Negli ultimi decenni, le società europee – compresa quella italiana – hanno vissuto profondi cambiamenti, spinti da fenomeni come la de-industrializzazione, mutamenti demografici e sociali, l’integrazione crescente dei mercati e, più di recente, la doppia transizione digitale ed ecologica. Questi processi hanno modificato in modo significativo la distribuzione e la diffusione dei rischi sociali. 

Interi territori, gruppi sociali, famiglie e individui si trovano ad affrontare difficoltà e insicurezze inattese, e nuovi bisogni sono emersi con particolare forza, come l’obsolescenza di risorse e competenze che un tempo garantivano un reddito e un’occupazione stabili, la diffusione di contratti precari, le grandi difficoltà nella conciliazione tra responsabilità lavorative e vita familiare.

Non sempre di pari passo, anche il sistema di protezione sociale è stato oggetto di riforme sostanziali. Dagli interventi sulle pensioni alle modifiche delle assicurazioni contro la disoccupazione, fino alle politiche contro la povertà, sono numerosi gli ambiti di politica sociale che hanno conosciuto trasformazioni rilevanti. Sebbene non manchino analisi puntuali sui punti di forza e di debolezza delle singole riforme, dopo trent’anni di trasformazioni è necessario fermarsi a riflettere in modo più ampio: quali caratteristiche ha assunto nel corso degli ultimi decenni il nostro sistema di protezione sociale? È la domanda intorno a cui ruotano i contributi raccolti nel focus, da noi curato, del numero 3/2024 della rivista Politiche Sociali/Social Policies, intitolato
Addio welfare all’italiana? Mutamento e resistenze tra investimento e protezione sociale”.

Fino alla Grande Recessione: contenimento dei costi e distorsioni del welfare italiano

Per tale pubblicazione, nel nostro saggio introduttivo ricostruiamo i principali cambiamenti nell’architettura di policy del sistema italiano di welfare, individuando le condizioni che hanno facilitato o ostacolato le trasformazioni nei diversi settori di intervento.

Ben noto è il punto di partenza. A metà anni Novanta, il Welfare State italiano presentava alcuni elementi caratteristici che ne limitavano tanto l’effettività quanto l’equità nel fornire protezione contro i diversi rischi sociali: un’allocazione sbilanciata delle risorse tra i settori della protezione sociale (distorsione funzionale) a favore delle pensioni in contrasto con il sottofinanziamento delle politiche familiari, del lavoro e dell’assistenza sociale; una distribuzione iniqua delle risorse tra i vari gruppi (distorsione distributiva) a vantaggio di alcune categorie più garantite (insider) a fronte di altre meno (mid-sider) o per nulla tutelate (outsider). A questi due elementi si aggiungevano la mancanza di uno schema nazionale di reddito minimo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, e il sottosviluppo dei servizi sociali rispetto alle prestazioni monetarie. Faceva da corollario il persistente ruolo della famiglia come istituzione erogatrice di welfare, in contrasto con i modelli de-familizzati (o in procinto di de-familizzarsi) nell’Europa nordica e centrale.

In questo quadro com’è cambiato il Welfare State italiano in trent’anni di riforme? Le numerose riforme di welfare adottate, sono state in grado di ricalibrare il sistema di protezione sociale, riducendo le distorsioni qui sopra sottolineate?

I provvedimenti adottati fino alla metà degli anni 2010 rivelano che, mentre le riforme strutturali e di (robusto) contenimento dei costi in campo pensionistico (e sanitario) hanno perseguito con decisione l’agenda della componente sottrattiva del processo di ricalibratura, pochi o nulli sono stati i risultati lungo la dimensione espansiva di quest’ultima. Con la parziale eccezione della riforma dei sussidi di disoccupazione contenuta nella riforma Fornero del 2012, l’evocata espansione delle politiche per famiglie, bambini, anziani non autosufficienti, poveri, disoccupati, lavoratori flessibili e precari rimaneva sostanzialmente al palo.

È dunque con il persistere delle tradizionali distorsioni allocative lungo le dimensioni funzionale e distributiva che il Welfare State italiano ha navigato le acque in tempesta della crisi del debito sovrano (2010-2012) e della Grande Recessione, quest’ultima particolarmente prolungata in Italia (2008-2014). La crisi sociale che ne è scaturita è stata, non inaspettatamente, di ampia portata: i livelli di povertà ed esclusione sociale si sono impennati oltre la media europea, la povertà si è diffusa in aree (Centro-Nord) e tra gruppi in precedenza relativamente immuni, il tasso di grave deprivazione materiale è duplicato nell’arco di pochi anni, la precarietà si è espansa non solo tra i giovani ma anche tra i lavoratori prossimi al pensionamento, e ciò nonostante la contrazione dell’occupazione sia stata temperata dall’utilizzo (anche in deroga) delle integrazioni salariali tradizionali, ora riscoperte come cruciali strumenti flessibili nella gestione delle crisi occupazionali.

