova quindi a utilizzare per lavoro spazi, arredi e strumenti pensati per un tipo diverso di fruizione.

6. Prendersi cura della propria salute e sicurezza

La questioni relative a salute e sicurezza vengono spesso sottovalutate non solo da chi sta in posizione di vertice ma anche da chi si trova in posizione operativa. Anche per quanto riguarda lo smart working, i rischi non vanno sottovalutati (e neppure enfatizzati): vanno invece rilevati con cura, assumendo la variabilità dei luoghi e il loro non essere accessibili a chi ha compiti di valutazione della sicurezza delle condizioni operative, e vanno contrastati minimizzandoli con interventi che rendano il lavoro agile sicuro.

Sottolineiamo cinque focus di attenzione: la sicurezza degli ambienti; la sicurezza dei dispositivi; l’attenzione alla postura; il rispetto delle pause di lavoro; le condizioni di sicurezza personale. A proposito di quest’ultimo punto: l’incolumità personale è un elemento da considerare con l’accortezza di non esporsi a situazioni potenzialmente pericolose. Quanto all’attenzione a non determinare situazioni di pregiudizio per il proprio fisico, la corretta postura, pause frequenti, esercizi che aiutino a non sovraccaricare la schiena, sono da tempo indicati come un elemento da monitorare per svolgere un corretto lavoro da remoto (Holtermann et al., 2017).

Anche l’affidabilità dei dispositivi elettrici che si usano, l’attenzione alle prese di corrente, al rischio di incendi o di folgorazione, alle caratteristiche del controllo dell’illuminazione, della temperatura e dell’areazione sono aspetti da non trascurare. Molto ci diranno le statistiche su incidenti, quasi incidenti e infortuni occorsi durante lo smart working, ma già ora le organizzazioni, in modo operativo possono chiedere un contributo alle persone che lavorano in parte o a tempo pieno da remoto.

7. Condividere esperienze e apprendimenti

La carenza di competenze diffuse può essere utilizzata come alibi per non affrontare la sfida del lavoro agile, rallentando così processi sperimentali che portano alle organizzazioni esperienze preziose. La richiesta di sviluppare competenze professionali non può essere rivolta in modo esclusivo al singolo lavoratore o alla singola lavoratrice. Da un lato il coinvolgimento attivo personale è vitale per promuovere apprendimenti situati e crediamo che possano essere richiesti impegno e responsabilità individuale riguardo ai processi di apprendimento professionali. Dall’altro la formazione, l’aggiornamento, la condivisione di competenze operative resta una responsabilità organizzativa, che l’organizzazione deve assumere come impegno.

Abbiamo già dedicato una riflessione alla formazione per promuovere la diffusione e la messa a punto di modalità di lavoro agile (Maino, Salaris, Bertone, 2021). Si tratta di mettere in campo momenti di formazione come spazio di contatto con novità e acquisizione di conoscenze e competenze, momenti di aggiornamento che permettano di rigenerare saperi consentendo di mettere a fuoco approcci metodologici allo sviluppo di conoscenze e know-how che passino dal confronto professionale e dallo scambio di acquisizioni operative sul campo, e che consentano una riflessione collettiva sulle pratiche, investendo energie nel valutare le modalità di lavoro, i format che strutturano l’operatività, le opportunità che posso suggerire sperimentazioni e innovazioni.

Lo smart working si presta a forme di semplificazione, a stereotipi pro o contro modalità di lavoro da remoto, con l’effetto di mettere in ombra ampie possibilità di adeguare le coordinate professionali attraverso il riconoscimento delle potenzialità che la collaborazione nei gruppi di lavoro può portare anche alla rigenerazione delle competenze. Immaginare il lavoro da remoto come un lavoro che non espelle l’esperienza collettiva, istituire momenti di scambio fra i gruppi di lavoro, sottolineare come difficoltà, carenze, soluzioni che nascono dalle esperienze possono incontrare schemi di operatività innovativi e generare nuove modalità di lavoro, apprendimenti utili ai singoli e ai gruppi di lavoro costituisce una opportunità da non sottovalutare (Elliot, 2021).

In particolare si tratta di favorire maggiori dimestichezze con gli strumenti digitali per operare, collaborare, aggiornarsi e riqualificarsi proattivamente. La varietà di strumenti digitali che possono venire impiegati si presta a favorire il lavoro distribuito svolto in forma collaborativa. Per certi versi, il lavoro agile, a distanza, mediato dalle tecnologie digitali può costituire un’occasione ideale per tematizzare la collaborazione nei gruppi di lavoro, per riflettere sulle forme di sostegno organizzativo, sulle modalità di condivisione dei processi operativi, sulle soluzioni formative individuali, autonome, sviluppate in coppia, o nel gruppo. Il lavoro agile, al crescere delle opportunità di auto organizzazione richiede che vengano considerate e definite le forme di coordinamento e di cooperazione.

