5 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini”.

È la frase di Paul Ricoeur che apre il concept note con cui Aiccon, il Centro Studi dell’Università di Bologna, presenta il tema delle Giornate di Bertinoro per l’Economia Civile 2023: “Oltre la forma. Risignificare le organizzazioni per generare cambiamento“, che si svolgeranno il 13 e 14 ottobre a Bertinoro. Una frase, quella del filosofo francese, perfetta per introdurre il cuore del documento: un testo breve ma denso di spunti che, senza troppi giri di parole, mette ben in evidenza la profonda crisi in cui è immersa la nostra società. E che ormai sembra essere sempre più forte pure nel Terzo Settore.

Anche questo mondo sembra infatti essere immerso in una crisi di senso in cui standard, certificazioni, modelli, processi e forme soffocano continuamente le aspirazioni e le visioni. E con loro, appunto, gli ideali che dovrebbero muovere le azioni di singoli e organizzazioni del Terzo Settore. A volte sembra quasi che non ci sia più spazio per immaginare, aspirare, sognare… forse addirittura sperare. E questo porta necessariamente all’incapacità di cambiare. O quanto meno di cambiare in meglio. L’impressione è che ogni idea, ogni moto di cambiamento non incanalabile a priori, non riesca a farsi strada, rimanga imprigionato nelle sempre più numerose sovrastrutture che dovrebbero rendere più efficienti le azioni ma che, invece, le svuotano di principio.

In breve anche nel Terzo Settore, e più in generale nel mondo dell’Economia Civile, si guarda di continuo alla forma ma nella maggior parte dei casi manca la consapevolezza del fine, di quel senso profondo, di quella sostanza che dovrebbe essere il motore di ciò che si fa. E di come lo si fa.  Abbiamo chiesto a Paolo Venturi, direttore di Aiccon, di aiutarci a capire meglio queste questioni e di dirci cosa si aspetta che emerga dalle tante sessioni previste nel programma delle Giornate di Bertinoro di quest’anno.

Paolo, il tema di quest’anno è davvero sfidante ma anche “scomodo”, perché sottolinea senza giri di parole come il Terzo Settore, che per tanti anni secondo me si è creduto immune alla più ampia crisi di senso che investe molti ambiti della nostra società, stia invece venendo meno ad alcuni principi e caratteri quasi ontologici che lo hanno sempre contraddistinto. Perché lo avete scelto?

Perché facendo ricerca, formazione e osservando la realtà ci è apparso un tema urgente e necessario. Abbiamo sempre pensato che “mezzi e fini” di un’organizzazione “not for profit” potessero procedere di pari passo ed in maniera coerente, in maniera naturale, automatica. Non è così. Oggi assistiamo ad una crescente separazione fra le finalità – spesso consegnate solo allo statuto – ed i modelli organizzativi e le motivazioni al centro del lavoro, dovuta in parte alle trasformazioni esterne e in parte all’incapacità di molte organizzazioni di affrontare la sfida del cambiamento. Abbiamo parlato, giustamente, per molto tempo di ri-forma. Credo sia arrivato il tempo di aprire un cantiere sulla ri-sostanza delle organizzazioni.

In questo senso la sfida che lanciate è quella di “risignificare le organizzazioni”, perché solo così si possono realizzare cambiamenti che ci potranno portare fuori da questa crisi. Ma nel concreto cosa vuol dire? Come si fa a risignificare?

Alle Giornate di Bertinoro non arriviamo mai con un pacchetto di soluzioni, ma non abbiamo timore di portare una prospettiva, quella dell’Economia Civile, e delle proposte. Il primo passo – come detto – sta nel ridisegnare le istituzioni legando insieme 3 livelli quasi sempre frammentati: motivazioni, modelli organizzativi e fini. Un tema che rilancia la necessità di mettere mano tanto alle questioni del “giusto compenso” quanto a quelle del senso e della soddisfazione dei lavoratori.

