Il ritardo dell’Italia rispetto al paradigma dell’investimento sociale
Nel corso degli ultimi vent’anni la dimensione sociale dell’Unione Europea è stata profondamente influenzata dall’approccio del “social investment”. Quest’ultimo enfatizza l’importanza degli investimenti pubblici in capitale umano e in politiche che offrano ai cittadini maggiori opportunità nel mercato del lavoro – inclusi gli interventi per la conciliazione lavoro-famiglia – come elemento chiave per rendere gli attuali sistemi di welfare al contempo economicamente sostenibili e inclusivi, in grado di rispondere a un’ampia gamma di rischi e bisogni sociali in costante evoluzione. L’Italia è stata spesso considerata poco reattiva nell’adottare riforme ispirate al modello del social investment, risultando in ritardo anche rispetto ad altri Paesi dell’area mediterranea.
In un recente articolo pubblicato su Politiche Sociali/Social Policies, abbiamo inquadrato le principali riforme del welfare italiano degli ultimi decenni nella prospettiva del social investment, proponendo un’interpretazione delle dinamiche politiche che hanno determinato la traiettoria sui generis dell’Italia rispetto alla mancata (o parziale) svolta verso l’investimento sociale.
Per riesaminare la traiettoria di riforma seguita dall’Italia ci siamo basati sullo schema analitico proposto da Anton Hemerijck (2015), uno degli studiosi che più hanno contribuito allo sviluppo del social investment come approccio allo studio comparato delle politiche sociali. Tale schema propone una distinzione fra le tre funzioni fondamentali e complementari che un sistema di welfare orientato all’investimento sociale dovrebbe perseguire: investire in “stock” di capitale umano, facilitare i “flussi” delle transizioni nel mercato del lavoro e nel corso di vita, e garantire l’inclusività degli ammortizzatori sociali, i cosiddetti “buffer”.
Le tre fasi: stasi, riforme sottrattive ed espansione dei buffer
Abbiamo così identificato tre fasi nei recenti sviluppi del welfare italiano.
La prima fase, che va dagli anni ’90 agli anni precedenti all’eurocrisi, è caratterizzata da una sostanziale inerzia, che vede riforme parziali lungo le tre funzioni di stock, flussi e buffer, senza brusche rotture con le distorsioni che hanno a lungo caratterizzato le politiche sociali e del lavoro in Italia (si pensi ad esempio alla disparità di tutele fra lavoratori ‘garantiti’ e precari).
Il cambio di traiettoria arriva con la seconda fase, che coincide con l’apice dell’eurocrisi (2011-13). A fronte dei campanelli d’allarme suonati dai mercati finanziari, il contenimento dei costi diventa una priorità in Italia come in tutto il Sud Europa duramente colpito dalla crisi economica e dall’austerità. La rottura è segnata dalle riforme strutturali adottate dal governo tecnico a guida Mario Monti, che riguardano soprattutto la funzione dei flussi nel mercato del lavoro. Si tratta tuttavia di riforme sottrattive, ovvero di interventi che riducono tutele e prestazioni sociali fino ad allora garantite. Oltre alla revisione del sistema pensionistico (la riforma Fornero del 2011), è questo il caso della riforma del mercato del lavoro del 2012 (l. 92/2012), che per la prima volta colpisce gli insider, cominciando ad allentare le regole sui licenziamenti senza giusta causa dei lavoratori a tempo indeterminato. A margine della deregolamentazione dei licenziamenti, la riforma estende in qualche misura la durata, la generosità e la copertura dei sussidi di disoccupazione, e dunque i buffer contro il rischio di disoccupazione.
A partire dal 2014 si apre una terza fase, in cui si assiste a un’espansione dei buffer, che non trova però un corrispettivo sul versante dei flussi, soprattutto rispetto all’estensione dei servizi di cura e per la conciliazione lavoro-famiglia, né degli investimenti in stock di capitale umano (istruzione, università e ricerca, oggetto di tagli alla fine degli anni 2000 e ancora oggi di una dotati di finanziamenti insufficienti e di scarso interesse politico).
Dal Jobs Act al Reddito di Cittadinanza, fino all’Assegno Unico
Il principale lascito dell’esecutivo di centro-sinistra guidato da Matteo Renzi è il Jobs Act, avviato nel 2014. La riforma combina la flessibilizzazione dei flussi con una graduale espansione dei buffer: da una parte, liberalizza i licenziamenti con l’eliminazione dell’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e l’introduzione di un nuovo contratto “a tutele crescenti” in sostituzione del vecchio indeterminato; dall’altra, in linea con quanto avviato del governo Monti, estende la prestazioni assicurative contro la disoccupazione (ora NASPI e DISCOLL), la cui platea è allargata ai contratti atipici e di cui vengono ulteriormente rilassati i vincoli contributivi. Al Jobs Act si accompagnano sforzi perlopiù limitati nel campo delle politiche attive e per la famiglia (per es. il potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro, la revisione dell’apprendistato, e una parziale estensione dei congedi di paternità).
