Dal 1975 la cooperativa sociale Comin realizza nell’area metropolitana milanese e nelle province di Pavia e di Monza e Brianza interventi educativi a favore di bambini e famiglie in difficoltà attraverso comunità di accoglienza, promozione dell’affido familiare, assistenza educativa a casa e a scuola, sviluppo di comunità; in tempi più recenti ha ampliato l’ambito di intervento realizzando servizi rivolti alle persone anziane. Con il supporto di Pares, Comin ha promosso un laboratorio sulla scrittura collaborativa digitale rivolto alle figure di coordinamento. Insieme allo sviluppo di competenze digitali, riferite in particolare all’uso di Zoom, Google Drive e Miro, le attività formative hanno previsto la costituzione di sei gruppi di scrittura su questioni cardine per l’organizzazione. Questo è il secondo articolo nato da tale attività. Qui trovate il primo dedicato al Service Learning.

Casa, famiglia, comunità: tante situazioni, tante forme

Nel mondo esistono diversi tipi di abitazioni, ognuna rappresenta un diverso modo di entrare in relazione con l’ambiente circostante e con la comunità umana di appartenenza.

Ad esempio in Groenlandia c’è chi vive in case completamente di ghiaccio, poiché la neve è un ottimo isolante termico e protegge dal vento; in alcuni casi diversi igloo sono collegati tra loro da cunicoli. Alcune popolazioni di nativi americani, invece, vivono tradizionalmente nei teepee, tende a forma conica con al centro un fuoco acceso con fumo che esce da un foro centrale; facili e veloci da montare e smontare come si addice ai popoli nomadi.
In Occidente, tendenzialmente, viviamo in case di muratura di vario tipo a seconda delle possibilità e delle esigenze. È ovviamente molto diverso vivere in una casa indipendente oppure in una corte in cui tutti possono incontrarsi; ad ogni modo, però, la casa rimane il luogo dell’intimità.

Al contempo la famiglia è luogo di vita e di relazione e rappresenta il nucleo della convivenza sociale. All’interno della nostra cultura esistono diversi tipi di famiglia, tutti meritevoli di riconoscimento sociale e giuridico; non è infatti importante che tipo o che quantità di legami una o più persone abbiano per essere considerate famiglia. Anche i confini tra le famiglie sono articolati, “frastagliati”: famiglie nucleari connesse alla famiglia allargata o ad altre famiglie; legami che si modificano con l’evolversi delle storie di vita dei componenti e con forme plurime di connessioni familiari.

Le comunità, infine, rappresentano diverse modalità di essere famiglia o di tessere legami interfamiliari. Nel mondo si riscontrano diverse modalità di aggregazione comunitaria: i kibbutz, le comuni hippie, le comunità di monaci, i condomini solidali, le comunità virtuali, le comunità parrocchiali e molte altre e poi… le comunità di accoglienza. Proprio su queste ultime vogliamo concentrarci nel nostro ragionamento.

La comunità di accoglienza è un servizio

Per vari motivi, alcuni ragazzi e bambini devono vivere al di fuori della propria famiglia, giudicata inadeguata o maltrattante; in questo caso possono essere inseriti in comunità di accoglienza.

Qui trovano delle persone, gli educatori, che vogliono farsi carico della loro crescita e il cui operato avviene in sinergia, in rete, con altre figure e istituzioni ciascuna col proprio ruolo specifico; vi sono pertanto “irruzioni” di diverso tipo nella loro vita e nella loro casa. L’assistente sociale è responsabile, interviene nelle scelte cruciali, chiede conto, riceve relazioni periodiche degli educatori, a volte incontra il ragazzo o la ragazza per valutare l’andamento del suo progetto educativo. L’autorità giudiziaria è più distante fisicamente ma, a livello simbolico e reale, incombe con la decisione iniziale e con la valutazione per l’esito; i suoi tempi piuttosto lunghi impongono un ritmo esterno e a volte ingombrante alle scelte di vita. L’autorità sanitaria (ATS, ASL, USL…) attraverso delle visite di controllo verifica i requisiti di funzionamento richiesti alla struttura.

Vi sono inoltre le esigenze di mantenere e regolare il rapporto con la famiglia d’origine, che può rappresentare occasione di sollievo affettivo, ma anche di intralcio concreto alle scelte quotidiane e di vita dei ragazzi quando essa non è in grado di comprenderle e sostenerle.

In questo senso la comunità di accoglienza si configura dunque come un servizio che, nel rispetto di un insieme di regole e procedure, permette di rispondere ai bisogni delle persone accolte.