Dopo la Grande Recessione: quali riforme per i settori “dimenticati”?

Usciti dunque dalla Grande Recessione “con le ossa rotte”, ci siamo chiesti se le riforme introdotte nell’ultimo decennio abbiano ulteriormente modificato i tratti essenziali del Welfare State italiano e, eventualmente, in che direzione: le misure introdotte sono state in grado di contrastare la crisi sociale generata dalla Grande Recessione, specialmente tramite lo sviluppo dei settori di policy tradizionalmente arretrati nel sistema di protezione sociale?

Il focus di Politiche Sociali/Social Policies 3/2024, pubblicato in occasione del suo decennale, tenta di rispondere a tali interrogativi attraverso un’analisi dettagliata delle misure e degli interventi nei settori tradizionalmente dimenticati del Welfare State italiano: politiche per la famiglia, politiche di contrasto alla povertà, politiche attive del lavoro, politiche per la non-autosufficienza, politiche di “investimento sociale”. Si tratta di settori di policy nei quali non soltanto il welfare state italiano presenta ben noti ritardi e carenze strutturali, ma la cui rilevanza funzionale è aumentata esponenzialmente negli ultimi decenni in un contesto economico, sociale ed istituzionale profondamente trasformato rispetto alla fase espansiva del Welfare State europeo.

Che cosa ci dicono dunque i contributi racchiusi in questo numero per il decennale della Rivista? Vi sono segni di un superamento dei tratti fondamentali del Welfare State all’italiana?

Senza dubbio vi sono segnali di una graduale trasformazione del sistema di protezione sociale italiano verso un assetto meno sbilanciato: si osserva infatti una attenuazione delle tradizionali distorsioni funzionali e distributive. In particolare, la distorsione funzionale è stata significativamente ridotta per effetto di due decenni di severe riforme sottrattive in campo pensionistico, cui ha fatto seguito, dopo la Grande Recessione, un maggiore investimento in sussidi di disoccupazione e misure anti-povertà più generose e inclusive. L’introduzione dell’Assegno Unico e Universale per i figli a carico e i risparmi futuri derivanti dalle riforme pensionistiche possono ulteriormente avvicinare la distribuzione della spesa lungo l’asse funzionale alla media europea.

Per quanto riguarda la distorsione distributiva, le riforme di austerità dell’ultimo decennio hanno ridotto i “picchi” di generosità nei sussidi di disoccupazione e soprattutto nel settore pensionistico per i cosiddetti insider. Nel frattempo, l’espansione della copertura dei sussidi di disoccupazione, l’introduzione di un reddito minimo non contributivo e di un assegno familiare universale hanno migliorato la protezione per outsider e mid-sider in almeno tre settori di policy, contribuendo a ridurre gli squilibri distributivi.

Nonostante i provvedimenti adottati, è però forse troppo presto per dire “addio” al Welfare State all’italiana, che presenta ancora alcune evidenti criticità. In primo luogo, la spesa per politiche attive del lavoro, servizi per l’infanzia e servizi sociali rimane ampiamente al di sotto della media Ue: il Welfare State italiano continua dunque a incontrare forti difficoltà nello sviluppare il settore servizi. In secondo luogo, il Governo Meloni sta facendo passi indietro -interrompendo o rallentando significativamente le riforme e, di conseguenza, gli investimenti – in ambiti come politiche per la famiglia, povertà e non autosufficienza. Infine, alcune funzioni stanno diventando – la sanità – o rimangono gravemente sottofinanziate, come in particolare il sempre più rilevante settore delle politiche per la casa.

Dalle politiche per la famiglia ai servizi per il lavoro: a che punto siamo? 

