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L’idea di economia sociale non rimanda in sé ai temi specifici dell’assenza di lucro, dell’impegno della società civile, dell’ambiente, del Terzo Settore. Fa propri questi temi, perché concorrono a definire delle coordinate di natura politica, culturale e valoriale che riguardano l’eguaglianza, la partecipazione, la redistribuzione, la sostenibilità. Piuttosto valorizza le connessioni tra le organizzazioni lavorative, la cittadinanza attiva, le istituzioni, l’associazionismo, i gruppi informali attivi. E a questo processo di valorizzazione delle connessioni attribuisce il significato di “sociale”, quando queste ultime sono finalizzate a produrre qualità della vita e coesione in un ecosistema.

Con altri termini, in una mia recente pubblicazione (30 tesi sul rilancio della pianificazione sociale), si ritrova una definizione compiuta di economia sociale: “A determinare le politiche locali di sviluppo dell’economia sociale sono una serie di connessioni strategiche, conoscitive, organizzative, progettuali e culturali attivate da un panel di attori costituito da soggetti istituzionali, imprenditoriali, non profit, associativi, scientifici che – in maniera coordinata e a partire da una visione e dei valori comuni – possano giocare ruoli, funzioni, mandati e azioni integrate ed efficaci ai fini dello sviluppo di specifiche politiche pubbliche finalizzate a promuovere benessere diffuso e sostenibile oltre che coesione sociale, in sistemi a trazione ecologica.”

Emerge, da tale definizione, in maniera chiara che il soggetto principale attorno a cui ruota una strategia locale di economia sociale – che, a partire da quanto detto, potremmo anche definire come “economia della transizione” – non è l’impresa sociale in sé. Quanto l’ecosistema umano, paesaggistico, culturale, relazionale, economico, produttivo, digitale. Sia pure con gradienti diversi, in questa fase storica di passaggio, ogni soggetto pubblico e privato può concorrere a creare potenzialmente economia sociale. O, se vogliamo evitare titolazioni, un’economia più funzionale a stimolare nei territori una qualità della vita diffusa.

Costruire “economia sociale”, tra profit e non

Sulla base di quanto affermato, potremmo dire che “costruisce” in via preliminare o parziale economia sociale anche un’azienda profit che – mantenendo intatto l’obiettivo del profitto – decide di ridurre il danno derivante da politiche mercatistiche troppo aggressive, creando progettualità compatibili con azioni di secondo welfare, di responsabilità sociale di impresa. Ma soprattutto, specie in questa fase di transizione, è fondamentale che ogni impresa investa parzialmente nelle comunità locali in quanto punto di riferimento culturale, relazionale, e non solo in quanto spazio di produzione e accumulo di capitale.

Teniamo presente che – in ogni caso – non si può chiedere a soggetti locali caratterizzati da interessi privatistici e lobbistici e a soggetti privati nati nel mercato, di diventare all’improvviso attori “costituzionalizzati”, attenti esclusivamente alla ”comunità” o al benessere complessivo di un territorio.

I primi anticorpi o slittamenti che producono cambiamento, del resto, possono anche nascere in un brodo primordiale e indifferenziato fatto di contraddizioni, coesistenza tra modelli culturali ortodossi, conservativi e nuove gemmazioni. La vera questione è: come valorizziamo le prime, impercettibili e ambigue variazioni?

Alla fine, si può condividere con ogni attore pubblico e privato – non pienamente informato come soggetto dell’economia sociale -, un percorso graduale (o temporaneo) di apprendimento, di interpretazione del senso, di investimento crescente nella dimensione locale. Un habitat che può rappresentare un contesto concreto di produzione di miglioramenti organizzativi e culturali per la stessa impresa o la comunità territoriale (processo di costituzionalizzazione).

Fermiamoci a riflettere sul versante “pubblico” o di tutela del concetto di “pubblica utilità”. La situazione è altrettanto ambigua ed in divenire. Molti soggetti come gli enti locali, i sindacati, le associazioni e le imprese sociali, le università, pur avendo finalità pubbliche ed essendo senza fini di lucro, non rappresentano in maniera scontata un salto di paradigma o un punto di vista avanzato attorno all’economia sociale. Così come, per rimandare ad un’altra situazione reale, molte imprese a scopo di lucro fondano la propria governance su un’attenzione per la qualità del lavoro e su processi decisionali condivisi più di quanto lo facciano a volte una cooperativa sociale o un’associazione di volontariato.