Come abbiamo argomentato (Maino, Salaris, Bertone, 2021) il suggerimento, in questo caso, è di attivare due movimenti convergenti: chiedere e offrire supporti. Chiedere supporti comporta mantenersi vigili sulle attività lavorative che si svolgono e rilevare le difficoltà, gli inciampi e le discontinuità. Il quadro degli ostacoli e di quello che sarebbe utile sapere costituisce una risorsa per il gruppo: ci si può confrontare per segnalare aspetti da affrontare e approfondire, per chiedere che la formazione sia una risorsa di supporto anche all’attività lavorativa svolta da remoto.

Insieme alla richiesta fondata su elementi valutabili, la formazione può essere uno spazio di condivisione del gruppo, o fra gruppi. Ogni persona è portatrice di conoscenze tacite che possono rivelarsi risorse preziose; nei gruppi ci sono persone che hanno o sviluppano competenze che possono portare benefici lavorativi, a condizione che vengano messe in circolo. Per poter socializzare e consolidare competenze operative, digitali, settoriali è necessario attivare dispositivi organizzativi facilitanti. Non si tratta di introdurre strutturazioni particolarmente vincolanti, a volte può bastare l’istituzione di appuntamenti per condividere gli apprendimenti, fissare un momento che consenta di ritrovarsi e scambiare quello che si è imparato nelle ultime due settimane. Può essere sufficiente un’ora, un link, un file condiviso per segnare quello che servirebbe sapere e quello che di utile si può condividere. Ci si trova così meno soli, meno sguarniti, meno paralizzati. E anche meno emotivamente e cognitivamente distanti, anche se si lavora da sedi dislocate.

Naturalmente la condivisione di conoscenze e competenze operative si arricchisce dei contributi offerti da momenti formativi dedicati e dal supporto di figure esperte che possono essere presenti nell’organizzazione o venire ingaggiate per offrire supporti temporanei ai gruppi di lavoro. Un gruppo di lavoro affiatato non solo rende internamente disponibili saperi utili all’operatività e alla creazione di migliori condizioni di lavoro, ma produce conoscenze situazionali efficaci socializzabili.

8. Darsi un piano di lavoro flessibile

Sappiamo che l’autorganizzazione e la “contro” organizzazione sono fenomeni presenti negli ambienti di lavoro e segnalano – come ci ricorda Michel de Certeau nell’ambito dei ragionamenti sul lavoro di straforo (2005, pp. 57-62) – la capacità dei soggetti e dei gruppi di mettere in campo intelligenza e soluzioni vantaggiose. Proprio perché lo smart working determina circostanze originali, è particolarmente importante attivare competenze pratiche e metterle in circolo producendo una cultura del lavoro agile locale, ricercando contemporaneamente vantaggi per l’organizzazione e per sé, per le proprie condizioni lavorative e per quelle dei gruppi di lavoro in cui si è inseriti.

Per questo – sviluppando gli spunti offerti dalle riflessioni di de Certeau (2005, pp. 63-79) può avere un senso mettere al servizio dell’interesse del singolo e del gruppo apprendimenti e soluzioni per amplificarne la portata e governare le disparità che nei contesti organizzativi si possono determinare. Meglio avere un piano condiviso, concordare linee operative, coinvolgere i gruppi di lavoro nella definizione di progetti guida aperti ai portati delle esperienze e darsi una linea di azione che raccolga lo sviluppo delle esperienze di smart working, che fissi alcuni orientamenti e connetta buone soluzioni e le renda disponibili per i gruppi di lavoro.

Lo smart working può essere uno spazio di ripensamento collettivo del lavoro, anche sulla scorta del pensiero del legislatore che – con la legge 81/2017 – ha posto la responsabilità individuale a fondamento del lavoro agile. Allo stesso modo i soggetti coinvolti nella ricerca di vantaggi reciproci per sé e per l’organizzazione possono contribuire a escogitare piani di lavoro concordati evitando imposizioni procedurali e alimentando scambi professionali e dinamiche collaborative.

Un piano per uno smart working funzionale

Ed è proprio il suggerimento Michel de Certeau (2005) a proposito dell’utilità delle tattiche per reagire alle costrizioni invadenti e per sviluppare spazi di autonomia creativa, di collaborazione vantaggiosa e di produttività costruttiva che ci suggerisce di pensare che potrebbe valere la pena lavorare ad un piano per la diffusione di smart working. Tale piano dovrebbe essere partecipato, propositivo ed anche reattivo, che provi a far tesoro degli apprendimenti positivi e a minimizzare disegni strutturanti poco sensibili ai continui mutamenti che investono le strutture organizzative.

Abbiamo così provato (figura 1) a sintetizzare quattro attività per costruire un piano per il lavoro agile e lo smart work fatto di tattiche reattive e proattive, un piano che identifichi le attività da svolgere, le modalità di lavoro, i compiti e le responsabilità.