L’avanzamento più significativo sul versante dei buffer avviene con l’introduzione di un reddito minimo garantito, assente in Italia fino al 2018. Grazie alla pressione dell’‘Alleanza contro la Povertà’ – un’ampia coalizione di organizzazioni, sindacati, esperti e vari attori della società civile – il governo Gentiloni istituisce nel 2018 il Reddito di inclusione (REI). Solo un anno dopo, con la vittoria elettorale del Movimento Cinque Stelle (M5S) e la formazione del governo Conte I insieme alla Lega, il REI viene sostituito dal Reddito di Cittadinanza (RdC), uno schema di reddito minimo con una copertura e una generosità dell’importo superiori (nonostante fosse fortemente penalizzante per i migranti, a causa al requisito di 10 anni di residenza per l’accesso al sussidio, poi dichiarato illegittimo dalla Corte di giustizia europea). Gli avanzamenti dell’inclusività delle politiche di contrasto alla povertà vengono però bruscamente interrotti dal governo Meloni. Nel 2024 l’RdC viene infatti sostituito dal nuovo Assegno di inclusione (AdI), che ne elimina i principi universalistici, ridefinendo lo schema in forma categoriale, di fatto escludendo gli adulti senza figli minori.
Il governo Conte II, nato dalla coabitazione tra i partiti di centrosinistra e il M5S alla vigilia della crisi Covid-19, beneficia dell’allentamento della stretta fiscale da parte di Bruxelles e della spinta propulsiva del Next Generation EU a seguito della pandemia. Il cambiamento più rilevante in un’ottica di social investment nasce in seno al cosiddetto Family Act. Il primo ‘pezzo’ della riforma introdotto nel 2022 è l’Assegno Unico Universale (AUU), che riordina tutte le prestazioni per famiglie con figli. A fronte di un precedente quadro di sussidi frammentato e orientato a favorire i genitori occupati, l’AUU è formato da una base universale e una componente redistributiva proporzionale al reddito. Pur non ottimizzando necessariamente le funzioni stock o flussi, l’AUU compie un netto passo avanti rispetto all’inclusività, estendendo la copertura del trasferimento anche chi non aveva in precedenza accesso agli assegni perché non lavoratore subordinato. La riforma delle prestazioni familiari è il traguardo finale di un percorso di policy-making caratterizzato da un consenso bi-partisan e avviato dalla spinta propulsiva di un’ampia coalizione di supporto – l’‘Alleanza per l’Infanzia’. Un percorso simile, e per certi versi analogo alla ‘spinta dal basso’ che ha portato all’introduzione del REI e dell’AUU, ha riguardato il tentativo di riforma della long-term care, che non si è però tradotto nella nascita di un sistema unitario di cura.
Al di là dei servizi di cura, il PNRR promuove un’agenda centrata sull’investimento sociale. La prima versione del piano punta su politiche educative, sanitarie, attive del lavoro e formative. Tra gli interventi: un piano nazionale per le competenze, il collegamento tra laureati e imprese, il rafforzamento dell’alta formazione tecnica, la creazione di oltre 150.000 nuovi posti nei nidi, il potenziamento dei servizi per persone con disabilità e anziani e l’introduzione della Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori (GOL), coordinata da ANPAL. Tuttavia, l’attuazione procede a rilento, con dubbi sul raggiungimento degli obiettivi nei tempi previsti.
Due passi avanti e uno indietro? Un difficile percorso politico
Oltre che dalle specificità del contesto economico e istituzionale, lo sviluppo del social investment in Italia è stato ostacolato dalla forte instabilità politica, più incline a cicli di “fare e disfare” che a costruzioni cumulative, come mostrato dal caso emblematico del reddito minimo, introdotto nel 2018 e già sostituito due volte, e oggi ridotto all’osso con l’introduzione dell’AdI da parte del governo Meloni.
In Italia, la politicizzazione in senso elettorale delle riforme di welfare sembra condurre a stagnazione istituzionale o a iniziative solo sul fronte delle politiche orientate al “consumo” piuttosto che all’investimento (come nel caso di Quota 100, ma anche del rafforzamento dei buffer con l’introduzione del Reddito di Cittadinanza). Nessun partito ha investito sostanziale capitale politico su riforme dei servizi per potenziare stock di capitale umano e conciliazione lavoro-famiglia.
D’altra parte, in ambiti relativamente poco controversi e meno politicizzati (come le politiche per la famiglia), è stato possibile avviare percorsi di costruzione di consenso all’infuori dell’arena elettorale. Percorsi in cui gli interessi organizzati hanno giocato un ruolo fondamentale nell’aggregare una domanda politica altrimenti frammentata, portando a graduali avanzamenti, per esempio, sul versante dei congedi parentali e con l’introduzione dell’AUU. Se l’investimento sociale non è impossibile in Italia, il suo percorso politico resta comunque impervio.
I Policy Highlights di Politiche Sociali/Social PoliciesQuesto articolo sintetizza alcuni degli esiti del lavoro pubblicato sul numero 3/2024 di Politiche Sociali/Social Policies, rivista edita dal Mulino e promossa dalla rete ESPAnet-Italia. Per maggiori dettagli e citazioni: S. Ronchi e L. Cigna, Non è un Paese per investimenti sociali? Una reinterpretazione della traiettoria di riforma del welfare e della politics del “social investment” in Italia, in «Politiche Sociali/Social Policies», 3/2024, pp. 553-571. |