Il ruolo del sistema territoriale e delle reti

A questo punto, la differenza tra un approccio e l’altro riguardante le varie scuole di economia sociale non è tanto tra modelli alternativi o integrativi rispetto a quelli del mercato proposti dalle dottrine liberiste. La differenza riguarda quelli che sono gli elementi strutturali che entrano in gioco, gli attori che li fanno propri e i processi che siamo in grado di avviare per promuovere cambiamento e innovazione.

Ci avviciniamo a poco a poco alle progettualità da costruire. Ciò vuol dire investire obbligatoriamente nel sistema territoriale in termini di relazioni, alleanze, partnership, reti. E questo implica una serie di prerequisiti essenziali.

In primo luogo, se ci riferiamo al mondo delle imprese è necessario favorire lo sviluppo di modelli di economia sostenibili, partecipati e rivolti all’utilizzo di parte del surplus economico-finanziario, delle competenze e delle metacompetenze acquisite in produzione di beni comuni. Questo allo scopo di puntare in prevalenza, nell’attuale fase storica, su azioni di sharing, di efficientamento e di rigenerazione sociale ed ecologica.

È altresì importante smussare il ruolo predominante dell’economia e della finanza tradizionali che troppe volte non producono ricadute dirette e misurabili sui livelli di benessere nei territori e di preservazione degli ecosistemi sociali. Ribadendo una volta per tutte che la qualità della vita in sistemi sociali complessi a trazione ecologica dipende da servizi, crescita di filiere collaborative (produttive e mutualistiche), opportunità diffuse di sviluppo sostenibile, rilancio del territorio in chiave culturale e partecipativa (accessibilità).

Al centro di un approccio al territorio fondato sull’economia sociale e della transizione, vi è l’attivazione di percorsi permanenti di democrazia deliberativa e di partecipazione (nelle comunità locali, nelle istituzioni e nelle organizzazioni lavorative, nelle esperienze associative e cooperative) in grado di promuovere modelli di governance locale che restituiscano responsabilità e protagonismo alla cittadinanza e ai lavoratori, all’interno di un rapporto dialogico (responsiveness) tra cittadini, organizzazioni territoriali e istituzioni. Attivando e favorendo, al contempo – se parliamo di come costruire politiche amministrative e di gestione degli enti locali – esperienze di coprogettazione, coprogrammazione e di pianificazione aperta a contaminazioni tra dimensione civica, economica, ed istituzionale: quindi tra polis, civitas e communitas.

Si devono, infine, ridefinire e potenziare i sistemi di welfare locale nella direzione di una tendenziale e diffusa ibridazione tra politiche pubbliche in grado di tenere insieme sviluppo sostenibile, tutela dei diritti universalistici, qualità della vita e logiche ecosistemiche. Occupazione, ambiente, green, white e blue economy, welfare e salute, wellness e tempo libero, sport, cultura, tutela del patrimonio, turismo accessibile e sostenibile, responsabilità sociale d’impresa, nuove tecnologie, rappresentano esempi di politiche a trazione sociale, perché in grado di orientare i livelli di qualità della vita nei contesti locali. Si capisce da sé il ruolo strategico e imprenditoriale che possono giocare in questa partita una impresa o un’associazione di categoria.

Dalle reti alle alleanze per l’economia sociale

Eppure, le proposte di sistema non bastano se non si pensa ad alleanze culturali e gestionali specifiche. Nessuno corre da solo se vuole investire nell’economia sociale. Vanno attivati, in questo senso, patti in cui il rapporto tra mondo profit, istituzioni e non profit, sia orientato in alcune direzioni precise.

Si deve superare la contrapposizione stereotipata tra “chi specula” (le imprese), “chi gestisce con logiche procedurali e burocratiche” (le istituzioni) e “chi lavora per la tutela dei diritti” (il non profit). Tutti i soggetti che attualmente governano il mercato (compreso quello dei servizi non profit), comprese le istituzioni, devono necessariamente fare propri modelli organizzativi e gestionali più efficientati, partecipativi e redistributivi.

Vanno, poi, individuati e ridefiniti possibili spazi di collaborazione e di integrazione tra gli attori locali per costruire politiche di eguaglianza delle risorse, delle opportunità e dei risultati, con un ridotto impatto ambientale.  Oltre l’idea essenzialista di filiera mista pubblico-privata o profit-non profit.

Sullo sfondo, una domanda, che ci riguarda come abitanti del pianeta, come esseri umani, prima che come imprenditori, cooperatori, funzionari: abbiamo davvero la capacità di integrare mandati, culture e linguaggi delle istituzioni pubbliche, delle imprese e dell’associazionismo, esaltandone l’integrazione soprattutto ai fini della produzione di uno sviluppo umano ed ecologico?