Le quattro fonti che possono alimentare – anche attraverso forme di costruzione partecipata – una definizione in progress del piano per lo smart working sono:

  • il progetto di impresa, le linee e prefigurazioni di sviluppo sulle quali l’organizzazione intende investire;
  • la conoscenza delle tecnologie disponibili, delle caratteristiche, delle funzionalità di programmi e ambienti digitali, spazi e strumenti necessari, considerando anche costi e tempi di transizione dalla situazione attuale ad una situazione più rispondente.
  • l’analisi dell’evoluzione dei servizi e dell’esigenza di fruitori e committenti, per comprendere quali evoluzioni digitali si vanno affermando o potrebbero affacciarsi;
  • la rilevazione dei punti di vista, delle esigenze concrete in ambito lavorativo e relative alla sfera personale, e delle propensioni di lavoratrici e lavoratori consentirà poi di calibrare direzione e tempistiche.

Un piano di smart working nasce dagli indirizzi organizzativi, dalla lettura del contesto e del mercato, dall’esame dell’operatività di servizi e attività, dall’analisi del punto di vista di chi lavora nell’organizzazione, anche se non direttamente o marcatamente investito dalla possibilità di svolgere attività in forma agile.

Per costruire condizioni organizzative ricettive

Nello sforzo che ci vede impegnati a immaginare un’estensione degli spazi e delle forme di lavoro (con investimenti fiduciosi, con perplessità fondate, con incertezze motivate, con tentativi di ridimensionarne la portata) possono esserci d’aiuto due atteggiamenti.

Da un lato è cruciale attivare immaginari più ricettivi. Lavorare in smart working può essere una bella opportunità, anche se non mancano aspetti di fatica da non sottovalutare. Come abbiamo provato ad argomentare a partire dalla nostra esperienza e dall’esperienza rilevata in organizzazioni diverse, sono necessarie alcune accortezze per ottenere buoni frutti e minimizzare le controindicazioni. Nel lavoro ci sono spazi per costruire relazioni e per codeterminare accordi operativi (lo si fa anche con scarsa consapevolezza). Una delle componenti del lavoro che riduce la fatica e contiene lo stress è l’interazione cooperativa (Falla e Sirota, 2012). Nel dibattito di questi mesi, una promessa implicita dello smart working è stata l’idea dell’autodeterminazione, dell’autogestione, della – alla fine raggiunta – possibilità di liberarsi dai vincoli organizzativi e dai rapporti professionali.

Crediamo si tratti di una lettura da investigare, ma certamente poco realistica. Semmai ci sembra vero il contrario. Il lavoro agile richiede che vi sia coordinamento, richiede raccordo, implica la consapevolezza dell’interdipendenza, ed esige che si lavori per creare e mantenere condizioni socio-professionali di supporto reciproco. Quello che vede il lavoro agile come dimensione liberante, come lavoro sottratto alle fatiche e ai condizionamenti delle relazioni, come rapporto focalizzato e disintermediato con l’attività affidata è un immaginario altamente rischioso (da molti, diversi punti di vista). Il lavoro agile può aprire opportunità, sperimentate in modo accelerato, per condizioni di maggiore condivisione e collaborazione professionale.

In secondo luogo è necessario affidare responsabilità condivise ai gruppi di lavoro. Anche il lavoro a distanza, in un modo che dobbiamo studiare e comprendere, presenta una dimensione gruppale e sociale. Questo aspetto sembra essere trascurato, a partire dall’impostazione della norma 81/2017. Crediamo che a partire dallo studio degli ambienti digitali virtuali che prevedono (con relativa consapevolezza di chi li abita e vi lavora) spazi di lavoro individuale, spazi collaborativi, spazi informativi interni e spazi pubblici di interazione allargata, sia possibile ragionare delle condizioni che rendono il lavoro a distanza un lavoro collaborativo diffuso. Si tratterebbe ad esempio di considerare gli spunti proposti da Delahaye (2012) a proposito delle caratteristiche che costituiscono un gruppo di lavoro per verificare se e in che modo si articolano nel lavoro a distanza.

Sviluppare una cultura dello smart working richiede un lavoro di osservazione delle proprie e delle altrui esperienze, di partecipazione al dibattito in corso e di ricerca di soluzioni adattive migliorative che identifichino schemi di lavoro produttivi, in grado di ampliare le relazioni fra persone e sottosistemi, che includano valori, soluzioni operative, tecnologie e ambienti digitali (Bednar e Welch, 2019).

In un prossimo contributo porteremo l’attenzione sul ruolo che gli ambienti virtuali di lavoro giocano nel contribuire a determinare condizioni di lavoro agile efficace e sostenibili, ed anche sulle funzionalità che possono favorire o ostacolare la collaborazione operativa, con l’idea che molto di ciò che si sviluppa per attività da remoto potrebbe essere riproposto nel lavoro in presenza.


Riferimenti


Questo contributo è parte del Focus tematico Collaborare e partecipareche presenta idee, esperienze e proposte per riflettere sui temi della collaborazione e della partecipazione per facilitare cooperazione e coinvolgimento. Curato da Pares, il Focus è aperto a policy maker, community maker, agenti di sviluppo, imprenditori, attivisti e consulenti che vogliono condividere strumenti e apprendimenti, a partire da casi concreti. Qui sono consultabili tutti i contenuti del Focus.