La comunità è una casa

I ragazzi hanno tuttavia la necessità, oltre che il diritto, di trovare un luogo dove coltivare progetti, sogni, aspirazioni, curare le proprie ferite e i propri traumi, ricostruire la fiducia verso gli altri, trovare la “tana” e il rifugio nelle fatiche della vita quotidiana.Per questo la comunità deve essere anche casa, sia nell’aspetto fisico che in quello simbolico.

Per permettere a ragazzi e bambini di sentirsi pensati e curati all’interno della comunità, gli educatori lavorano insieme ai ragazzi per renderla una casa calda ed accogliente, attraverso la cura degli spazi e delle azioni quotidiane. I ragazzi accolti, insieme agli educatori, vivono le loro giornate con ritmi ed esperienze comuni (si svegliano, fanno colazione, vanno a scuola, gestiscono il tempo libero, etc…); all’interno di questa quotidianità sono inseriti diversi momenti di cura di sé, degli altri e dello spazio vissuto, che tutti insieme, educatori e ragazzi, si trovano a sperimentare, imparando dove c’è da imparare.

Come in ogni casa lo spazio di vita è spesso condiviso, sia tra ragazzi che tra educatori, è importante quindi dedicare momenti di attenzione individuale per garantire la specificità di ciascuno permettendo di sentirsi pensato in modo unico e speciale. In questo modo ragazzi e bambini vivono, insieme agli educatori, delle esperienze di forte intimità (simbolico in questo senso è il tempo della sera e della messa a letto, dove ci si raccoglie in una sorta di rifugio personale) all’interno di una reale condivisione attenta alle esigenze di tutti.

Questi momenti permettono la nascita e la crescita del sé all’interno di relazioni familiari. Anche per questo nella comunità è importante occuparsi delle decorazioni e dei particolari. Nella storia di accoglienza della cooperativa Comin è riservata attenzione alle foto che raccontano nel tempo la vita di ogni persona in quella casa: foto di vacanze, gite, feste, momenti di intensa condivisione o improvvisi attimi di ironia e felicità. Attraverso questi muri ricoperti di fotografie le persone che entrano nella casa della comunità possono godere delle storie che l’hanno abitata ed animata negli anni, possono ritrovarsi e rivivere l’intimità che li lega, tra di loro e a quel luogo, oltre a manifestare alle persone che in quel momento la abitano un prima e un dopo di cui faranno per sempre parte.

L’educatore tra vita e professione

La complessità della professione dell’educatore è spesso non riconosciuta, nascosta com’è nelle pieghe dei sistemi educativi in cui opera. Debole e forte per questa indeterminatezza, l’educatore è un acrobata tra due mondi: da una parte crea intimità e familiarità all’interno di una casa accogliente e viva, dall’altra accompagna i ragazzi ed i bambini nelle relazioni con l’esterno (che sia il servizio sociale, la propria famiglia d’origine, il gruppo di pari, la scuola, etc…).

L’educatore in comunità non può fare a meno di imparare a tenere tutto il suo peso su un solo piede, quando necessario, e per fare questo deve conoscere bene il proprio baricentro, per allinearlo con l’ambiente circostante e non rischiare cadute. La vita in comunità è fatta di prassi quotidiane che alimentano relazioni vere e profonde, in questo modo la vita al di fuori della comunità non può rimanere fuori; rientra nei discorsi e nelle esperienze che si vivono all’interno della casa comunità.

Se sono abituata a cucinare la carbonara con mia mamma in un certo modo, ne parlerò con i ragazzi mentre preparo un pasto caldo al loro rientro da scuola e così sentiranno che non c’è solo la figura professionale lì con loro ma una persona con la propria storia, i propri sogni, i propri affetti: la propria vita che ha piacere di condividere con loro. Allo stesso modo, nel momento in cui c’è la necessità di mettere in pratica gli strumenti educativi acquisiti nella propria formazione e nella propria esperienza professionale, sarò in grado di adoperarli nel modo corretto rimanendo la stessa persona che cucina la carbonara. Ciò che rende l’educatore un bravo acrobata tra la propria vita e la propria professione è la consapevolezza di come e quanto condivide di sé, sia con i ragazzi che con il gruppo dell’equipe e di come porta la propria postura all’interno della comunità.