Andando a guardare più nel dettaglio le singole aree di policy, il saggio di Madama e Pavolini mostra che segnali di cambiamento importanti rispetto all’assetto tradizionale si riscontrano nel settore delle politiche per la famiglia. I provvedimenti adottati nell’ultimo decennio hanno segnato una rilevante discontinuità lungo diverse dimensioni: significativo aumento della spesa con l’introduzione dell’Assegno Unico e Universale per i Figli a carico; sganciamento della tutela dell’occupazione dei genitori e superamento dell’approccio “categoriale” con inclusione dei minori figli di out e mid-sider su base universalistica; razionalizzazione delle misure a favore delle famiglie con figli; rilancio dei servizi per la prima infanzia specie con il PNRR e sfruttando le risorse Ue. Non è però tutto oro quel che luccica: l’importo dell’Assegno, benché progressivo, rimane limitato in chiave comparata, mentre il previsto incremento di copertura degli asili nido è stato significativamente ridimensionato.

Anche il settore delle politiche contro la povertà, come noto, ha conosciuto profonde trasformazioni. Il contributo di Natili e Fabris mostra come in un periodo tutto sommato contenuto – dieci anni – vengono introdotte ben tre riforme paradigmatiche in un settore che aspettava interventi sostantivi ed efficaci da quasi settant’anni. Se da un lato si è dunque colmata, con l’introduzione di uno schema di reddito minimo nazionale, la lacuna che per lungo tempo aveva caratterizzato quest’area di policy, dall’altro la misura introdotta con l’ultimo intervento, l’Assegno di Inclusione, si caratterizza per livelli di spesa e copertura entrambi ridotti, sanzioni e condizionalità molto forti, attivazione per lo più rivolta all’inclusione lavorativa tramite incentivi negativi: un modello, questo, che sembra poco efficace per rispondere alla perdurante ampia diffusione della povertà in Italia, che oramai coinvolge strutturalmente anche nuclei in cui sono presenti lavoratori.

Rispetto ai settori di povertà e famiglia, meno rilevanti sono i cambiamenti nel settore della non autosufficienza. Infatti, come mostrano Ranci, Arlotti e Garavaglia, persino un evento di portata eccezionale come la pandemia è riuscito al più solo a scalfire l’inerzia istituzionale in questo settore di policy. Limitato investimento pubblico, disuguaglianze allocative implicite nel principale trasferimento monetario nel settore (l’Indennità di Accompagnamento), carenza di servizi pubblici e conseguente rilevanza della famiglia e (in maniera crescente) del mercato privato di cura, oltre alla frammentazione istituzionale e territoriale, sono tuttora le caratteristiche principali, l’architrave del sistema: il cambiamento avvenuto nell’ultimo decennio è tutt’al più parziale, racchiuso in alcuni “semi istituzionali” che potrebbero dare i loro frutti nel futuro.

Non troppo dissimile, seppur con una diversa tempistica, è la traiettoria delle politiche attive del lavoro delineata da Di Palma, Sacchi e Scarano. Gli autori mostrano infatti come, benché sia troppo presto per trarre una valutazione definitiva specie degli interventi più recenti (programma GOL in primis), il bilancio su trent’anni di misure nel campo delle politiche attive rimane ampiamente deficitario: una spesa significativamente inferiore alla media Ue e concentrata sugli incentivi all’occupazione, ambivalenza rispetto alle dinamiche di decentramento-riaccentramento e, più in generale, all’efficace implementazione dei principi di sussidiarietà verticale e orizzontale, persistenza di profonde differenze territoriali, anche per effetto di marcati divari nelle capacità istituzionali (e nella performance dei mercati del lavoro) delle varie regioni.

Da ultimo, il contributo di Ronchi e Cigna mostra come nel campo dei servizi volti a migliorare le competenze di giovani e lavoratori i progressi sono davvero modesti: gli autori non riscontrano il necessario aumento delle risorse per istruzione, università e ricerca. L’inclusione di un Piano nazionale per le competenze e l’apprendimento in tutte le fasi della vita e l’investimento in nuovi asili nido previsti nel PNNR, pur importanti, costituiscono cambiamenti troppo marginali nel contesto italiano per poter parlare di un cambio di paradigma: tirando le somme, l’analisi rileva pochi, e generalmente poco significativi, passi in direzione dell’investimento sociale.

I Policy Highlights di Politiche Sociali/Social Policies

 Questo articolo sintetizza alcuni degli esiti di un lavoro pubblicato sul numero 3/2024 di Politiche Sociali/Social Policies, rivista edita dal Mulino e promossa dalla rete ESPAnet-Italia. Per maggiori dettagli e citazioni: M. Jessoula e M. Natili, «Welfare all’italiana» addio?, in «Politiche Sociali/Social Policies», 3/2024, pp. 441-459.