Quali realtà coinvolgere e come? Il ruolo dei Patti locali

Costruire dei Patti locali di area vasta per la promozione dell’economia sociale o di un’economia della transizione, vuol dire tenere insieme, quindi, attori sociali provenienti da mondi diversi e farli dialogare dal punto di vista progettuale e degli obiettivi comuni. Senza leggere, in ogni attore, solo la vicinanza o la distanza assoluta dai valori fondativi e dai driver che orientano pratiche di economia sociale alternative. Piuttosto, ad essere lette devono essere le potenzialità e la dinamicità con cui si affronta uno specifico percorso insieme agli altri. La transizione, oltre ad essere guidata, va spinta e sostenuta. In fondo, l’eventuale conflitto tra soggetti differenti, se ben orientato, porta a risultati migliori dell’omologazione e della cristallizzazione che rischiamo oggi, in un momento di stallo e di inerzialità.

Il compito di un sociologo, di un antropologo, di un urbanista, di uno psicologo sociale, di un educatore, di un manager o di un amministratore pubblico, che vivono una esperienza di economia della transizione è quello di stare tra i conflitti, nelle arene abitate da differenti portatori di interesse, e di percepirsi come agente di cambiamento, negoziatore, elaboratore, facilitatore. Da soggetti imprigionati nelle procedure diventano davvero professionisti che comprendono e gestiscono le interazioni e i processi trasformativi.

In concreto, elenchiamo gli attori sociali potenzialmente interessati a promuovere un patto locale per generare economia della transizione e – aggiungiamo con una nota di sano realismo – progettualità a valere sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), più consapevoli:

  • enti locali e istituzioni,
  • Enti del Terzo Settore,
  • imprese sociali ed imprese profit,
  • associazioni di categoria e sindacati,
  • mondo della scuola, della formazione tecnica e professionale,
  • università e istituti di ricerca,
  • gruppi informali di cittadini

In maniera modulare ogni realtà deciderà, in base alla tipologia di investimenti e di contributi che sarà in grado di garantire, se:

  • essere funzionale alla progettazione,
  • gestire azioni complesse,
  • avere un ruolo di indirizzo,
  • avere un ruolo da stakeholder,
  • condividere come sostenitore gli obiettivi e le finalità del Patto d’Area,
  • essere un fruitore e un destinatario di interventi e progetti.

Naturalmente, è possibile collaborare a più livelli. Tuttavia, al di là del rapporto diretto tra profit, non profit, istituzioni e tipologie di contributi che abbiamo appena affrontato, ricordiamoci che c’è una questione ancora più delicata da affrontare subito. Riguarda le funzioni prioritarie collegate ai mandati che agisce più complessivamente sul territorio ognuno degli attori principali che vogliono investire sulla transizione. Mandati spesso involuti, di scarsa gittata, fondati sull’autoreferenzialità e una insufficiente capacità di cambiamento.

Diciamoci la verità, senza apparire tracotanti: se il Parlamento, gli enti locali, le grandi associazioni di categoria, le centrali cooperative, il mondo del volontariato, le università e la scuola (per citare alcuni soggetti con responsabilità dirette in un ragionamento strategico di questo tipo) avessero fatto proprie riflessioni simili a quelle condivise in questo piccolo saggio, avrebbero affrontato, presumibilmente, con più lucidità e con più metodo lo sviluppo del PNRR. Attivando spazi sufficienti di sperimentazione, monitoring e valutazione, avremmo utilizzato in maniera più efficace l’opportunità complessiva che ci troviamo davanti? Il rischio ora è quello della transizione permanente. O di una transizione rannicchiata su sé stessa.  Scegliete voi.

 

Per approfondire

  • Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, 1984
  • Bonazzi G., Come studiare le organizzazioni, Il Mulino, 2006
  • Catino M., Miopia organizzativa. Problemi di razionalità e previsione nelle organizzazioni, Il Mulino, 2009
  • Duglas M., Come pensano le istituzioni, Il Mulino, 1990
  • Hatch M.J., Teoria dell’organizzazione, Il Mulino, 2013
  • Inserra P. P., 30 Tesi sul rilancio della pianificazione sociale. Ripartiamo da vent’anni di 328, Biblis edizioni, 2021
  • Lakoff G., Non pensare all’elefante! Come riprendersi il discorso politico, Chiare Lettere, 2019
  • Muller J.Z., Contro i numeri. Perché l’ossessione per dati e quantità sta rallentando il mondo, Luiss University Press, 2019
  • Vergani E., Costruire visioni, Exorma, 2012
  • Weick K. E., Senso e significato nelle organizzazioni, Raffaello Cortina editore, 1997.