Gallup ha stimato che in Italia il 4% dei lavoratori si dichiara soddisfatto. Questo dato è tragico, perché una persona insoddisfatta è depotenziata nella capacità di agire sulla realtà. Nel sociale questo tema è fondante ed il crescente indebolimento del desiderio nel lavoro è una patologia che mina le fondamenta della diversità dell’economia sociale. Ri-sostanziare significa riappropriarsi della consapevolezza del valore di ciò che si fa.

Chi ha questa consapevolezza guarda la complessità come una sfida positiva, innova senza chiedere il permesso e ha un approccio pragmatico e intraprendente. Chi rinuncia a questa sfida è molto probabile che cada nella trappola della tecnocrazia o della tecnica. La spinta di regole, metriche, bandi e di una compliance sempre più invasiva, richiede un forte ancoraggio a ciò che differenzia queste organizzazioni da Stato e Mercato. Un passaggio necessario in un’epoca di grandi trasformazioni. Cambiamenti che necessitano della diversità del Terzo Settore. Il rischio che vedo è quello di una convergenza su una idea di sostenibilità economica e sociale, orfana però di relazioni, beni comuni, comunità e democrazia economica. Il terzo pilastro, infatti, non serve a riparare, ma a riqualificare lo sviluppo.

Perché questo avvenga servirebbero dunque un ecosistema adeguato, alleanze, una politica sussidiaria… 

Assolutamente. Questo è un tema centrale. Non si genera trasformazione – ma potremmo dire educazione, inclusione, innovazione… mi fermo solo per esigenze editoriali – in solitudine. La trasformazione, ossia la capacità di costruire oggi qualcosa di migliore e più giusto per domani, implica una moltitudine di apporti e logiche cooperative.

Tutte le sfide che abbiamo di fronte son dilemmi cooperativi, serve perciò apertura. In molti prevale la tentazione dei “fabbricanti di candele”, tema di un celebre saggio di Frédéric Bastiat in cui si raccontava come le corporazioni dei produttori di candele chiedessero al Parlamento francese una legge per tenere chiuse le finestre di giorno… Una richiesta pensata per continuare a fare quello che han sempre fatto.

Per non cadere in questa tentazione conservatrice, occorre una robusta azione di apertura e investimento in reti territoriali, ma anche al pensiero critico e alle istanze della comunità. L’incapacità di innovazione nel tempo alimenta la tecnocrazia.

Dal punto di vista ideale il tema che proponete è bellissimo, perché aiuta ad alzare lo sguardo dai tanti orpelli, meccanismi e regole con cui le realtà di Terzo Settore devono confrontarsi, o forse sarebbe meglio dire scontrarsi, ogni giorno. Ma nel concreto come si possono accompagnare le organizzazioni e le persone che le compongono in questo cambiamento?

Serve un piano nazionale per l’educazione all’economia sociale nelle scuole e nelle università. Serve una strategia contributiva di tutta l’economia sociale per rendere le politiche più includere e sostenibili. Serve un investimento sulla formazione a tutti i livelli per potenziare le competenze e ri-aggiornarle in termini digitali e ambientali. Servono luoghi dove rilanciare conversazioni, pensieri e progettazioni intorno ad aspirazioni e desideri. Servono reti per incoraggiare e finanziare l’innovazione sociale. Serve un riconoscimento economico rilevante e radicale del lavoro di cura…

Potrei andare avanti nella lista, ma mi fermo perché oggi il tema non è cosa ma come. Ri-sostanziare le istituzioni significa non fermarsi al cosa, ma prendersi la responsabilità di dire come. In questo senso l’amministrazione condivisa deve diventare metodo non appena per conservare l’esistente, ma per ridisegnare percorsi fra soggetti diversi che hanno una comune responsabilità pubblica e per potenziare la contribuzione delle comunità, cedendo loro più potere.

Ultima domanda: cosa ti aspetti che emerga dai tanti panel previsti dal programma delle Giornate di Bertinoro di quest’anno?

Spero che la gente possa tornare a casa un po’ inquieta, ma profondamente soddisfatta e incoraggiata.