 Di fondamentale importanza per la salute della vita della comunità tutta è la qualità delle relazioni tra gli educatori. Come accade in una famiglia dove l’armonia tra gli adulti è l’elemento che consente la costruzione di un ambiente familiare sano, non intriso di falsità, che può permettere al figlio di crescere in modo sereno e positivo. Sentirsi davvero una squadra compatta che punta all’efficacia del risultato, a prescindere da chi poi materialmente butta la palla in rete, agire con leggerezza e franchezza nel confronto, fiduciosi della comprensione e della stima reciproca, in clima caldo e affettivo. È per questo che è facile l’instaurarsi di legami profondi e caldi tra gli educatori, ovviamente con affinità elettive, che spesso permangono oltre la dimensione lavorativa. Possiamo dire che spesso i legami interni all’equipe educativa sono specchio del clima presente nel gruppo dei ragazzi, che in questo come in altri casi vengono influenzati dalla postura e dalle relazioni tra gli educatori.

Ma la comunità è una casa aperta. Inevitabilmente come abbiamo visto. Aperta anche a chi può avere il diritto di indirizzarne la vita o di porre veti. Anche per questo è necessario conoscere e rapportarsi al contesto in cui si opera per aiutare tutti a vivere le interferenze come protezione, come una possibilità in più. A proposito di possibilità in più diventa fondamentale scovare quelle che già sono presenti nelle relazioni che il ragazzo costruisce attorno a sé. Aiutarlo a riconoscerle, a valorizzarle. E quando serve dare, con la giusta misura, una spinta per aiutare chi c’è a mettersi in gioco. Tra queste interferenze, nel bene e a volte purtroppo anche nel male, la parte del leone la fa proprio la famiglia naturale, quando è presente ma anche quando gioca solo un ruolo simbolico.

Vivere con due case

Il ragazzo e l’educatore condividono l’esperienza di “vivere con due case”.

Il ragazzo si ritrova, infatti, a lasciare una casa in cui “fare pulizia”, dentro di sé o anche al di fuori, se ci tornerà, perché è una casa in cui ha vissuto malessere; la sua vita, poi, prende nuova forma in una nuova casa, quella della comunità, dove è fondamentale che abbia uno spazio proprio in cui portare se stesso e costruire e ricostruire parti di sé.

Allo stesso tempo l’educatore porta la “propria casa” nella comunità come condizione necessaria per fare in modo che il ragazzo possa fare esperienza di nuove ed inedite modalità di essere casa e famiglia.

Del resto, oggi, vivere con due o più case è una condizione comune a molti e sancisce anche i processi di crescita di noi come persone.

La comunità è un momento di passaggio che poi porti sempre con te

La comunità è, per mandato, un momento di passaggio. Il suo compito è quello di proiettare verso il futuro. Per fare questo è necessario che la comunità come casa, come ambiente di vita che abbiamo descritto sopra, rappresenti un ponte tra un passato di sofferenza da rielaborare ed un futuro di senso, fornendo strumenti essenziali per trovare il coraggio di affidarsi di nuovo, di creare legami, di sperimentare l’appartenenza, per identificarsi e diventare sempre più consapevoli.

Anzi spesso i legami e le esperienze vissuti in questa fase di vita rimangono come ricordo che fortifica, a volte come risorsa a cui riferirsi in qualche momento di difficoltà. Non solo, spesso c’è l’esigenza di ritrovarsi per ricordare le esperienze comuni e condividere quel futuro che nel tempo si è costruito.

Conclusioni: epistemologia del racconto

Vi abbiamo raccontato in parole semplici e vive l’esperienza delle comunità di Comin. Sotto questa esperienza, però, si cela un pensiero pedagogico che abbiamo costruito, rivisto e rafforzato negli anni, cercando di rispondere alle domande che l’incontro con ragazze e ragazzi ci presenta ogni giorno.

Cosa può rendere possibile il cambiamento? Cosa rende possibile la ricostruzione di legami di fiducia nel mondo degli adulti? Di cosa ha davvero bisogno un ragazzo per ricostruire la fiducia in se stesso e progettare il proprio futuro? Come si costruisce uno spazio di cura vero all’interno della comunità? In che modo gli educatori possono essere una possibilità di trasformazione? Che visione del lavoro educativo prende forma dal modo che ha l’educatore di vivere la comunità?

Queste sono solo alcune delle domande che affrontiamo e che animano il nostro impegno nel costruire e nell’alimentare un pensiero pedagogico forte. Tu, se vuoi, aggiungi le tue.


Questo contributo è parte del Focus tematico Collaborare e partecipareche presenta idee, esperienze e proposte per riflettere sui temi della collaborazione e della partecipazione per facilitare cooperazione e coinvolgimento. Curato da Pares, il Focus è aperto a policy maker, community maker, agenti di sviluppo, imprenditori, attivisti e consulenti che vogliono condividere strumenti e apprendimenti, a partire da casi concreti. Qui tutti i contenuti del Focus.